Di Sahar Mustafah sappiamo, dalla quarta di copertina del suo romanzo d’esordio, che è figlia di palestinesi emigrati negli Stati Uniti, vive a Chicago, insegna letteratura in un liceo e si impegna per promuovere l’opera di scrittori e artisti in esilio. Sul suo sito scrive che nei suoi testi esplora e cerca di recuperare l’eredità culturale palestinese.
Spendere due parole sull’autore o sull’autrice è un passaggio il più delle volte eludibile, ma nel caso di Mustafah, la sua storia la rende testimone privilegiata e attendibile di alcune delle grandi questioni del nostro tempo, che fanno da perno al suo romanzo: l’emigrazione, l’integrazione e l’intolleranza.
La tua bellezza, pubblicato negli Stati Uniti (The Beauty of Your Face) e uscito in traduzione italiana pochi mesi fa per Marcos y Marcos, ripercorre la storia della giovane Afaf e della sua famiglia, palestinesi emigrati negli Stati Uniti in cerca di una nuova casa e di un po’ di fortuna. La vita in America si rivela tutt’altro che facile: Baba si divide fra lavori di manovalanza e la passione per il suo oud, per cui gira di locale in locale ma «non riusciva a convincere nessuno a dargli una possibilità. […] “Se non canti in inglese, amico, qui non canti”». La madre è arroccata in casa, impossibilitata a comunicare con il mondo esterno e a comprenderlo: la lingua e una società diverse si ergono come muri difficili da superare. L’unica sua compagna è la figlia Nada. L’aver riempito il vuoto di quella solitudine per sette lunghi anni conferirà alla primogenita un ruolo nella vita della madre che né Afaf né il fratello minore Majid potranno mai raggiungere. La precarietà di questa famiglia e il faticoso cammino verso l’integrazione in un paese straniero svelano tutti i propri limiti quando una sera Nada non torna più a casa e in famiglia si apre una ferita destinata a non rimarginarsi. La crisi che ne consegue acuisce alcune dinamiche già tese. Il rapporto fra i genitori si incrina, la relazione con gli altri figli si fa difficoltosa. La scelta di Baba di rifugiarsi nella fede islamica per la moglie e il figlio Majid è incomprensibile, per Afaf diventa invece un’occasione per trovare conforto e sostegno in una comunità che per la prima volta la fa sentire accolta.
«L’incantesimo tra i genitori si è rotto, da quando lui si è messo a parlare del profeta Maometto, un pastore analfabeta, e di come Allah avesse scelto lui per rivelare la Sua parola servendosi di testi che Maometto era stato miracolosamente in grado di leggere e diffondere nella comunità. Afaf non capisce: Baba manifesta il desiderio di migliorarsi, e Mama lo disprezza per questo».
Afaf è una giovane donna alla costante ricerca di un proprio posto nei mondi in cui vive: la famiglia, la comunità islamica e la società statunitense. Il percorso è un continuo di alti e bassi, dove ad ogni possibilità di dialogo e ad ogni apertura corrispondono altrettanti momenti di scontro e di intolleranza. La conversione all’islamismo le consente di superare la crisi adolescenziale, di vincere lo smarrimento che si prova quando si pensa di essere perduti. La scelta di indossare l’hijab diventa il segno tangibile ed evidente di un cambiamento che si è compiuto nella sua persona. La festa per celebrare questa scelta è un rito che inaugura una sorta di seconda nascita, che fin da subito le svela l’intolleranza di chi non comprende e non condivide quell’atto di volontà. Un «beduina» e un sorriso malevolo lanciatole in strada diventano il preludio di un rifiuto latente ma costante da parte della società statunitense, che giungerà al culmine con l’evento che apre il romanzo: un uomo bianco e armato irrompe nel liceo islamico femminile di cui Afaf, ormai adulta, è la preside.
Formalmente la costruzione del romanzo si compone di un tempo della storia, quella dell’attentato al liceo, interrotto da continue analessi che portano il lettore a ripercorrere le tappe fondamentali della vita della donna. I pochi istanti di terrore nel liceo Nurideen si dilatano, lasciando lo spazio al lettore per ripercorrere la storia di Afaf. Eppure il lettore percepisce una sorta di inversione dei piani narrativi: il tempo della storia è quello incentrato sulla vita della donna e l’attentato non è che la brutale interruzione di un percorso che la protagonista ha faticosamente costruito, provando a tenere insieme i pezzi di culture che non le appartenevano ma che ha cercato di fare sue.
