Nel terzo capitolo del celebre Kafka. Per una letteratura minore di Gilles Deleuze e Félix Guattari del 1975 appare, al limite dell’offesa al senso comune e/o al buon senso, eppure senza tutto ciò, un paragrafo che definisce il destino della poesia o della letteratura:
Ricco o povero che sia, un linguaggio qualsiasi implica sempre una deterritorializzazione della bocca, della lingua e dei denti. La bocca, la lingua e i denti trovano la loro territorialità primitiva negli alimenti. Votandosi all’articolazione dei suoni, la bocca, la lingua e i denti si deterritorializzano. Vi è dunque una certa disgiunzione tra parlare e mangiare – e ancor di più, malgrado le apparenze, fra mangiare e scrivere.[1]
Le parole di Deleuze e Guattari impongono una distanza incolmabile tra l’atto primario della bocca e quelli che sono invece soltanto atti accessori, che richiedono, per essere eseguiti, una rifunzionalizzazione degli organi della masticazione in organi della fonazione. Questa conversione è l’atto con cui tra il contatto diretto (sia esso sguardo, morso, percezione, deglutizione, assorbimento) e la sua resa in parole si apre uno iato che rende impossibile al linguaggio di compiere – nella sua astrattezza inorganica – quella conferma di presenza che solo l’atto fisico è in grado di offrire. Nella tradizione poetica occidentale (ma anche non occidentale) e specialmente lirico-romantica, l’atto poetico si è andato configurando come il tentativo di riconquista, nell’apparato fonatorio, della forza del momento pre-indessicale che, per mostrare qualcosa, necessitava un contatto, un rapporto, un morso capace di chiamare in causa tutte le funzioni primarie. Un tentativo di concepire la poesia come il luogo in cui la ricongiunzione fra linguaggio e mondo possa essere raggiunta grazie alla potenza evocativa del verso, capace di ricreare corpi e materia nelle parole. Questa tradizione va, grosso modo, dal Cratilo di Platone ai Sonetti a Orfeo di Rilke in cui, in un vortice sinestetico, si afferma di «danzare l’arancia» di unirsi «alla scorza che pure si nega | al succo che la colma, beata» (Sonetti a Orfeo I, XV), passando per un Dante che, dopo averla persa, innalza per Beatrice “un castello di presenza, d’immortalità e di ritorno”[2]. Un movimento, quello poetico, che in qualche modo possa dare adito alla concessione e all’inaugurazione di significato delle cose anche dopo la nominazione, come se le parole fossero la materia che esse nominano. O, almeno, alla presa di coscienza di una distanza fra nome e cosa e che faccia, di questa distanza, un’interrogazione mai paga.
Questa presa di coscienza, questo gioco di riappropriazione della percezione della distanza fra momento indessicale e momento pre-indessicale come qualcosa di fertile, è l’obiettivo raggiunto dalla lingua e dalla letteratura che, sempre Deleuze e Guattari, definiscono – in relazione all’esperienza kafkiana – minore. La letteratura minore è quella letteratura «che una minoranza fa in una lingua maggiore»[3]; nel momento in cui la dimensione sociale e collettiva della Legge e della società del significante, ovvero il registro lacaniano del Simbolico, è appannaggio di una lingua che non è quella con la quale si è nati e cresciuti, una minoranza deve usare, per la sua letteratura, la lingua della maggioranza dominante. La lingua madre minoritaria, che è de-territorializzata e dunque senza territorio, anche simbolico, non può essere infatti utilizzata quando il bisogno di scrivere si fa impellente, perché rimarrebbe confinata nei limiti dei suoi pochi parlanti. Ma neanche si può usare la lingua della maggioranza, impossibile da comprendere nelle sue puntuali accezioni, e neanche un’altra lingua straniera, troppo distante da quella che è una cultura linguistica di cui comunque, anche se dalla parte della minoranza, si fa parte. Bisogna, in qualche modo, andare oltre una «lingua di carta» che non permette più il contatto con la realtà a-simbolica; bisogna tornare indietro verso il movimento del morso che permette un contatto con il mondo senza trovarsi ancora nell’astrattezza del linguaggio; bisogna trovare una lingua che possa rendere nuovamente simbolica, significante, la realtà di chi è senza territorio.
