Non sono tempi felici per la critica. Per quanto non manchino le iniziative encomiabili e puntuali per acume analitico o sguardo panoramico, come la recente pubblicazione di L’estremo contemporaneo. Letteratura italiana 2000-2020 a cura di Emanuele Zinato; per quanto non manchino i “lettori competenti”, capaci non solo di scomporre o comprendere le ragioni profonde dei testi, ma anche di inserire questi ultimi all’interno di un sistema di senso, sviluppato in senso diacronico o sincronico (per rimanere alle preferenze di chi scrive, basti ricordare le tante e illuminanti pagine di Daniele Giglioli, Gianluigi Simonetti e Andrea Cortellessa); per quanto forse mai come in questo momento siano sviluppati e diffusi strumenti critici appuntiti ed efficaci; ecco, per quanto tutto questo sia vero, si ha l’impressione che la critica viva oggi un momento di smarrimento. Uno smarrimento dovuto innanzitutto alla sua mancanza di pubblico, o meglio alla mancanza di un rilievo sociale e talvolta addirittura culturale. È «l’emarginazione del discorso critico dai palinsesti mediatici» di cui parlava Mario Lavagetto nell’ormai storicizzato Eutanasia della critica, rilanciato da Cortellessa nel suo testo compreso nel volume curato da Zinato – da cui queste parole prendono le mosse –; ma potremmo più estesamente parlare di un’emarginazione dal discorso culturale e forse addirittura, se intendiamo la critica come semplice atteggiamento di fronte alla realtà, una sua progressiva emarginazione dalle pratiche quotidiane.

Nel suo intervento Cortellessa sottolinea molti aspetti nodali per una riflessione serrata sulla “crisi della critica”: dalla necessità di confrontarsi con i condizionamenti strutturali, e quindi con il venire meno di quella mediazione editoriale che dovrebbe consentire alla produzione critica di raggiungere il proprio orizzonte d’attesa (qualora ce ne fosse uno), al (presunto) tramonto del sogno di internet come sede virtuale e “libera” in cui costruire un ecosistema culturale secondo logiche nuove e plurali, che garantiscano sempre il terreno necessario a quel “conflitto delle interpretazioni” in cui si forma la coscienza collettiva. La constatazione che di fatto spiega ogni cosa e che lascia ben poche speranze di risoluzione, a questa crisi, è poi quella con cui si chiude l’intervento: la critica – sostiene Cortellessa – ha smesso di parlare al pubblico, è diventato un circuito chiuso, un discorso per addetti ai lavori che – se interpretiamo bene la metafora del “centro vuoto” – non ha più nessuna legittimità, perché non c’è più nessuno che “legittima” la funzione sociale di quel discorso. Posto che si potrebbe mettere in dubbio il concetto stesso di “legittimazione sociale” (il mito di un’età dell’oro in cui la critica parlava al popolo), è curioso che Cortellessa, nello stigmatizzare questo autismo della critica, questo suo “parlare al muro” faccia riferimento a uno dei pochi lavori recenti che abbiano provato a sfondare quel muro: Gianluigi Simonetti, con la sua Letteratura circostante, ha infatti avuto il merito di tentare – quantomeno – di allargare il discorso critico a quel campo della produzione letteraria che interessa e coinvolge un pubblico di massa, il cui peso in termini sociali e culturali, oltre che economici, non può essere ignorato da chi dica di interessarsi al sistema culturale italiano. Si potrà naturalmente obiettare che Simonetti ricorre a un filtro gerarchico e assiologico per distinguere la «grande letteratura» e la letteratura popolare e che dimostra nel suo discorso un’intonazione nostalgica fin da quando conia la formula della «letteratura di una volta»; ciononostante la sua ricognizione muove da un interesse sincero e fertile per le espressioni della letteratura di consumo, che riflette in maniera molto più trasparente caratteri e forme della cultura contemporanea.

