Prosegue la serie di interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2020, che quest’anno si svolge interamente online. Dopo Ferruccio Parazzoli, tocca a Nadia Fusini presentare il suo romanzo, María (Einaudi 2019) al pubblico: oggi, alle 18, in diretta Instagram con il profilo del Premio Bergamo. L’abbiamo raggiunta via mail e le abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.
Una domanda sul titolo sembra ineludibile, considerate le numerose implicazioni che ha nella novella. Perché María?
María è il nome assoluto, il più comune, il più profondo. Chissà, forse c’entra anche il fatto che mia madre si chiamava Marina, ma mio padre la chiamava Mària, sì con l’accento sulla prima sillaba. In fondo c’era la radice mare, maris… che al nominativo plurale fa appunto maria. Sì, c’entra il mare. E la madre. Assonanze, echi che tornano.
C’entra anche María Zambrano, una scrittrice che amo. Una filosofa che mi ha insegnato a pensare nel modo in cui tento di fare, e cioè ‘scrivendo’.
L’incontro con il male, declinato in forma comune e anonima, anziché storica e collettiva, costituisce il primo nucleo inventivo del libro, come Lei afferma in un’intervista[1]. Non Edith Stein e la tragedia della deportazione, bensì Maria e la sua drammatica passione per Giovanni. Sembra però che lo sforzo di concentrazione, di definizione, sul particolare, sul femminile, sia continuamente contrastato dal carattere ambiguo e universale con cui il male si impone alla riflessione. Come ripensare, alla luce dell’esperienza di María, i significati di vittima-carnefice, giustizia-ingiustizia, male-bene, individuo-storia? E la distinzione di genere (femminile-maschile) è un fattore discriminante? In quale misura “la banalità del male” (di un’autrice di cui peraltro Lei si è occupata approfonditamente) ha influito sulla sua opera?
La storia di María è fatale. Per fortuna, non riguarda ogni donna. Ma conoscere il male di María può renderci più umane, più umani. Come lei dice, l’incontro con il male può prendere forme diverse, anche assai comuni e anonime, e non necessariamente storiche e collettive. La drammatica passione di María per Giovanni è tutta sua, ‘colpa’ sua, se vuole, perché non sa capire il nemico che ha di fronte. Ed è per questo che è inevitabile alla luce dell’esperienza di María che i significati di vittima-carnefice, giustizia-ingiustizia, male-bene, individuo-storia si confondano. Vengano rimescolati. Sì, la distinzione di genere femminile, o maschile, in questo caso è un fattore discriminante. La donna che è María si lascia sedurre dalla banalità del male. E dal miraggio di poter salvare il ‘suo’ uomo. Ma la sindrome ‘io ti salverò’ non è solo femminile. È un risvolto dell’inganno d’amore.
Il romanzo dissimula nei toni dimessi una serie di riferimenti intertestuali: c’è forse, tra questi, anche il Simposio, riguardo alla natura di Amore, al suo rapporto con la miseria e con la conoscenza?
Sì, forse, ha ragione, quando si parla di amore, come si fa a non ricordare il mito di Poros e Penia, e il meraviglioso dialogo di Platone? A tema anche qui la natura dell’amore.
Ma naturalmente, un romanzo è sì il suo ‘tema’, ma è anche e soprattutto ‘forma’. Per me l’aspetto formale è decisivo; la forma è la materia, e l’attenzione ai movimenti della lingua è decisiva. La mia felicità nello scrivere è quando mi sento in contatto con l’energia vitale della lingua. Allora sento il brivido della creazione. E provo per l’appunto quella che chi scrive conosce insieme alla fatica, e cioè, la felicità dell’espressione.
In un’opera in cui l’oralità, la testimonianza diretta, la parola parlata assumono inconsueto rilievo, quale ruolo si riconosce alla scrittura e all’invenzione romanzesca?
Accanto a María, c’è un uomo che la sa ascoltare, Santini, e poi un’altra donna, la poliziotta e psicologa Vitale. Entrambi mettono in campo la loro competenza e la loro sensibilità nel cercare di comprendere lo ‘scandalo’ di Maria. E non hanno paura di incontrare lo scacco che sempre si dà in ogni esperienza umana di conoscenza.
Un’ultima domanda, più leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio: qual è la qualità o il carattere che potrebbe far vincere questo romanzo?
Non si merita un premio, il premio è un dono, che verrà, se verrà, per la generosità di chi abbia accolto il romanzo, e voglia in qualche modo ricambiare l’intensità dell’emozione della lettura.
Senz’altro María è un romanzo ‘vero’; non è scritto in omaggio a nessuna moda, né con l’intento di compiacere nessuno. Ha una sua urgenza, che nasce dalla creatura che lì ha preso corpo, corpo di scrittura. Il lettore, la lettrice sono chiamati a fare un’esperienza, un incontro; che è sempre e soprattutto un incontro con l’altro che è in noi. Anche se chi legge non è María, anche se non si è mai trovato/a nella posizione del personaggio al centro del libro, per il tempo della lettura dovrà almeno in parte calarsi in lei, dovrà essere lei. In un transfert che è nell’essenza stessa dell’atto del leggere. Non si legge forse per questo? Per incontrare lo sconosciuto che è in noi?
[1] Intervista per “Quante storie”, reperibile on line: https://it-it.facebook.com/QuanteStorieRai3/videos/1311758048989416/