La lingua poetica di Simone Di Biasio è una lingua minore, una lingua deterritorializzata, e che per questo è una lingua-bocca. In particolare, la sua ultima opera, Panasonica (Il ponte del sale, 2020, con prefazione di Umberto Fiori) si potrebbe inserire nell’ipotetico scaffale della letteratura minore di Deleuze e Guattari anche solo leggendo la Nota dell’autore apposta in epigrafe al volume:
La lingua è sempre linguaggio e il linguaggio non è solo lingua; è corpo sangue terra industria impianto di depurazione. Panasonica è una lingua nuova, impastata tra il dialetto, l’italiano pratico e un inglese sonoro, partorito da tre generazioni. Panasonici siamo pure noi, le nostre case, all’interno di una tradizione evolutiva repentina come mai era accaduto prima di questi ultimi trent’anni.
La minoranza, quella di cui – anagraficamente – fa parte Di Biasio, è quella della generazione entrante in età adulta; una minoranza che però è anche quella degli anziani, e anche quella degli adulti in un mondo cresciuto a dismisura sotto i loro occhi. Queste minoranze, tutte e tre deterritorializzate, hanno bisogno di una lingua che possa avere la stessa onestà del morso, la stessa veridicità di un corpo; questa lingua è, opposta alla lingua di carta (la cristallizzazione del linguaggio lirico? la fine della spinta avanguardistica? il linguaggio sempre più anglicizzato dei social?), la lingua di Panasonica.
Uno sguardo rapido al volume permette di intuire le principali tematiche del testo. È interessante però, prima di tutto, soffermarsi sulla citazione in esergo tratta da Fuga da Bisanzio di Brodskij: «Noi siamo qui per imparare non tanto ciò che il tempo fa all’uomo, ma ciò che il linguaggio fa al tempo». Si intravede, insomma, una decisa rimarcatura del rapporto fra il dato storico e il dato linguistico. Gli assi di Panasonica sono proprio questi; il linguaggio e il tempo, compresi, è il caso di dirlo, nella dimensione spaziale che ha un toponimo definito, Fondi, nel basso Lazio. La prima sezione, La calmezza, ospita testi dedicati alla nonna (o alle nonne) dell’autore, in una sorta di anabasi nelle case dei vecchi mirata a scoprirne le farragini, le anticaglie, i ricordi impossibili da tradurre ai nipoti. La parola panasonica, seconda sezione, è una riflessione performativa (nel senso linguistico del termine) sulla lingua di questa minoranza. Lingua che, ispirandosi al medium diventato veramente di massa a partire dalla generazione dei nonni (da qui il titolo del libro, «originariamente riferibile alla quasi omografa marca di televisori»), è anche visione, fonovisione. Una lingua in qualche maniera appiccicata all’immagine delle cose, che nell’asse della metafora accende flashes, illuminazioni etimologiche capaci di rendere simile il dissimile, familiare (oltre che per genetica) la differenza generazionale. Madre lingua è ancora una sosta del pensiero sulla maternità della lingua, sul legame carnale tra uomo, lingua, territorio. La parola neo-, ultima sezione del libro, è invece dedicata ad una ragazza, coetanea dell’autore. Il pedale erotico della sezione, che la distanzia dalle altre, è ponte verso il futuro, sguardo verso la generazione dell’autore, e si apre, più che al dialetto o alla rimemorazione intertestuale di pratiche religiose o liturgiche (variamente riecheggiate nelle prime sezioni), all’inglese dei social, alle canzoni pop, ad uno scenario totalmente contemporaneo («Poggiato sullo scaffale altezza d’uomo | fui un pancake un bicchiere di plastica | sparisti a vista ma skype catturò gli ultimi istanti», p. 85).
