Perché si possa interrogare il volume collettaneo “Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido” a cura di Massimo Filippi ed Enrico Monacelli (Ombrecorte, 2020), testo-atlante per un esser-contemporaneo non più solo disseccato/archiviato, capace a un tempo di memoria e ribollente materia, non sembra privo di interesse tracciare due segnavia per itinerari solo all’apparenza distinti. L’architettura entro cui sarà possibile un dialogo tra le cronologie si accorda con l’incedere dell’opera verso singolarità del sistema-Storia.
Il primo si potrebbe dipingerlo sull’altipiano della storia dell’ordine, delle classificazioni, delle tassonomie. L’epoca risorgimentale gronda di tentativi enciclopedici. Il “Tableau accomplis de tous les arts libéraux”, ad esempio, per firma dell’erudito Christophe de Savigny in due edizioni licenziate rispettivamente nel 1587 e nel 1619. In esse le sette arti liberali, ovvero lo scibile linguistico-argomentativo (grammatica, dialettica e retorica) insieme a quello generalmente scientifico (aritmetica, musica, geometria, astronomia) era amministrato nella forma di una proto-enciclopedia entro cui il sapere si ramificava in unità circolari. Non v’era dotto del Risorgimento che non considerasse la forma orbitale una sublimazione delle geometrie platoniche. Il celebre modello presentato da Johannes Kepler nel Mysterium Cosmographicum raffigura cinque poliedri ciascuno incastonato dentro l’altro e le cui geometrie, insieme raffigurazioni del moto planetario ed emblemi degli elementi naturali, dimostrano l’orbitare del sistema solare. Quella di de Savigny è dunque letteralmente un’enciclopedia: un cerchio utile all’insegnamento. Nel prospetto le arti sono annodate circolarmente tra loro, ornate da un concatenamento al cui interno di ogni maglia si può leggere l’insegna di una disciplina. Ma non la sola concatenazione: allo stesso modo il contenuto della struttura ovale è tutto miniato a unità tentacolari. L’unica origine che tra loro resiste è il solo soggiogarsi al medesimo sistema della Philosophie perché gli enti generali siano aristotelicamente distinti dai particolari. Il tentativo d’ordine diviene più ambiguo e polivalente con il sovrastare del particolare sul generale – il quale si arresta alla sola retorica – finché ogni altra dottrina non abbia raggiunto la propria individualità: l’uomo si esaurisce nell’antropologia, ma prima ancora era stato originato dal sistema dei corpi e ancor prima dall’appartenenza all’apparato dei soggetti naturali. Questo micro-storicizzarsi delle facoltà nel più diffuso sistema del sapere potrebbe servire da didascalia per le oddities, le eccentriche peculiarità scandagliate in “Divenire invertebrato”.
Per il secondo segnavia è invece necessario attraversare l’itinerario del tempo fino agli accadimenti contemporanei. Proprio nell’anno in cui si rinsalda nelle dizioni filosofiche la dialettica tra Bìos e Zoè, tra la vita relazionale-politica e quella vegetativa, l’editore Adelphi licenzia uno dei testi più articolati in materia di storia dell’evoluzione. “L’albero intricato” di David Quammen (tra. di M. Z. Ciccimarra), oltre a presentare un’erudita narrazione sulle tesi e le figure di cui sono state attraversate le scienze biologiche, rileva uno dei temi più speculativamente densi di “Divenire invertebrato”, quello sulla storia degli organismi, le loro determinazioni, i loro destini. Poiché «la forma dell’albero è importante», di forme se ne esamineranno un paio. L’albero degli organismi di Haeckel incluso nella “Morfologia generale degli esseri viventi” propone tre diramazioni estese da radici comuni: Plantae, Animalia, Protista. Quest’ultimo regno racchiude quegli organismi – come le spugne e le monere – non assimilabili né all’una né all’altra specie, forme di vita liminari che sin dalla “Fisica” di Aristotele hanno interdetto il binarismo della vita organica. Così l’ultimo progetto di reticolato presentato dal volume, a firma del biologo Bill Martin il cui oggetto è il solo regno dei batteri. Al di là della tripartizione è possibile osservare come i suoi rami non si ergano più verso l’altro, stipati nel proprio regno o nel proprio dominio, ma invece si intreccino l’uno nell’altro tanto che alla certezza con cui si potrebbe dirne l’origine non altrimenti si potrebbe annunciarne l’avvenire. E certo, le dita ardono per citare quel brano dalla “Geologia della morale” inclusa in “Millepiani” di Deleuze-Guattari per cui è proprio il ribollire sotterraneo nel suo radicarsi/irradiarsi rizomatico a interdire la gran manualistica della morfogenesi. Cos’è anzitutto l’albero della vita se non la figurazione di una storia catturata nell’istante del suo compiersi? Di un tempo perseverante nel ritorno, insieme immobile e in moto?