Certo, fa specie che in un dibattito sulla crisi della critica e sull’importanza di recuperare un dialogo con il pubblico non si faccia mai il nome di chi per decenni ha fatto di tale questione la propria “causa”, ovvero Vittorio Spinazzola, che già all’inizio del millennio nella Modernità letteraria osservava come i critici letterari non fossero riusciti ad «aggiornare la loro mentalità, il loro punto di vista e i loro criteri operativi alla nuova realtà della modernità culturale» e avessero così «perso i  contatti con il lettore medio», limitandosi a interloquire con i soli laureati in lettere (ma oggi potremmo dire neanche con tutti quelli). Così facendo la critica ha di fatto limitato la propria funzione sociale alla definizione del canone (grazie anche all’intermediazione scolastica), demandando al giudizio di pubblicabilità degli editori e alle classifiche il compito fatidico di orientare i lettori nel mare magnunm della produzione libraria contemporanea. E a testimoniare una decennale battaglia per rompere le barriere dell’alta letteratura, sta un’impresa di enorme rilievo ma troppo poco apprezzata dai “critici critici” come l’annuario Tirature, oltre che importanti libri come, tra gli ultimi, Alte tirature. La grande narrativa d’intrattenimento (2012).

Non sorprende tuttavia che nessuno o quasi di questi “strumenti” siano finiti in mano di quel pubblico di massa a cui sarebbero potuti servire per scegliere e discriminare nelle sue sortite in libreria. D’altra parte, possiamo pensare che l’intera opera di Spinazzola sia stata un grande tentativo di educare i critici a un diverso approccio alla lettura e alla mediazione critica, più che uno sforzo per condizionare direttamente i comportamenti di lettura del “pubblico grosso”. Anche perché non è certo il libro, monografico o collettaneo, lo strumento che oggi può davvero influenzare il campo, intervenire a direzionare scelte e preferenze. Se è vero che manca un’editoria – se non piccola o piccolissima – per la critica (fatta eccezione per alcuni casi “unici”, di critici che sfruttano rendite di posizione provenienti dal vecchio sistema culturale), questo accade innanzitutto perché sempre meno lettori, anche tra i più “forti” e competenti, affidano al libro di critica la propria educazione alla lettura. I giornali cartacei, d’altro canto, rappresentano evidentemente la forma simbolica di una cultura moderno-borghese che, alla fine del secolo scorso, ha cominciato a disgregarsi: oggi i quotidiani sono a loro volta in crisi e non rappresentano più un’effettiva tribuna (anche perché una compartimentazione tematica sempre più esasperata finisce per indirizzare i diversi tipi di lettori verso le pagine di più stretto interesse, saltando agilmente la “terza pagina”). Non certo è lì che i critici delle nuove generazioni costruiranno la propria parabola nel campo letterario.

Si capisce allora perché Cortellessa e altri suoi coetanei, all’inizio degli anni Duemila, guardassero già alla rete come a una terra di frontiera in cui edificare una nuova Repubblica delle lettere che rifiutasse le logiche di selezione e accesso proprie del campo letterario istituzionale, premiando non l’appartenenza a consorterie accademiche o editoriali, ma le capacità individuali, l’originalità interpretativa, l’irriverenza antisistemica; un sogno, ricorda Cortellessa, che si è presto infranto di fronte alla “socializzazione” della rete, alla nascita di quelle piattaforme in cui il discorso viene regolato da like o commenti tanto rapidi quanto “immediati”. È così che si è arrivati «alla fine di ogni forma di intermediazione critica». Più che i social network, però, ad aver chiuso anche questo circuito del discorso critico sono stati proprio quei litblog che inizialmente ne avevano garantito una rinascita, forse effimera, forse invece ancora praticabile. La rete ha infatti liberalizzato l’accesso al discorso critico e letterario a una massa di nuovi entranti, spesso rivelatisi anche all’altezza del compito, capaci di assolvere almeno le prime e più correnti istanze – il commento critico, l’osservazione attenta del sistema. Da qui un proliferare di riviste e blog, compreso quello su cui compaiono queste parole. Una proliferazione mossa dalle migliori intenzioni, resa possibile, oltre che dalla bassa competenza tecnologica necessaria a realizzare le infrastrutture testuali, anche dalla sostanziale gratuità di questa pratica, tanto per chi la produce, quanto per chi la fruisce. Questa insignificanza economica tuttavia si riflette nella gratuità dell’atto critico, che finisce per poter prescindere anche dalla presenza di un effettivo pubblico a cui rivolgersi. È il paradosso della rete, che mentre permette a chiunque di ascendere alle decine di migliaia di follower, garantisce uno spazio anche a chiunque voglia “parlare al muro”, senza curarsi di avere uno, cento o mille lettori. È così che, nella rete come in quel che resta del sistema critico cartaceo, la comunità leggente ha finito con il coincidere quasi interamente con la comunità scrivente.

