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“Flashover” di Giorgio Falco: l’incendio sublime

L’incendio del teatro la Fenice di Venezia, la sera del 29 gennaio 1996, è uno dei tanti episodi assurdi della storia dell’Italia, ma potremmo dire anche dell’Occidente; assurdo e disastroso, ma non così drammatico da insediarsi definitivamente nell’immaginario collettivo. Un disastro come tanti altri, anzi, forse anche meno memorabile perché meno traumatico, visto che non provocò morti, ma solo la chiusura e la ristrutturazione di uno dei teatri più belli e antichi d’Italia, che avrebbe riaperto solo sette anni dopo. Senz’altro però un episodio dal forte impatto visivo, con le fiamme che avvolgono l’edificio riprese in diretta dalla televisione, prima del crollo. Anche se, qualche anno dopo, altri fuochi e altri crolli avrebbero segnato il destino dell’Occidente, segnando irreversibilmente nella memoria di tutti.

Come spesso capita in letteratura, un evento “minore” della storia italiana, un episodio di cronaca che conquista le pagine dei giornali per qualche giorno, magari qualche settimana, per poi essere riassorbito nel flusso dei traumi nazionali, viene rievocato dalla penna di chi è capace di trasformarlo in simbolo o sintomo. In questo caso la penna è quella di Giorgio Falco, accompagnata dallo sguardo fotografico di Sabrina Ragucci, che in Flashoverricostruiscono l’episodio che vide due cugini – Enrico Carella e Massimiliano Marchetti – provocare l’incendio all’interno del teatro in cui la loro impresa era impegnata, per non dover pagare la penale di 15 milioni di lire per il ritardo del loro intervento all’impianto elettrico.

Il lavoro sulla cronaca non appartiene al carnet di scrittore di Falco, che nella sua produzione narrativa, finora, ha cercato altrove la sua ispirazione: dai racconti “sul lavoro” di Pausa caffè, che condividono lo stampo del romanzo autobiografico Ipotesi di una sconfitta, all’autofinzione di Condominio Oltremare e fino alle storie di “pura invenzione” che troviamo in L’ubicazione del bene o La gemella H. Eppure anche Flashover si riconosce distintamente come un’opera dell’autore, che individua nel fatto di cronaca la metafora di un sistema, quello del Capitale, che condiziona e determina ogni azione individuale. Qua non ci sono i residui abbandonati di una società dei consumi che costruisce, cementifica e poi si sposta altrove; e nemmeno le villette “geometrili” di una periferia plastica che tenta di mascherare il vuoto dell’hinterland metropolitano. Qua si tratta di una follia individuale che si trasforma in disastro collettivo, la stereotipata ambizione del Carella – «il cugino padrone», che vive nel mito dell’auto tedesca, del lavorare senza superiori, del vivere al di sopra delle proprie possibilità – che assegna una patente di possibilità a un espediente assurdo e illogico, che testimonia la banalità dell’immaginazione capitalista e la sua desolante indifferenza verso le conseguenze collettive. L’incendio di un teatro storico come exit strategy per una scadenza non rispettata, e le eventuali vittime come conseguenza accettabile pur di non pagare una penale e indebitarsi ancora di più.

Quella di Falco, però, non è un’interpretazione dell’episodio, ma una semplice constatazione di ciò che è già nei fatti (e che un lungo processo ha accertato senza ombre). Non c’è molto da spiegare, tutto è già chiaro fin dall’inizio. Non c’è equivoco sul senso da dare a questa narrazione, così come non c’è suspense nella ricostruzione dell’episodio; se inizialmente l’autore sembrava essersi messo sulla strada di un’indagine alla Sciascia, capiamo presto che qui non c’è mistero da risolvere, nessuna casella vuota da riempire con la forza dell’immaginazione letteraria. Al contrario, i fatti qui sono talmente evidenti nella loro desolante banalità, che la scrittura dovrà farsi carico di renderli semplicemente visibili («la visione che precede la cronaca, la visione che vivifica la cronaca tramutandola in altro»). È lo stesso Falco a dichiarare le premesse di un esperimento che, attenendosi ai fatti, prova a generare qualcosa di nuovo.

Questo fuoco è umile, si ciba della cronaca per diventare inclassificabile: né romanzo, né racconto, né saggio, né novella, né poesia. Flashover. I fatti, allora, entrare nei fatti, usare l’archivio per edificare una scrupolosa congettura, una concatenazione di ipotesi, supposizioni basate sempre sui fatti: come ogni buona fotografia insegna, l’unico modo per raccontare questa storia incendiaria, direbbe Lewis Baltz, è usare fatti reali, grazie ai quali è possibile costruire, pezzo dopo pezzo, realtà artificiali, che svelino verità, o meglio ancora, diresti, pezzetti di verità.