È a questo punto che i due segnavia conducono al medesimo territorio: quello di un testo attento alle biologie minori dal punto di vista dell’umanismo antropocentrico per l’ascesa di un naturale pluralizzato e senza Caduta. Non solo la scrittura di un altro mondo, non la sola redazione e fisiologia dell’alterità (nel senso scientifico e letterario di cui il Settecento francese ha adornato il termine) ma un proposito – ben più filosofico – della stesura di una nuova storia disciplinare. Tale ad esempio il lavoro compiuto da Eugene Thacker in un trittico di opere – “Tra le ceneri di questo pianeta”, tradotto in Italia da Claudio Kulesko per Nero Edizioni, “Starry Speculative Corpse” (Zero Book), “Tentacles Longer Than Night” (Zero Book) – in cui a una storia alla filosofia-consolazione e vivificata nel progresso, si oppongono scritture tentacolari, nihilo-pessimiste, demonologiche, le quali segnalano un intero palinsesto intellettuale per il disorientamento della storicità classica.
Un brano di “Divenire invertebrato” a firma del citato Claudio Kulesko potrebbe lavorare da giuntura per una lettura del testo dedicata al tema esplicato più sopra. «Quando la concordanza tra un organismo e il suo ambiente si interrompe o si fa più flebile a venir meno è la conoscenza acquisita, l’archivio di saperi, competenze e abitudini irriflesse sulle quali un corpo fa affidamento. Le rivoluzioni scientifiche, le trasformazioni culturali, l’evoluzione delle specie e persino la formazione degli strati geologici mostrano come dentro la ripetizione si faccia strada la differenza, come da Ananke (la necessità) sgorghi Tike (la causalità)».
Il frammento è già da solo traboccante di riferimenti teorici, ma soprattutto due sembrano emergere sulle altre: l’indagine sull’empirismo britannico compiuta diffusamente da Deleuze, in particolar modo in “Differenza e ripetizione” e la tesi presentata da Jacques Monod ne “Il caso e la necessità”. Oggetto d’indagine è anzitutto la possibilità surrettiziamente scientifica di un divenire-mutare (lo stesso divenire che nel titolo si invertebra) che produca in ognuna delle storie disciplinari attraversate pieghe e istanze di discontinuità. «Nel considerare la ripetizione nell’oggetto», scrive Deleuze interrogando Hume, «si restava al di qua delle condizioni che rendono possibile un’idea di ripetizione. Ma considerando il mutamento nel soggetto, noi siamo passati già oltre, e ci troviamo dinanzi alla forma generale della differenza», ovvero in una mancata conservazione-archiviazione dell’ordine storico così come osservato, ad esempio, nella manualistica. Donde le tesi di Monod che al trittico evolutivo teleonomia, morfogenesi autonoma e invarianza riproduttiva, ovvero all’abilità degli organismi di progettarsi da sé conservando generazione dopo generazione un capitale di patrimonio genetico, oltre che alle relazioni “metafisiche” originate tra questi, oppone l’intervento di «eventi iniziali […] microscopici, fortuiti e senza alcun rapporti con gli effetti che possono produrre nelle funzioni teleonomiche».
Meglio si potrebbe esplicarlo ricorrendo al volume adelphiano “L’ingegneria degli animali” per firma di Mark Denny e Alan McFadzean (trad. di G. Castellari), la cui centralità è nell’evoluzione dell’ingegneria strutturale nel mondo animale. Tralasciando le leggi di natura fisica di accumulazione, trasmigrazione e dispendio dell’energia sembra abbastanza chiaro come le forme di adattamento partecipino sia di un riprodursi morfogenetico sia di quella che lo stesso Monod definisce «facoltà autopoietica». Tali «macchine» – commenta Kulesko – sono dunque in grado di «costruirsi da sé» e dunque originare da sole peculiari ripetizioni e peculiare divenire. In tal modo l’autore sostiene come la lotteria evolutiva non si conceda alle forme dell’arbitrarismo, ma «le componenti scelte al di fuori di ogni vincolo chimico […] hanno dovuto essere processate, cooptate e, in sostanza, rese coerenti e necessarie dagli organismi stessi». Se di necessità si può discutere, si può farlo a patto di un dinamismo ontologico tra la materia e la storia. Solo così si conosceranno autenticamente le variopinte e fluttuanti anomalie generate dall’esacerbarsi del concetto di “norma biologica”. La determinazione degli organismi e di conseguenza la possibilità di un inciampo entro le altre facoltà – l’intelligenza, lo Spirito, la vita – si configura quale interrogativo fondamentale della filosofia della scienza. Il più ancestrale degli interrogativi, quello sull’origine degli organismi, si annoda a quello della sua teleologia, dei suoi talenti, virtù, destini. In