Massimo Filippi, in Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte, riflette sulle risposte date da Koko, una femmina di gorilla, agli addestratori che le hanno insegnato a parlare il linguaggio umano:

«Dove vanno i gorilla quando morire?»
Koko risponde: «Comodo buco addio».
«Quando i gorilla muoiono?»
Koko risponde: «Guaio vecchi».

Citando direttamente Filippi: «[…] scopriamo che anche Koko sosta nei pressi del cadavere, che gli animali possono esperire la morte e che il parlare non è loro precluso. Scopriamo che Koko ci parla di un’esperienza “meticcia” della morte che “è” sia esteriorità (“guaio” = morte come accidente che viene da fuori) che interiorità (“vecchi” = morte come aspetto che è dentro l’esistenza), un’esperienza che permette di instaurare un dialogo nella forma dell’“addio” alla Umwelt (il “comodo buco”)». Ora, proviamo a immaginare quali potrebbero essere le risposte di Koko alla visione di ciò che accade in un allevamento intensivo o in un macello. Quasi sicuramente il trauma interromperebbe qualsiasi comunicazione. Potremmo leggere solo il suo corpo, le sue grida, il suo pianto. Ma all’umano i corpi, le grida e i pianti non sono mai bastati. Per l’umano, il criterio ultimo di dignificazione del vivente è l’evidenza di quella parola-pensiero che, inutile dire, egli attribuisce a sé stesso se non in esclusiva certamente in massimo grado. Vi sono alcuni, tuttavia – fra quanti fortissimamente entrano in risonanza empatica con il resto dei viventi – che tentano (consci dell’alto rischio di fallire) di “prestare” il loro linguaggio specifico, “di specie”, all’Altro; di dare voce all’Altro, quando quell’Altro – per assurdo proprio nell’espressione assolutamente non fraintendibile del dolore – rimane del tutto inascoltato. Rischio di fallire: in primis non usando in modo davvero efficace la lingua a disposizione. Come? Banalizzando, debordando nell’antropomorfizzazione, appellandosi a immediate “risposte” viscerali prive di un profondo pensamento a monte; fermo restando che si tratta di un rischio che vale sempre, e dico sempre, la pena di correre, perché il dolore non deve mai restare inascoltato.
Quando però questo rischio sia stato ponderato a lungo, quando la lingua sia stata fatta decantare per anni nell’impegno attivo vissuto in prima linea, nella decisa e costante riaffermazione di un’etica di vita, allora il risultato può essere davvero notevole, e questo è il caso di Teodora Mastrototaro e del suo Legati i maiali, da poco uscito per Marco Saya Edizioni, nella collana “Sottotraccia” diretta da Antonio Bux.
Due le sezioni del libro, due le voci collettive parlanti: quelle degli uccisi e quelle degli uccisori.

Sfreghi la papilla dolorante.
Cambi posizione al capezzolo teso
cresciuto sulla pelle dal molle del callo.
Qui la caccia al latte è per il tuo nutrimento.
Non rispondo se non con un belato piagnisteo:
questa mia stupida voce, voce comune di pecora.
Nella morsa di una mano mi scuoti per bene in attesa
di essere pressata aspirata sono munta ammanettata
come macchina ma sono madre ammanettata
aspirata sono munta ammanettata tra l’angolo
del fianco e l’uomo predatore. Non è mai
uguale una mamma animale, mi lascio
annegare nel secchio di latta dove
il latte prelevato si ristagna.

***

Lo storditore punta la pistola
all’altezza della macchia a forma di stella
sulla fronte del cavallo in fila.
L’occhio che schizza dalla cavità orbitale
lascia una scia luminosa di plasma
visibile per pochi secondi.
La stella è diventata una cometa.
Lo storditore esprime un desiderio
ammirando quel corpo celeste morente
che attraversa un pezzo di cielo.

Non è facile sostare nella potenza di questi versi, accoglierla. Ma si deve, perché ignorare non ha mai salvato nessuno, e qui le parole aspirano a essere arca di salvezza, essendo stata da tempi immemorabili orrendamente trasgredita la legge dell’alleanza.