Per definire, sul piano espressivo (che è quello più difficile ma anche divertente da analizzare, senza ovviamente appiattire il pathos delle non rare fulminazioni liriche presenti nel testo, denso di emozioni espresse con wit dall’autore), la lingua minore Panasonica è interessante rinfocolare il paragone con quanto affermano Deleuze e Guattari nell’indicare le strategie della lingua dell’ebreo Kafka nella Praga germanofona:
Si andrà allora ancor più lontano, si spingerà ancor più avanti questo movimento di deterritorializzazione nell’espressione [corsivo mio]. Solo che i modi per farlo sono due: o arricchire artificialmente il tedesco. [… ] o andare sempre più avanti nella deterritorializzazione […] a forza di sobrietà. Poiché il vocabolario è disseccato, farlo vibrare in intensità. Arrivare a un’espressione perfetta e non formata, un’espressione materiale intensa.[4]
La lingua espressiva di Di Biasio (che Fiori, nella prefazione, definisce attraversata da un «solerte plurilinguismo», p. 7) non può essere, come per Kafka, solamente del secondo tipo; l’impiego del vernacolo è spesso presente («dulùr come dolàr nel gergo navigato dei migranti», p. 22; «’nvizito», p. 30; «jastemare», p. 31 etc.), così come della terminologia, vertiginosamente speculare, appartenente all’informatica («lingua porta usb per scambio dati» p. 83, in uno scenario asimoviano). Eppure, al di là del pastiche, del mero gioco di parole e di concetti, Di Biasio sembra utilizzare proprio queste parole, oltre a tutte le altre, nel senso della «sobrietà» spietata e cristallina, vibrante per intensità. L’espressione – appunto – «perfetta e non formata, espressione materiale intensa»[5] che ricorda quasi l’atto del mangiare e del ruminare, è ottenuta da Di Biasio con una serie di intensificazioni sul codice linguistico che sembra evitare le secche del calembour agendo sull’asse produttivo della metafora. È il caso di versi come «Non ci capiamo, non ci entriamo | questa forma verbale dialettale | mesce il capire dentro la capienza | se non ci capiamo, non ci entriamo | se non comprendiamo, stiamo fuori» (p. 55) , «sgrani gli occhi, sgrani i rosari» (p. 21), oppure nelle catene (che si muovo sempre sullo stesso asse della somiglianza) dei poliptoti come nella dedica a «Concetta, concepita concezione», o delle paronomasie in «il sapore non si tremende[6] | non si vede, si tramanda come un ballo» (p.58), «faccio neo-avanguardia | premo il neo – che ti salda il collo al petto al centro esatto» (p. 88). Più che sulle metafore o sui poliptoti, però, la lingua di Di Biasio cerca la deterritorializzazione dalla lingua «di carta» e la ricerca del contatto nuovo e antico con le cose nella sostanza fonica stessa, nella ricerca di una catena di significanti giocata sull’atto fonatorio. Un po’ come nell’idea «folle», (secondo Starobinski e poi Bigongiari)[7] del mottheme di Saussure (la particella fonica che, per agglomerazioni allitterative avrebbe creato la struttura dei poemi antichi), sembra che alcune poesie di Di Biasio vengano create da un’emanazione sonora di una o più sillabe, una ruminazione della lingua: «non è mica solo per le miche agli uccelli» (p. 58), «materno il corpo, il magnete che attrae il nord» (p. 56) e in molti altri casi, anche quelli visionati in precedenza o quelli giocati su raddoppiamenti e assonanze interne: «il letto, il nondetto gridato a squarciagola nella notte» (p. 87). Particolarmente interessante è questa poesia, dove istanze foniche e concetti di linguistica storica (e in ciò aiuta anche il tema della vecchiaia, che annovera le più riuscite poesie del libro pur con un effetto straniante dato dall’uso fresco della lingua) sembrano approssimare la ricerca di quella materialità insita nella lingua minore:
Già comunichi a noi attraverso il velo oscuro
della vecchiezza, tua minoranza linguistica
dalla gola della nonnaterra rinvengono fonemi
fossili da archeologia del linguaggio, pietre
da datare, pochi indizi, sfrantumati inizi
invece tu ordini i cocci crollati ai piedi, ripari
le reti neurali lisce per il tanto camminare,
spazzi i residui di pensiero a terra e arrecuje.
