Quarant’anni or sono, nel gennaio del 1980, il ventiquattrenne Pier Vittorio Tondelli da Correggio, all’epoca laureando presso il Dams bolognese, esordiva alle lettere con il famigerato Altri libertini, «libro-scandalo» (Giovanni Giudici) che in sei affilati racconti schizzava un affresco allucinato, esuberante e coltissimo della provincia emiliana di fine anni ’70 e della sua giovane, degenere umanità (tra droga, alcool, iniziazioni omosessuali, scoperta di sé e del mondo), ottenendo un immediato successo di pubblico nonché – secondo un tipico copione all’italiana – un’ordinanza di sequestro «per il suo contenuto luridamente blasfemo e osceno nella triviale presentazione di un esteso repertorio di bestemmie contro le divinità del Cristianesimo; nonché di irriferibili turpiloqui, […] onde il lettore viene violentemente stimolato verso la depravazione sessuale e il disprezzo della religione cattolica».

Undici anni dopo, tracciando una delle parabole più brevi della nostra letteratura, l’ancora giovane autore entrava tragicamente nel mondo dei più consumato dall’AIDS. In mezzo, tre romanzi (Pao Pao, Rimini, Camere separate), un testo teatrale (Dinner Party), una ricca produzione giornalistica raccolta nell’imperdibile Un weekend postmoderno, la curatela di tre antologie di giovani narratori riunite sotto il progetto Under 25, e altri scritti di limitata circolazione o raccolti postumi.

Una figura, quella di Tondelli, che se da subito è stata oggetto di un culto tutt’altro che circoscritto, nutrito di una ricca aneddotica “devozionale”, d’altro canto ha a lungo scontato lo stigma dell’epoca che ha così empaticamente attraversato e contribuito a definire sul piano estetico, quel decennio degli ’80 passato alla storia come gli anni del riflusso, dell’edonismo, dell’individualismo di massa ecc.

L’opera di Tondelli, a cominciare da Altri libertini, segna infatti la crisi di una narrativa autenticamente “generazionale” così come concepita fino a pochissimi anni prima: passato attraverso la fragile utopia collettiva del ’77, dell’insurrezionalismo diffuso che all’epoca spirava dalle piazze di Bologna alle aule universitarie (e viceversa) il giovane scrittore porta in dote un’eredità «in molti punti scheggiata, problematica, interrotta» (Ugo Perolino): la società, nei primi racconti tondelliani, si divarica in una dicotomia che senza possibilità di mediazione oppone gli adulti “integrati” a una gioventù orgogliosamente outsider, che della controcultura dei ’70 sviluppa soprattutto le pulsioni tribalistiche, il senso di una permanente alterità ai tipici valori del vivere borghese – al «mondo dei padri e delle madri», per dirla con l’autore.

Dopo le scene di vita militare di Pao Pao (1982), il maledettismo pop e lo sperimentalismo “parlato” degli esordi (tra Arbasino, Kerouac e Celati) cederanno il campo a un netto raffreddamento espressivo, che dal bestseller Rimini (1985) – consacrazione anche mediatica dell’autore trentenne – approderà al crepuscolarismo di Camere separate (1989), in concomitanza con la discussa trilogia curatoriale di Under 25 (’86-’90), proclama ufficioso di quella “letteratura giovanile” che intonerà il proprio canto del cigno con l’einaudiana Gioventù cannibale (1996) curata da Daniele Brolli.

Sull’esperienza di Tondelli scout e promotore culturale, tanto fortunata da un punto di vista editoriale quanto controversa sul piano letterario, torna a interrogarsi il recente volume di Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli (Mimesis).

Del volume di Campofreda, che peraltro trascrive e commenta i testi inediti di due performance risalenti al ’78-’79, importanti come antefatti della mitologia tondelliana della giovinezza (Jungen Werther/Esecuzioni e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile), il lungo capitolo conclusivo prende in considerazione le tre famigerate antologie di Under 25Giovani Blues (1986); Belli & Perversi (1987); Papergang (1990) –, offrendo una lettura panoramica dei racconti selezionati e avanzando un utile confronto tra la rappresentazione tondelliana della giovinezza, così come si articola lungo l’intera produzione d’autore, e quella dei suoi “discepoli”.

L’autrice racconta le origini del progetto, innescato da un invito della rivista «Linus» nel giugno 1985; di come Tondelli, ragionando sulla difficoltà di descrivere «i giovani d’oggi» fuori dai cliché della comunicazione di massa, cogliesse «una tendenza alle aspirazioni letterarie delle nuove generazioni, il desiderio di confessarsi attraverso la scrittura» così tipico del decennio, con ciò promuovendo una piattaforma editoriale capace di raccontare, attraverso la viva voce dei diretti interessati, il loro immaginario.

