«Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi?»
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò

«Una volta creato è stato sfruttato come messa in scena
per lo spettacolo del confine.»
Paolo
Cutitta

Ci sono dei momenti in cui vorresti scrollarti di dosso la pesantezza come l’acqua i cani. Con quella furia un po’ scomposta, quell’efficacia, quell’irruenza. Pare si divertano.
Mi allungano, come una mano, la più semplice delle soluzioni: scegli un posto, andiamo al mare.
Quando dico “Lampedusa” mi guardano come se non stessi collaborando. Non è Lampedusa il mare che serve, sembrano dire i loro sguardi. Ma io insisto, trovo un volo per la prima di luglio.
È che Lampedusa ha un attorno, una narrazione, un immaginario. È un Horst, come i Vosgi: un pilastro tettonico, sollevato da un sistema di faglie. – «Le cose non sono sempre metafora di qualcos’altro» provava a convincermi Andrea, anni fa. Però che Lampedusa sia piano di faglia in prossimità di rocce molto frantumate pare, invece, proprio esatto.

E così: Malpensa, Lampedusa. Pare di ammarare, atterrando: sei chilometri di isola, molto blu attorno. Pelagie, il nome dell’arcipelago, viene da lì: da pelago, l’alto mare aperto.
C’è un unico nastro per i bagagli, l’aeroporto è piccino, le luci spente. Su una parete la foto enorme di due ragazze che allattano, davanti a un cattedrale forse di tufo. È la pubblicità di uno studio fotografico. Una è bionda, una ha dei ricci afro. Sono belle, i loro bimbi sono belli. Ma io, che aspetto il mio zaino nella penombra – è sera, sono stanca –, penso che forse è un po’ troppo facile, così. Ho pochi giorni, capire le cose è lento ma, Lampedusa, vorrei non farla troppo facile.

Lampedusa Mappa 1

Il ragazzo che ci affitta casa ci aspetta fuori dall’aeroporto. Si offre di farci fare un giro veloce, giusto per darci qualche punto di riferimento. Stiamo in contrada cala Pisana che, a me, ricorda sempre Nievo. Ci mostra la via principale, via Roma, poi la via più breve per scendere al mare – via Piersanti Mattarella, prendo nota mentalmente – poi il vecchio porto, poi torniamo.
Nel tragitto dice che siamo il primo volo pieno dalla pandemia. Che hanno perso tutto giugno. Che, però, meglio ora che agosto. Ci sono seimila abitanti – cinquemila e un po’, gli altri, in realtà, stanno a Linosa – e nelle settimane centrali d’agosto arrivano 35.000 turisti. Collassa tutto, dice. Anche il sistema fognario. Dice che il settore pubblico è indietro di trent’anni. Non si fa la differenziata, ad esempio. (Taccio, ma soffro.) Che quello privato ci sta provando. Parcheggiando mi chiede che faccio di mestiere (insegno?), ricambio la domanda. Lui lavora in aeronautica. Controlla, difende, lo spazio aereo italiano. Siamo l’ultimo avamposto, dice.
Prendo lo zaino, le chiavi, chiedo la password del wifi, lo ringrazio, e continuo a pensare a quella parola: avamposto. Fa un po’ Buzzati, ma mi pare una pessima associazione d’idee. Vorrei chiedergli se lavorava già lì quando c’era Mare Nostrum, poi perdo l’attimo.

Usciamo a cena. Al ritorno ci sono pochi lampioni, odore di finocchietto, cani randagi simpatici. Da qualche parte suonano Anna e Marco.
Il primo bagno, la mattina dopo, alla Guitcia. Ci si arriva passando una curva alta, delle cisterne, una fila di palme. Sono i giorni in cui l’Ocean Viking, al largo, chiede un porto. Un lembo dell’insenatura è il molo Favaloro, cardine di tante narrazioni, ma non lo so ancora, vedo solo l’area militare sbarrata.
Abbiamo qualche titubanza da post-pandemia (distanziamenti? Mascherine?). La spiaggia, bianca, sembra però la più normale delle spiagge, con gli ombrelloni arancio, i vacanzieri pallidi. Mi tuffo con l’indigenza che solo gli inverni padani riescono a metterti. Tornando a riva vedo due blindati della polizia parcheggiati davanti a un albergo un po’ anni Ottanta.
Camminiamo verso la cala successiva. C’è l’asfalto, ma noi passiamo per gli scogli. Leggo un’ansa. Ha di nuovo chiesto di attraccare qui, l’Ocean Viking. Ci troviamo a fissare l’orizzonte come volessimo avvistarla per primi.