All’indagine, allora, si sostituisce una rappresentazione, duplicata dalle fotografie di Sabrina Ragucci che mostrano l’autore in maschera, di volta in volta intento ad azioni diverse, attraverso un racconto che accompagna e dà profondità alla scrittura. D’altra parte non è casuale che l’attenzione di Falco cada proprio su un teatro e sulla città del carnevale e della commedia dell’arte, Venezia con la sua eterna messa in scena. La vicenda dell’incendio della Fenice e quella della megalomania provinciale di Carelli, infatti, non sono altro che l’ennesima replica di uno spettacolo sempre in cartellone. I fatti si dispongono lungo «il solito canovaccio», sempre noto e sempre uguale. Il tempo della storia è il passato, ma il racconto è al presente («Oggi, martedì 30 gennaio 1996, la Fenice, vista dall’alto, è un grande catino carbonizzato»), perché quel tempo è ancora in corso e in realtà non passa mai.

Appare quindi naturale che anche questo racconto così insolito nell’opera di Falco si riveli un’occasione per tornare sui temi a lui più cari: le manifestazioni di un inconscio collettivo plagiato da quello che Mark Fisher chiamava il “realismo capitalista”; la logica del tempo-denaro insediata nella banalità dei gesti quotidiani e nella loro imprevedibile deflagrazione. I tre minuti che nell’Ubicazione del bene delimitavano il tempo a disposizione per osservare un paesaggio dalla lente di un cannocchiale a pagamento («i gradi di rotazione del cannocchiale sono stabiliti dall’azienda produttrice che definisce la fetta di mondo concessa», si leggeva in Un altro ancora) trovano ora la potenza di un’immagine che è realtà e anche metafora, quella dell’incendio:

Tre minuti è il frammento produttivo di un tempo ciclico, arroccato su se stesso, il tempo della produzione che genera procedure di gesti, pensieri dei corpi addestrati, una ricchezza percepita sempre come astratta, una ricchezza che può soltanto espandersi, meglio se senza fine: l’unica fine possibile coincide con il termine dei tre minuti e l’inizio dei tre minuti seguenti.

Tre minuti è il tempo che impiega un fuoco a distruggere tutto ciò che si trova in una stanza.

Per questo le fiamme della Fenice diventano così importanti. Perché dimostrano come anche un gesto pensato per evadere da quella logica produttiva – provocare un sinistro che legittimi l’intervento delle assicurazioni sospendendo le penali per il ritardo sui lavori – non è altro che il riflesso pavloviano di un individuo che non può che pensare secondo quella stessa logica.

Ecco allora il senso del titolo, Flashover. Nel gergo dei pompieri, il flashover indica «la fase dell’incendio generalizzato», quando un incendio smette di propagarsi e raggiunge uno stadio maturo. Il flashover è una sorta di punto di equilibrio dell’incendio, il momento in cui «tutti gli elementi bruciano all’unisono» e in qualche modo è possibile ricostruire l’intera storia del luogo che è stato annientato dalle fiamme («Ogni fiamma è la biografia quasi irriconoscibile di un pezzo bruciato»). Si parla sempre di corsa contro il tempo quando si sente la notizia di un incendio che dev’essere domato e la fase del flashover è quella a cui si cerca di non arrivare ma in cui, paradossalmente, l’incendio potrà finalmente essere domato: nulla gli sarà sfuggito, ma d’ora in avanti non potrà fare altro che consumare ciò che ha conquistato. È anche per questo che

il flashover indica la nostra condizione contemporanea. Abbiamo bisogno di più presente, presente accelerato che generi passato istantaneo, presente accelerato che necessiti dell’accelerante come innesco in modo da raggiungere in fretta l’ipotetica simultaneità del presente, il flashover, che tuttavia è già passato istantaneo, ulteriore accelerazione contenuta all’interno dell’immediatezza, quel passato immediato di cui parlava Bergson.

Il paradosso del flashover, il suo stare in bilico tra presente e passato, è il paradosso dell’uomo occidentale e del suo vivere nel tempo: «il flashover di una civiltà già defunta, che muore ogni volta fingendo di rinascere solo per continuare a morire meglio».

In questo libro però il fuoco non è solo la metafora di una condizione in cui il futuro è continuamente promesso e sequestrato e il passato non più recuperabile, ma diventa implicitamente anche metafora della costruzione stessa del racconto: «l’incendio acquisisce per intero un senso» solo con la propria estinzione, quando restano le macerie che consentiranno di farne una sorta di autopsia, ricostruire gli eventi; e così ogni narrazione avvince il lettore proprio promettendogli un finale che lo risarcisca dello stato di sospensione e incertezza in cui ha attraversato le pagine. La fine è sempre il luogo in cui si contratta il significato dell’esperienza.

