Come afferma l’incipit senza scampo del primo libro di Giorgio Manganelli, Hilarotragoedia, non c’è dubbio “che l’uomo ha natura discenditiva”. Intendendo, a spiegazione dell’assioma, che “l’omo è agito da forza non umana, da voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che egli non sceglie, né intende; che egli disarma e disvuole, che gli instà, lo adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva”.
E se tutta l’opera del più luciferino e funambolico scrittore del nostro ‘900 non è che commento tentacolare a questa premessa, sono davvero pochi gli autori che fino ad oggi ne hanno raccolto la lezione. Non tanto nelle sperimentazioni di una forma ibrida tra saggismo e letterarietà, quella che fa della narrazione un apparato meticoloso di centurie labirintiche e del trattato una allucinata fantasmagoria, di cui anche recentemente sono stati dati ottimi esempi da Tommaso Pincio (Il dono di saper vivere, Einaudi 2018) e Davide Orecchio (Mio padre, la rivoluzione, minimum fax 2017), quanto nella lucida presa d’atto della natura infernale, sotterranea, del proprio Io. Con tutto ciò che ne deriva, e in particolare direi un’idea di letteratura come eterno cerimonioso carnevale di autoinganni, dicerie e sogni, di ruvidissime concrezioni della fantasia e di viscerali messe in scena della propria mente.
C’è tuttavia uno spettro che da vent’anni si aggira, con quella stessa natura demoniaca di impronta manganelliana, tra le nostre saghe familiari e le nostre storie di rimpianti e disagio sociale. Si tratta di Francesco Permunian, che da Cronaca di un servo felice, uscito nel 1999 e riproposto dal Saggiatore nel 2017 insieme al secondo Camminando nell’aria della sera con un anello di frammenti inediti a fare da cerniera, è davvero quell’“archivista del caos” (come lo ha definito Salvatore Nigro) che apre le porte di un teatro umano grottesco e pure lucidissimo.
In quel libro d’esordio Permunian delinea subito la galleria magmatica delle sue ossessioni: la follia, che coinvolge tutti i personaggi e che oscilla tra un polo tragico e uno comico; la malattia e la decadenza fisica; la visione allucinata di un mondo in sfacelo, quasi sempre la corrotta provincia veneta; la commozione intermittente e trattenuta verso i propri personaggi, che sono sì mostri quotidiani ma anche marionette pietose a cui non resta che fare un malinconico sorriso di compassione. Perché dopotutto Permunian, nativo del Polesine e stabilitosi a Desenzano sul Garda dove è stato per anni bibliotecario, viene da quel mondo provinciale, dispettosamente marginale, che ben conosce e di cui soprattutto coglie i brividi di angoscia metafisica dati da una religiosità oscenamente putrefatta (“l’enorme, delirante e quasi demoniaco spettro di un cattolicesimo fermo sulle soglie del suo sepolcro” recita una perfetta citazione di Piovene scelta in esergo a un suo libro). Sembra allora che l’autore si diverta a nascondersi, con un misto di piacere e repulsione, nelle voci narranti di alcuni suoi personaggi. A partire da quella di un servo felice che abita sadicamente una prestigiosa villa in degrado, governata da una vecchia contessa pazza che più invecchia più diventa corrotta e dedita a fantasiosi ludi erotici. Mentre nella casa si aggirano strane figure di preti cialtroni, dame depravate, intellettuali corrotti, orchestre di morti viventi e una bambola di plastica di cui il servo si innamora follemente. Oppure, nella seconda parte del dittico, non è difficile intravedere l’autore dietro la maschera di un medico che, con sguardo più dimesso, attraversa l’aria della sera del suo paesino lacustre, popolato da una sempre ricca schiera di personaggi dominati da una particolare monomania.
Come è proprio degli scrittori guidati dall’ossessione, Permunian ha continuato a modulare nuove variazioni sulle due tensioni che animano la sua scrittura e che Cortellessa ha definito “satirico-demoniaca” e “malinconico-elegiaca”.
Queste trovano una mirabile sintesi in Dalla stiva di una nave blasfema, che è zibaldone di ricordi dell’infanzia e di una provincia meschina, questa volta ritratta per frammenti-racconto in bilico tra una campagna ctonia e una Venezia in maschera. Ai ricordi personali, che “si stanno infeltrendo, ricoprendosi di muffa e di ragnatele, al punto che la memoria di quel tempo non mi emoziona più”, si affiancano figure ai margini di una fede tradita: preti spretati, falsi devoti, figli incestuosi, ex sessantottini, scrittori distrutti dalla vanità, “borghesi malati di sentimentalismo”. Ne emerge un teatrino privato, uno strano diario tra invenzione e biografia, ma non nel senso corrente di biofiction, bensì in quello più antico e romantico di quaderno di visioni, dettagli minuti e abbozzi stranianti.