Mappa Lampedusa 4

La mattina dopo sentiamo sulla navetta delle spiagge – bianca, un po’ scassata, con una decalcografia gigante della madonna – radio Delta: la sindaca pentastellata di Porto Empedocle, dove è poi arrivata l’Ocean Viking, dichiara: «Non possiamo sostenere noi l’ingresso di tutta l’Africa, in piena pandemia. Devono finirla, a Roma, con questo atteggiamento radical chic. Vadano a Pozzallo». Conclude: «È quella la rotta delle Ong». Tutta l’Africa sono centottanta persone salvate in acque internazionali. Radical chic non vuol dire granché, qui, mi pare, ma fa refrain, fa casta.
Ho una borsina di tela con una citazione di Kubrick sulla regia, il telo Einaudi di Moby Dick, che è il mio libro preferito, forse, se togliamo Dostoevskij: sono un’infografica di radicalchicchismo.
Poi, la rotta delle Ong ho tentato davvero d’intercettarla, consegnata la tesi di dottorato. Ho mandato delle candidature. Servivano, però, competenze che non avevo: mediche, nautiche. Tento la via della comunicazione – so l’arabo? mi chiedono – ho fatto un corso di quaranta ore in università, un’estate, mi ricordo solo che se ti chiedono come stai puoi rispondere mabsouta, lieta, e l’altro ripete mabsout, che vuol dire “lieto che tu sia lieta”. Mi immagino di notte, con una radio e una conversazione coi libici. No, non so l’arabo. Lascio le cose a chi le sa fare, anche se diverse volte ci ripenso.

Stiamo andando all’Isola dei Conigli – una delle spiagge che “si portano di più”, diceva il nostro padrone di casa. Uno dei grumi della narrazione su Lampedusa, penso io.
Mi ricordo che leggevo La frontiera a Nizza, coi brividi d’estate. Ho letto Leogrande, poi Enia, poi Bartolo, Reckinger, de Kerangal, Liberti. Ci sono dei lacerti, nel ricordare il naufragio del 3 ottobre, che si sovrappongono. Come fosse possibile non vedere una barca così vicina, quasi all’alba, la balance perduta, il mare viscido per il gasolio, un pescatore, Costantino, che salva a mani nude tutti i corpi che non gli scivolano via. Trecentosessantotto corpi, in un momento.
La spiaggia dell’Isola dei Conigli è magnifica. L’isola si raggiunge camminando nell’acqua bassa. È riserva naturale. Vorrei girarle attorno nuotando. Esito. Grotte a pelo d’acqua, praterie di posidonia, molti pesci. C’è, appoggiato verso l’istmo, un pezzetto di legno. È una chiglia ridipinta a più strati: un po’ verde, un po’ rossa, un po’ blu. È chiaro che non c’entra, ma è un relitto.
Mi fermo a guardarlo, poi torno in là. È vero, non collaboro. Cerco una storia, in Lampedusa.

Mappa Lampedusa 2

Nell’Isola del non arrivo, Aime parla di processo di “frontierizzazione”: che Lampedusa sia ultimo avamposto, o primo approdo, che, insomma, la frontiera passi di qui non è un dato, ma una costruzione, un processo. Prima c’era uno scoglio, a lungo porto franco per i naviganti. Si narra di una grotta, verso cala Madonna, dove viveva un eremita, devoto, durante le crociate, al culto di chi arrivava, mezzaluna o no. Fu possedimento di quei Tomasi antenati del Gattopardo, che però non vi si recarono, temendo i predoni. Qualcuno la vuole persino isola di Calipso. Sfruttò il legname, fino a trovarsi brulla, le spugne marine, ma finirono. Isola di coloni, poi isola di confino. Chiusero, via via, le industrie conserviere del pesce. Molti pescatori lavoravano stagionalmente in Tunisia
Sono proprio i tunisini che arrivano in piena primavera araba a fare, in qualche modo, da spartiacque. Se li ricordano, i lampedusani: cinquemila, lasciati su quella che verrà chiamata poi “la collina della vergogna”, per mesi. Lo stallo, voluto da Maroni, viene poi risolto in due giorni.