Eppure, se per lo scrittore ormai affermato «Under 25 non è una semplice antologia di prose, ma un’inchiesta condotta con gli strumenti della narrazione sulla creatività della nuova generazione», di fatto, anticipa criticamente Campofreda, «Tondelli impone il proprio modello di letteratura (i temi, il linguaggio) e la propria idea di giovinezza quali parametri privilegiati da seguire al fine di essere incusi in Under 25», fallendo nel tentativo di offrire uno spaccato attendibile, sia pure per vie “creative”, della nuova generazione: fin da Giovani Blues, in questo senso, emergerebbe tutta l’ambiguità del progetto, tra ambizioni dichiaratamente sociologiche da una parte (sollecitare il racconto di sé da parte dei giovani) e specificamente letterarie dall’altra (la selezione di un drappello di testi adatti alla pubblicazione in volume), laddove l’immagine di giovinezza promossa e veicolata da Under 25 resta quella, riottosa e marginale, di Altri libertini, figlia di quei tardi anni ’70 che all’epoca dovevano apparire, se non già lontani, quantomeno un po’ oleografici.

Tra i criteri indicati dal curatore agli aspiranti autori sulle pagine di «Linus» si leggono, ad esempio: «astenersi da giudizi sul mondo in generale»; «raccontare storie che si possano oralmente riassumere in cinque minuti»; «scrivere racconti perché il racconto è il miglior tempo della scrittura “emotiva e parlata”»; «scrivere come si parla» ecc.

Precetti scrupolosamente accolti dai tantissimi testi giunti all’appello (sottoposti poi, quelli prescelti, a un intenso lavoro di editing), cui si aggiungono la tendenza a una struttura diaristica, il ricorso a gerghi giovanili, arie dialettali e onomatopee fumettose, nonché, sul piano genericamente tematico, l’insistenza su soggetti d.o.c. quali l’insubordinazione allo stile di vita borghese, il viaggio (tanto più se diretto verso una metropoli straniera), il vagabondaggio nell’hinterland (ma anche, in Belli & Perversi, il tabù dell’amore omosessuale): marche di stretto (e perlopiù vacuo) “tondellismo”, insomma, che rispondono agli insegnamenti di «una sorta di scuola di scrittura creativa per corrispondenza» (Campofreda): «un modo del tutto inedito di guardare allo strumento antologico» che pure, in qualche modo, si richiama alla nobile (questa sì, irrimediabilmente lontana) tradizione maieutica di un Vittorini, che per primo vide nel lavoro editoriale la possibilità di un intervento militante sul presente, non subordinato alla ricerca letteraria in proprio.

Raccontare storie (meglio: raccogliere e curare le storie altrui) come nuova forma di impegno (termine inalberato nel sottotitolo del volume) al tempo dello spettacolo di massa sembra essere la strada intrapresa da Tondelli nell’ultimo scorcio della sua breve attività, dietro cui risuona distinto l’invito del maestro Celati a «farsi delle storie» su cui si chiudeva il suo Lunario del paradiso (1978) – per inciso: lo stesso Celati, eletto decano della nuova novellistica post-moderna, mutuerà il format dell’allievo nel progetto di Narratori delle riserve (1992).

Ma se l’esortazione del Lunario, sorta di privata utopia di dilatazione sentimentale del quotidiano, è stata letta come un vero e proprio preannuncio degli anni ’80, ecco che nei racconti di Papergang, negli esordi di Giuseppe Culicchia e Silvia Ballestra, l’ironia pulp, i riferimenti all’immaginario mass-mediatico e l’onnipresenza delle merci già dichiarano senza mezzi termini l’avvento di un nuovo decennio, che Tondelli non farà in tempo a testimoniare e narrare.

Nelle pagine dell’ultima antologia tondelliana, le ultime braci della controcultura o underground che dir si voglia assumono riflessi patinati, umoristici, quasi hip. Qui, indirettamente, la parabola fulminante dello scrittore-editor di Correggio incontra la nostra sensibilità e la mitologia brandizzata delle generazioni cresciute a cavallo dei due secoli, facendosi contemporanea. Il resto della sua opera ci riguarda e ci chiama come dalle sale di uno sterminato (e a volte un po’ pacchiano) museo a cielo aperto, in cui molti di noi si sono inconsciamente aggirati ogni volta che, canticchiando una canzone con la pioggia dentro, hanno passeggiato lungo il ciglio della provinciale, o hanno trovato sé stessi (o qualcosa che ci assomigliava) nelle nebbie di una domenica pomeriggio, o passato la notte a guidare verso nord in compagnia della propria “scoglionatura” e di una frequenza radio disturbata.

Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, Milano-Udine, Mimesis, 2020, 274 pp., € 24,00.