È invece un ritorno ai furori comico-grotteschi del primo libro il successivo La Casa del Sollievo Mentale, dove uno zelante bibliotecario registra la progressiva follia della zia, che sprofonda in una demenza per metà religiosa (parla con la Madonna) per metà erotomane (afferma di voler morire “a cavallo di un ravanello, come una dragonessa”). La casa del titolo è la clinica psichiatrica che ironicamente dovrebbe dare sollievo a una palude di personaggi, tutti più o meno folli, che sfilano tra le pagine di questo manicomio di carta. In particolare è la figura della bambola, topos barocco e decadente, che ritorna insistentemente, come già nella Cronaca, per essere doppio perturbante e simbolo di artificiosità claustrofobica. Nella parte finale del libro, le bambole e le marionette diventano addirittura un osceno teatro dell’orrore nelle mani di un vecchio criminale nazista, il quale gioca a riprodurre la sua strage di bambini innocenti nei sotterranei di un albergo fatiscente.
Permunian è abile ad alternare libri di forma narrativa più distesa, che scimmiottano come marionette il romanzo, e simil-diari, apertamente frammentari, come il successivo Il gabinetto del dottor Kafka. Qui è l’insonnia che partorisce incubi lucidissimi, questa volta venati di un citazionismo iperletterario. Ma anche la letteratura si riduce con compiacimento a scatologia, il cui correlativo oscenamente oggettivo è il cesso della stazione ferroviaria di Desenzano, un gabinetto dove Kafka di passaggio avrebbe inciso su uno specchio un mitico graffito. Un “memoriale di ombre e fantasmi” come recita il sottotitolo, dove alle persone comuni della sua vita Permunian affianca il ricordo spesso commosso di letterati e poeti che lo hanno seguito nel tempo, da Maria Corti ad Andrea Zanzotto.
Il rischio di far divenire la propria nevrosi e le trame intessute di fantasmi grotteschi solo una strana sarabanda di macchiette è alto, e tuttavia è grazie alla lucidità severa dello stile che questa materia incandescente trova una sua potente penetrazione etica e sociale. Al pari di tutti i grandi parodisti anche Permunian, quanto più estremizza e distorce una realtà, tanto più ne illumina l’aspetto socialmente riconoscibile, imponendo il grottesco con tale coerenza maniacale che tutto sembra venire da un fondo di dolorosa verità. E in questo senso non fa eccezione, anzi lo manifesta apertamente, l’ultimo libro dell’autore, Sillabario dell’amor crudele. Qui il nano Baseggio (“un aberrante capriccio divino, questo sono io”) a distanza di anni ricorda le violenze subite in un orfanotrofio italiano gestito dal clero corrotto, e chiede vendetta. Un sillabario quindi che nulla condivide con quello razionale e illuministico del conterraneo Parise. Perché se in una famiglia lo si vuole ascrivere, Permunian fa parte di quella dei nostri espressionisti-visionari, come Landolfi, Gadda, l’amato Piovene e ancora il maestro Manganelli.
Al netto dell’indiscutibile qualità della scrittura di Permunian e della sua maniera che già da tempo la critica e i lettori più affezionati gli hanno riconosciuto, il problema interpretativo più interessante che questo autore pone credo sia da rintracciare nell’aspetto legato alla ricezione e alla sistematizzazione della sua figura intellettuale. La fisionomia che abbiamo delineato infatti è quella tipica del “caso”, cioè quella che nel Novecento italiano è stata assegnata a tutti gli irregolari, da Landolfi a Delfini, passando per il più istituzionalizzato Gadda. Già Contini rimproverava a Landolfi la mancanza di un’evoluzione nel suo percorso, la promessa sempre frustrata di una grande prova definitiva che potesse segnare per tutto il paesaggio letterario un punto di riferimento condiviso. Un discorso simile possiamo farlo per Permunian ma ribaltando in pregio l’ipotetico difetto: se di scrittore-caso si tratta, ossessionato di imporre, come la firma obbligata di un patto, la sua visione della realtà, allora è fuorviante cercarvi altro. Gli elementi per una più aperta leggibilità del mondo, per una visione che ricomponga in un intreccio conoscitivo la realtà, li si cerchino da altre parti. Il valore di Permunian, come di altri prima di lui, sta proprio nella sua chiusura, nell’adesione totalizzante a un modo. In primo piano c’è quindi solo la nuda fedeltà alla parola scritta e a quel cosmo dilaniato che suscita. E forse il prendere o lasciare senza invito è proprio della grande letteratura.