Saper dire è una ferita aperta.[8]
Altri luoghi in cui Di Biasio forza la lingua attraverso la naturalezza è nella rottura delle catene di parole tramandate dall’uso e dalla cultura orale e scritta, i casi di solidarietà semantica per cui a un sostantivo ne segue – quasi automaticamente – un altro; alcuni versi rompono questa azione meccanica, ridando freschezza a una lingua anchilosata, come in «brodo di primordiale assenza» (p. 27), «nel nome del nonno, del padre e del figlio», (p. 60), «dieci tramandamenti» (p.28).
Insomma, per tirare un bilancio: Panasonica appartiene alla schiera dei libri minori, scritti anche in minore, con una quasi voluta e consapevole spontaneità, lasciando a volte a briglia sciolta la superfetazione di metafore o di allitterazioni, di giochi di parole che scombinano il mondo. Non siamo di fronte, pertanto, a una poesia lirica, pur non perdendo, come già accennato, picchi densissimi di emozione o sentimento. Panasonica è un libro che, nella sua lingua deterritorializzata, ha anche le altre due caratteristiche che Deleuze e Guattari identificano nella letteratura minore, ossia l’innesto dell’individualità nell’immediato-politico e il concatenamento collettivo dell’enunciazione. La prima caratteristica, parafrasabile come la capacità dell’enunciatore di inserirsi in una dimensione che è al contempo politica ed individuale (per Kafka vale come esempio la trasfigurazione del padre della Lettera al padre in un’entità sovrapersonale incarnabile nella borghesia praghese) è in realtà poco presente e a basso tenore rivoluzionario; più che altro è ipotizzabile di riflesso nella dimensione simbolica della quasi totale mancanza delle figure maschili, del lacaniano Nome del padre sempre taciuto e in questo sfidato.
Per quanto riguarda il concatenamento collettivo dell’enunciazione (ovvero la portata collettiva dell’enunciazione del singolo) si potrebbe, come Foucault interrogando Beckett[9], chiedersi: Chi è che parla in questo libro? Simone Di Biasio? Un tu- non meglio identificato? A parlare qui è la lingua stessa, la stessa Panasonica; ma non in una rinnovata avanguardia in cui lo sperimentalismo si rivela solamente gioco linguistico, meccanismo autotelico di proliferazione mediatica. A parlare qui sono la lingua e i suoi parlanti, anche loro panasonici, nel complesso e affascinante legame fra nome e bocca, fra lingua e lingua.
[1] Gilles Deleuze-Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 35.
[2] Yves Bonnefoy, L’improbabile, Salerno, Palermo, 1982, p. 125.
[3] Gilles Deleuze-Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 29.
[4] Ivi, p. 34.
[5] Ibidem.
[6] Simone Di Biasio, Panasonica, Rovigo, Il ponte del sale, 2020, p. 58 (nota): «“tremendere” significa in dialetto “vedere”, con un’accezione rafforzativa, come “a guardare bene”».
[7] Piero Bigongiari, La funzione simbolica del linguaggio, Milano, Rizzoli, 1971, p. 26.
[8] Simone Di Biasio, Panasonica, cit., p. 47.
[9] Michel Foucault, Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 1-21.
Simone Di Biasio, Panasonica, Il Ponte del Sale, Rovigo 2020, 100 pp., € 16,00.