Nino mi dice: «Cercavano, era chiaro, l’incidente. Poi arrivarono le navi da crociera. Un gran pezzo di cinema». Gestisce l’archivio storico di Lampedusa, Nino. È stanco, non rassegnato.
Mi dice che di Lampedusa tutti raccontano quel che torna loro comodo raccontare.
Che arrivano, guardano quel che vogliono vedere. Che i lampedusani ormai odiano i giornalisti.
Mi fa vedere qualche titolo, li tiene in una cartellina di plastica: L’isola dei clandestini; Lampedusa, vergogna d’Italia; La maledizione di vivere a Lampedusa.
L’archivio è poco lontano dalla guardia costiera. Mi racconta che, quando veniva qualche politico importante sull’isola, le interviste erano quasi tutte col moro Favaloro alle spalle. Si organizzavano, sentiva le telefonate, sbarchi a favore di telecamera.

Ogni tanto, mi dice, presta la sua connessione a qualche ragazzo del centro. Gli dicono, per strada: «Trattali bene, mi raccomando, così ne vengono altri». Come se dall’Eritrea, penso, si scappasse per il wifi di Nino. Come se fosse, in un modo o nell’altro, sempre questione di pull factor: il pull factor non esiste, l’unico fattore che incide sulle partenze sono – lo spiega il comandante di Open Arms Riccardo Gatti una sera, sono già tornata – le condizioni metereologiche. Se non c’è mare pericoloso, partono. Quando non c’è nessuno, rischiano di morire, e noi nemmeno di accorgercene. Dialoga con Rossella Miccio, presidentessa di Emergency, che dice che la pandemia non può essere schermo dietro cui nascondere l’inazione. «Prima ti salvo, poi ti curo» aggiunge, come se fosse una cosa normalissima e, per un attimo, mi pare proprio assurdo che non lo sia.

È preoccupato dal turismo, Nino. «Hanno messo tutte quelle palme californiane, prima non c’erano.» Non sembrano, in effetti, c’entrare granché. Mi viene in mente il mio amico Sam e un librino con le foto delle palme tristi. «Si scimmiotta un turismo da riviera, ma superato. Con l’idea che più gente arriva, meglio sarà. Ma c’è un punto di non ritorno. Su cinquanta macchine a noleggio, ci saranno dieci assicurazioni. Revisioni, forse meno.» L’isola è invasa di Mehari colorate, che fanno pure allegria, ma sono degli anni Ottanta, si sente nell’aria odore di smog.

Mappa Lampedusa 3

Mi ritrovo, nei giorni, nella stessa impasse di Liberti, fra le palme: «Lampedusa sembrava avvolta in una bolla assurda e contraddittoria: quello per cui era nota in tutta Italia, e ormai nel mondo intero, non si vedeva». Prendiamo anche noi una macchina. «Recente» mi trovo a dire. Ha sei anni meno di me, scopro guardando il libretto, però insomma. Facciamo l’unica strada fino in fondo. Lampedusa sembra, non so, Atacama. M’incanto a guardare il cartello del 35° parallelo, scolorito, nel niente.
Sulla sinistra, la strada è sconnessa, in discesa, ci sono dei camion che risalgono, una discarica che sborda dalle recinzioni, molte buche e polvere e poi la rete. È “l’anello che non tiene”, “la maglia rotta nella rete”, davvero. Un buco, piuttosto istituzionalizzato, piuttosto famoso, nel recinto dell’hotspot lampedusano. Sto leggendo il saggio di Aime, comprato da Nino. A un certo punto cita Wittgenstein: «Un recinto aperto è ancora un recinto?». Mi avevano detto che di solito viene chiuso, nella stagione estiva.
Gli unici migranti che vedo, in una settimana, sono un signore cinquantenne, mediorientale. È ora di pranzo, esce da un negozio di articoli da spiaggia. Ha in mano un paio di infradito appena comprate e una bottiglietta d’acqua, ha le braccia alzate, fa dei piccoli inchini, sorride. Un poliziotto chiama il suo collega e dice: «Ne abbiamo preso un altro. Lo riaccompagno io». E tre ragazzini, avranno diciassette, diciott’anni, subsahariani, con un pallone fluo di quelli leggeri per giocare a pallavolo. Uno, che lo lancia per aria camminando, canta Mamacita.
(All’entrata del centro provo ad avvicinarmi. Ci sono tre militari che discutono dei dosaggi di un antidolorifico. Uno, col mitra per aria, prima che io provi a dire qualsiasi cosa, mi fa: «Non puoi entrare, anche se hai il tesserino». Che, fra l’altro, no, non ho. Torno in macchina fotografando il ciglio della strada.)