Mostra bene questa dinamica un’iniziativa da poco ripristinata, quella delle Classifiche di Qualità – un tempo Pordenonelegge-Stephen Dedalus, oggi realizzate dalla rivista L’indiscreto – che tenta di declinare una formula tipica della promozione commerciale dei libri, quella delle classifiche, in termini di competenza e gusto selezionati. L’immagine che ogni trimestre queste classifiche restituiscono non è tanto quella delle più interessanti proposte della recente produzione letteraria nazionale, bensì quella di una comunità di critici-lettori-scrittori che celebra i propri gusti, le proprie passioni, o meglio “tendenze”, i libri che sono stati maggiormente discussi e “socializzati” nei mesi precedenti. Una classifica che serve a confermare le predilezioni, ma soprattutto a confortare la puntualità del gusto di una nicchia che guarda con apprensione e incomprensione al gusto massificato e dozzinale di chi compra i libri in autogrill o si affida alle “recensioni” di Amazon.

Questa come tante altre iniziative provenienti dall’interno del campo (iper)letterario non fa che ricordarci come la critica resista quasi esclusivamente come “diritto degli autori”, che da questa traggono qualche minimo prestigio, un gettone spendibile in un solo mercato, quello degli altri scrittori e degli altri critici. E allora, cercando di tirare le fila di questo sconclusionato discorso, si potrebbe tentare di individuare un’altra pista d’azione per la critica letteraria, da non sostituire integralmente a quella orientata alla stesura del canone di domani, ma da affiancarle in maniera complementare. Se la prima pista permette al critico di esercitare una mediazione rispetto al pubblico di domani – prevalentemente al pubblico scolastico di domani –, la seconda dovrebbe invece riportare a confrontarsi con i “reali” interessi di lettura di quella metà della popolazione che ancora si dedica a questa antica pratica (ricordandosi che in questa metà, in realtà, solo una parte va oltre il fatidico libro all’anno). Non tanto per cercare un illusorio “mandato”, quanto per garantire quello che potrebbe essere considerato un “diritto dei lettori” a essere consigliati e orientati, non in funzione di un gusto sperimentale che finisce per inibire e mortificare ogni passione più spontanea, bensì allo scopo di legittimare anche gli interessi mediani, quelli che possono trovare soddisfazione all’interno di una produzione artigianale e ben fatta, che è vasta e che, per questo, presenta al suo interno livelli e caratteri anche molto diversi (sempre Spinazzola ricordava come la salute di una società letteraria si giudichi non dalle sue punte di sperimentalismo e originalità, quanto dalla sua produzione media).

Abbandonare di tanto in tanto gli oggetti privilegiati della propria ricerca e dedicarsi senza indulgenze paternalistiche a ciò che incontra il gusto di massa può essere un esercizio di “contatto con la realtà” e un modo per mettere alla prova i propri strumenti critici laddove il sistema e l’ideologia si fanno sentire più forti, tra gli ingranaggi dell’industria culturale. Aiutare il lettore a riconoscere i modi in cui quel sistema e quell’ideologia intervengono a partire dai libri, oppure solo invitarlo a capire perché un libro lo coinvolga o lo diverta più di un altro, è un modo per sviluppare quel “senso critico” a cui si richiamava Emanuele Zinato nel passaggio finale citato ancora da Cortellessa. Chi sa poi che quel senso critico non possa un giorno essere utilizzato, dal medesimo lettore, anche per apprezzare il valore delle “scritture ibride” che tanto incuriosiscono oggi i critici letterari?


In copertina: Emilio Tadini, L’uomo dell’organizzazione. Weekend al parco, 1968