L’uomo che è entrato armato nel liceo è un invisibile, cresciuto senza riuscire ad instaurare relazioni solide. Dopo l’11 settembre i musulmani sono diventati i suoi nemici, anche se non ha mai avuto rapporti diretti con nessuno di loro. «Ogni musulmano è nemico del Paese», «è cominciata una guerra santa» sono frasi che sono uscite dalle bacheche internet per radicarsi nella sua mente, per renderlo parte della grande massa di suprematisti bianchi che poco hanno di diverso dai terroristi jihadisti che pensano di combattere. Il ritratto di quest’uomo assume caratteristiche purtroppo note e ormai comuni: un uomo fondamentalmente solo, arrabbiato con la vita, che gira armato in cerca di capri espiatori, succube di un’esaltazione della violenza che l’estremismo suprematista gli ha indicato come unica via percorribile. La decisione del consiglio comunale di Tempest di dedicare una struttura ad un liceo islamico nel quartiere in cui vive è l’ultima goccia di una situazione per lui intollerabile, il segno di un’invasione che va fermata. All’interno della scuola si realizza, però, una circostanza non considerata: Afaf gli parla. Questa donna islamica, «con quell’affare sulla testa», che si era ritirata in uno stanzino per pregare, gli fa domande, cerca di costruire un dialogo, nonostante lui continui a puntarle il fucile addosso.
Dopo anni di narrazioni – romanzesche e cinematografiche – intorno all’attentato alle Torri Gemelle, Sahar Mustafah si fa carico di raccontare la prospettiva di chi, da quel momento, ha pagato le spese di un clima razzista e diffidente.
«Baba si ostina a ignorare che il mondo è molto cambiato. Pensa ancora di poter parlare di Allah e del suo profeta a gente che non conosce, che gli amarkani siano ancora vagamente divertiti da questo vecchio con la sua parlata strana, che recita versi di un libro pieno di misteri. L’Islam che adesso passa in TV è un credo minaccioso, che si butta dentro i grattacieli con gli aerei, senza alcun rispetto per la vita umana. Anche Afaf si è chiesta, a lungo, come questi uomini siano arrivati sulla strada della violenza e della distruzione. […] Legge le stesse Scritture, si prostra verso la stessa Ka’ba, salmodia versi nella stessa lingua. Eppure il loro Islam è totalmente incompatibile con il suo».
All’autrice va quindi riconosciuto il merito di aver dato voce a donne e ragazze islamiche vittime di un terrorista bianco: una prospettiva raramente considerata, giacché nell’immaginario collettivo, quando si parla di un attentato terroristico, la tendenza è quella di figurarsi come attentatore un arabo fondamentalista. A questa scelta si aggiunge la volontà di creare una raffigurazione alternativa a quella generalmente attribuita alla donna musulmana nel mondo occidentale, concepita spesso come passiva, remissiva e succube della religione e della cultura. Mustafah racconta di dinamiche familiari comuni e di relazioni come tante, nelle quali ognuna delle donne del romanzo cerca di costruirsi un proprio percorso di vita. Afaf è una donna forte, aperta al dialogo e intenta a lavorare per un mondo plurale e multiculturale. La conversione religiosa, il pellegrinaggio a La Mecca e la scelta di indossare l’hijab diventano occasioni per affrontare questioni anche delicate, dove la comprensione fra culture differenti è messa a dura prova e spesso viene soppressa dall’intolleranza.
«Gira intorno a un’inserviente che sta lavando il pavimento, e si bagna la faccia con l’acqua fredda. Si accorge che una donna, vicino a lei, fissa il suo riflesso nello specchio senza sorridere. Afaf la guarda in faccia con aria di sfida. La donna abbassa gli occhi, insaponandosi rumorosamente le mani. Quando le passa dietro la schiena le schizza il velo. “Si vergogni!” reagisce Afaf. “Cosa le ho fatto?” Che cosa ha fatto, a tutte quelle persone? Non è una cittadina americana come loro? Che ingenuità, essersi sentiti a casa. Con o senza hijab. Prima o dopo gli attentati».
La voce narrante è volutamente parziale, a tratti apologetica e sentimentale, ma molto umana, attenta ad accompagnare il lettore in una realtà rispetto alla quale probabilmente si sente estraneo. Il linguaggio è semplice, lo stile paratattico ed è da approvare la scelta autoriale di lasciare ad alcuni elementi, oggetti o persone, il nome arabo, tradotto solo in nota nell’edizione italiana – a conferma del fatto che la volontà di preservare e integrare alcuni saperi tradizionali passa spesso da scelte di tipo linguistico. In un tempo, il nostro, in cui le minoranze etniche devono ancora protestare, scendere in strada e alzare la voce per chiedere riconoscimento e rispetto, va attribuito un giusto merito al lavoro di Mustafah. La tua bellezza è un romanzo che si propone di raccontare l’esperienza di chi ha dovuto vivere il dramma dell’emigrazione e di mettere in discussione i pregiudizi di chi ne è al di fuori – mostrando tutta la violenza che un clima di odio può generare –, permette al lettore di entrare in empatia con i personaggi e di renderlo partecipe di una cultura forse mai conosciuta o che ha dovuto abbandonare. Mustafah sfrutta a pieno uno dei doni della letteratura: far vivere al lettore una vita che non potrebbe mai essere la sua, con la consapevolezza che se l’esperienza finzionale non potrà sostituirsi ad una conoscenza della realtà, almeno potrà accendere il desiderio di scoprire cosa c’è dietro lo stereotipo e oltre l’apparenza.
Sahar Mustafah, La tua bellezza, tr. it. di F. Conte, Marcos y Marcos, Milano 2020, 384 pp., 18,00 €.