Il Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo è tenuto aperto da volontari del Comitato 3 ottobre. Chiedono corridoi umanitari, un sistema di asilo europeo, di potenziare il soccorso in mare, di accogliere rispettando i diritti di chi migra, di creare una banca dati europea per il riconoscimento delle vittime. Protect people, not borders è il loro slogan, dipinto pure dalle parti dell’Istituto Pirandello. Nelle teche ci sono degli oggetti, salvati dai relitti. Raccoglie, idealmente, un filo che già aveva tirato il collettivo Askavusa – “a piedi scalzi” – nel tentativo, spiegava Giacomo, di preservare più storie possibili. Ci sono video di salvataggi notturni, una parete che chiede cos’è accoglienza, con dei post-it: salvezza, civiltà, non avere paura, abbracciare. C’è pure un “Salvini stronzo”, a pennarello.
Ci penso, alle storie e alla memoria, guardando il cimitero delle barche bruciato. Non resta molto. La plastica col calore ha creato degli strani filamenti un po’ spugnosi. Rubo, non so nemmeno perché, un cerchio di cartavetrata indurita dal fuoco, pensando a una poesia del mio professore, Testa, sulle cleptomanie da niente. Nino dice che nessuno, in paese, ha condannato il fatto.
Resta, ancora più strana, nel deserto attorno, una barca sola, un po’ storta, dalle parti dell’ex base Nato. Mi avvicino, è in un campo brado. Sul fianco una scritta dice che il profeta Mohammed non dice bugie.

Vado a vedere la porta di Palladino, la porta d’Europa, che è, non l’avrei detto, incredibilmente piccola.
«L’Europa muore o rinasce a Sarajevo» diceva Langer nel 1995. Pietro Bartolo, col Comitato 3 ottobre, ha lanciato una campagna per il restauro. La salsedine, gli anni, l’erodono. Ma forse Frontex più del sale. Chissà se muore qui, l’Europa, mi chiedo, poi arriva una coppia in Vespa, mi mettono in mano un telefono per fotografarli.

Mappa Lampedusa 5

Al cimitero, trovo un Pavese tra i tageti: «Quale mondo giaccia al di là / di questo mare non so, ma ogni mare / ha un’altra riva, e arriverò». Molte tombe in realtà sono fosse comuni. Ogni tanto ci sono delle stampate dalla grafica un po’ pacchiana, spesso tramonti in technicolor sul mare, con scritto cose come: “Immigrato non identificato di circa vent’anni, colorito nero, riposa in pace”.

Un pomeriggio lascio la spiaggia per la biblioteca, che è aperta quattro ore a settimana. Trovo Paola, la Paola del romanzo di Enia, che ha forme piene, un vestito arancione. Mi presento. Lei dice: «Un’altra volta no, per favore», e mi porta da Anna, gentile, elegante, che mi racconta di come è nata, pochi anni fa, la biblioteca. Io faccio fatica persino a concepire un posto senza biblioteca, né per ragazzi né per adulti. È nata grazie a Ibby Camp. I primi due anni hanno fatto iniziative una settimana all’anno. Mi dice che erano tutti contenti, ma una settimana all’anno era pochina. Le aperture sono gestite da volontari, spesso ragazzi. Al banco prestiti, ad esempio, oggi c’è Silvia, che ha diciassette anni, studia a Palermo, sta leggendo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno.
Hanno una collezione unica di silent book, libri solo illustrati, che spesso animano in letture collettive nel piazzale antistante. «Può venire chiunque» mi dice, «li usiamo perché non ci sono barriere linguistiche. E poi, ci leggono cose impressionanti, a volte, i ragazzi.»
Trovo L’onda, uno dei miei preferiti, Anna si illumina. «Lo conosci? È la trilogia del limite.»  Parliamo di libri fino alla chiusura.

A fine agosto, mando una messa a disposizione bombarola alla scuola di Lampedusa, nella speranza che il caos imperante mi metta in mano una scusa per tornare.