Più che in qualsiasi altro suo libro, in Flashover Giorgio Falco si costruisce uno spazio di autoriflessione, parentesi personali, in cui la narrazione passa significativamente alla seconda persona singolare e in cui l’autore costruisce esplicitamente il percorso del testo, lo discute con il lettore, gioca a carte scoperte. Una dimensione metanarrativa così pronunciata (che peraltro sembra dialogare a distanza con le pagine del Medesimo mondo di Sabrina Ragucci, che adotta un simile espediente, pur ricorrendo alla prima plurale) denota la forte autocoscienza di Falco, scrittore ormai maturo, disposto a infrangere la distanza di quella voce ironica che anche in Ipotesi di una sconfitta regolava la distanza con il lettore e si mostra pronto a motivare ogni sua scelta di scrittura. Tra parentesi prende così corpo una sorta di autobiografia critica dello scrittore:

Fino a pochi minuti fa, non avresti mai pensato di scrivere, adesso, questo brano, e invece eccoti qua, a lottare tra parentesi. Forse l’artista non deve temere il compromesso tra questi due stati, meglio essere consapevole dell’irruzione di ciò che è inatteso; al tempo stesso, è bene farsi trovare come in una condizione di innocenza sorprendente, per non cadere nel manierismo.

D’altra parte, se è vero che il fuoco è metafora del racconto, bisogna dire – in parte l’abbiamo già anticipato – che Flashover non è un racconto. È un testo anomalo, «né romanzo, né racconto, né saggio, né novella, né poesia». E forse questi continui incisi autoriflessivi servono a preparare chi legge a una sorta di salto quantico che nelle ultime pagine prende corpo. Per tre quarti del libro, il lettore ha ritrovato l’acume analitico tipico di Falco, già evidente in una scrittura che si dispiega in armonia, con costruzioni articolate ma sempre cristalline che di tanto in tanto si raggrumano in rapidi smottamenti di senso, guizzi ironici o sinonimi anodini, precisazioni che nello scandire il ritmo del discorso rischiarano il pensiero. Al termine di ogni frase o di ogni capoverso, il pensiero si impone, la comprensione viene offerta come frutto maturo di una sintassi perfettamente padroneggiata. Nelle pagine finali, invece, la scrittura cambia radicalmente registro, si addensa, il procedere alternato di periodi riflessivi e rapide esplicazioni si tramuta in un incedere apodittico e dichiaratamente figurale.

La maschera fa l’immagine, la maschera ha fatto l’immagine, la ripropone, e nel momento in cui diciamo, la maschera ha fatto l’immagine, ecco, la maschera ne fa subito un’altra, ne sta facendo un’altra: la maschera è una strofa ricorrente, un flusso di cassa, un respiro individuale e collettivo.

Siamo alla fine del libro: il flashover dell’incendio della Fenice è ormai lontano e noi stiamo aspettando che le fiamme si spengano per poter cominciare a osservare le tracce. Le pagine finali si fanno astratte, suggeriscono connessioni tra testo e immagini, tra concetto e realtà. Sembrano condensare anche una serie di significati che si estendono retroattivamente sui libri precedenti di Falco- Il lavoro, il denaro, l’annacquamento italiano dell’American way of life, tutto converge qui, dove non ci sono che macerie, pronte per essere spazzate via, per lasciare spazio a qualcos’altro: «Le macerie non sono un’anomalia, una patologia del capitale: sono l’elemento che lo sorregge».

Le pagine finali sono difficili, a tratti oscure; servirà tempo per capirle. Intanto però ci dicono che Flashover è un esperimento, il tentativo di portare altrove la scrittura (insieme all’immagine che l’accompagna e sorregge): verso un dominio meno letterario e più artistico (non è la prima volta che Falco usa il termine “artista” per definire il suo lavoro, et pour cause), un dominio in cui il senso non può essere offerto in superficie, ma deve essere ricostruito pezzo per pezzo, attraverso un processo analogo a quello che permette ai periti («Quanta ammirazione per questi uomini definiti: i periti!») di ricostruire l’andamento di un incendio, risalire alle cause, alle motivazioni. Il prezzo da pagare è quello dell’incomprensione, dell’oscurità, della deformità strutturale del testo. Ciò che rende Flashover un oggetto di difficile collocazione, la prova di un autore maturo che non teme di mettere a nudo le proprie strategie e di dichiarare apertamente di essersi messo su una strada nuova.


Giorgio Falco, Flashover. Incendio a Venezia, fotografie di Sabrina Ragucci, Einaudi, Torino 2020, 200 pp. 19,00€

In copertina: Alberto Burri, Bianco plastica, 1965 – plastica, acrilico, vinavil e combustione su cellotex