una recensione all’opera di Georges Canguilhem il teorico della scienza Christian T. Wolfe si serve di un peculiare neologismo del collega Ezequiel di Paolo per descrivere la postura dell’epistemologo critico (termine utilizzato proprio da Monod nella sua opera), quello di bio-chauvinism, biosciovinismo. Secondo tale lettura, l’autore de “Il normale e il patologico” – invece che interessarsi a una unicità (uniqueness) dell’umano di matrice esistenzialista o gnostica (à la Sartre o à la Jonas) – sembra più affascinato dai corpi viventi quali ricettacoli di variazioni intestine, autopoietiche. Se si considera ad esempio un suo testo sulla formazione del concetto di regolazione biologica tra il XVIII e il XIX secolo si può osservare come una archeologia del sapere destrutturi l’economia dell’assimilazione tra biologico e naturale. «Quando un termine è al plurale […] non può che avere una comprensione fissata solo provvisoriamente». Tale provvisorietà è la stessa di cui gli organismi si servono fuori di dialettica della propria storia. Se «la storia può essere scritta come una successione di mostri o come qualcosa dentro di loro», scrive China Mièville nella sua “Tesi sui mostri”in “Divenire invertebrato” è in quanto alla storia della Differenza si oppone sempre una microstoria della consuetudine differenziantesi, mostrificantesi. Ma i “Mostri Autentici”, come li dice Mièville, sono spesso risolti in un tradimento: al “normale” si oppone il “patologico”, ovvero a una storia una contro-storia.
Questo non è che il fondale in cui la moltitudine storiografica è soggiogata all’erompere delle evenemenzialità. Non dell’evento, il quale sbalestra il palinsesto codicologico del divenire-storico, riducendolo ai sensazionalismi hegeliani di una filosofia della storia, ma – appunto – da possibilità, a volte compiute un po’ più in là dell’immaginario e un po’ più di qua del Fuori, in territorio acefalo e insorto, di minorità organiche. Seppure non sembri possibile sovrapporre e dissolvere l’uno dentro l’altro un drappello di documenti eterogenei è pur sempre possibile vagliarli alla lente – mai obiettiva – delle minorità evenemenziali. Come altrimenti interrogare le criptobiologie presentate da Thacker per la profilazione di animalità «mutanti», come lui stesso li presenta citando ancora Deleuze? Tali animalità – siano esse quelle diffuse da Dagman Van Engen nel paper “Come scopare con un* kraken” o le tesi ivveleniste del progetto “Philosophy-in-the-Wild” che alla filosofia quale compromesso para-scientifico tra la tesi e la tradizione oppone una prassi rettile e anti-angelica – invece che relegate a studies e campi d’interesse sempre più monadici erompono sulla scena delle filosofie della prassi (economiche, politiche, e così via) dissestando – con il loro strisciare e contagiare e azzannare – la quieta finitudine dei tempi.
A differenza della storia monumentale presentata da Nietzsche nella “Seconda Considerazione Inattuale”, questa prassi critica della storia, non opposta ma sovrapposta alla storia critica del presente operata da Foucault, diviene la continua occasione di quanto Kulesko ha definito, in un articolo per Materia Impersonale, una «progettualità strategica», dunque sempre diveniente, archiviata quel tanto che basta perché possa far da manifesto speculativo. Il suo non è un metodo di accumulo dei saperi – come quello accademico, per esempio, la cui parodia è registrata da Emmanuela Carbè nel saggio per “Trilogia della Catastrofe” (effequ) – ma della loro ri-animazione, come la scarica queer, eccentrica, del fulmine citata da Karen Barard, a un tempo un atto di natura e informazione codificata nell’unità. Questa Storia non sarà forse mai possibile ridurla a storiografia, in quanto sarebbe necessario risolvere il grande interrogativo sul suo senso e sulle sue possibilità di governo.
Bibliografia
- AaVv, Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, a c. di M. Filippi – E. Monacelli, Ombre Corte, Verona 2020.
- AaVv, Sul determinismo. La filosofia della scienza oggi, a c. di K. Pomian, tr. it. D. Formentin. Il Saggiatore, Milano 1990.
- Denny, M. – McFadzean, A., L’ingegneria degli animali. Così funziona la vita, tr. it. G. Castellari, Adelphi, Milano 2018.
- Monod, J., Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, tr. it. A. Busi, Mondadori, Milano 2017.
- Quammen, D., L’albero intricato. Una nuova e radicale storia della vita, tr. it. M. Z. Ciccimarra, Adelphi, Milano 2020.
Massimo Filippi, Enrico Monacelli (a cura di), Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, Ombre Corte, Verona 2020, 159 pp, € 15.00.