Ne Il cacciatore celeste, Roberto Calasso ci ricorda: «Parlavano con l’Orso prima di attaccarlo – o subito dopo –, sapendo che l’Orso capiva ogni loro parola. Ringraziavano l’Orso perché si lasciava uccidere. Spesso si scusavano. Alcuni cantavano mentre uccidevano l’Orso, in modo che l’Orso, morendo, potesse dire: “Mi piace quella canzone”». Quale abisso si apre al confronto con le uccisioni di massa quotidiane testimoniate da Mastrototaro:

Chiudiamo i vitelli tutti insieme nel box di stordimento
e iniziamo a sparare.
Gli animali saltellano al ritmo convulso di una quadriglia.
Non sappiamo chi sia stordito oppure no, così li appendiamo
mentre qualcuno sospeso continua a scalciare […].

Ma d’altronde come, se non attraverso la reificazione totale dell’animale non umano, schermarsi dalla devastante onda d’urto della violenza agita giorno dopo giorno dopo giorno? Come anche solo immaginare, all’interno di quegli abominevoli luoghi, un barlume di riconoscimento della soggettività, dell’irripetibile unicità di ogni animale non umano, quando gli stessi animali umani che lì lavorano sono quell’anonima massa “oscura”1 di cui non si vuole assolutamente sapere?
Mastrototaro sembra, però, a più riprese, lasciare aperto uno spiraglio di relazione, far baluginare un seppure fievole sentimento di interconnessione dialogica:

La prima volta che ho stordito un animale ho chiuso gli occhi.
Un disagio sincero di imbarazzo il suo.
Dal momento del proiettile la sua vita si è scissa:
il morto vivente e il vivo morente.
In quell’attimo la sua pena per me.

Ci sono due versi di Cees Nooteboom che non mi scappano mai di mente, e che ogni volta mi trovo in modo del tutto arbitrario a collegare alla questione animale: «Sii me, diventa me / almeno una volta nella tua vita inquieta».
Essere l’Altro, divenire l’Altro, quell’Altro disperatamente ridotto alla parola “animale”, parola «che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare […] per raggruppare un gran numero di viventi sotto un solo concetto […] E si sono dati questa parola, accordandosi nello stesso tempo tra loro per riservare a sé stessi il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole» (Jacques Derrida, L’animal que donc je suis). La tragedia della “solipsia ontologica”, dunque; degli essenzialismi, dei sostanzialismi che l’essere umano ha assegnato a sé soltanto, per dirla con Roberto Marchesini, legittimando la perpetuazione di un danno infinito agli infiniti Altri animali, che sono invece, non meno degli umani, centri di soggettività piena in quanto esseri-corpi desideranti, «in grado di reinventare in ogni momento la loro presenza nel mondo» (R. Marchesini).

La poesia “attivista” di Mastrototaro (nel caso dell’autrice è impensabile disgiungere la letteratura dall’azione politica) ci si offre come un trampolino di antropodecentramento, rendendo attualissimo, e problematizzandolo, l’antico interrogativo di Plutarco (Del mangiare carne): «Io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto […]». La domanda ulteriore: per quanto ancora?
Quella gigantessa che fu Anna Maria Ortese scrisse: «L’uomo senza compassione è nulla, è un fenomeno fisico che potrebbe cessare di essere e non cesserebbe nulla. Nulla ha valore, in tutta la vita dell’uomo sulla terra, nemmeno l’immensa arte e le religioni – nulla, se non questo sentire compassione e desiderio di soccorrere un altro – chiunque altro, chiunque sia vivo o dolente» (da Le piccole persone).
Bestia che cade non riposa, scrive, lapidaria, Mastrototaro: guardatela, la bestia cadere, sentitela nel tonfo, ci dice. «[…] Ha paura, l’animale, dell’abisso. | Nella notte perde peso e il giorno dopo silenzio […]». Sentitela nelle parole che le prestiamo:

[…] alla luce la merda
diventa una rosa – simile la forma.
Al capezzale del tuo seno la notte si volge agli steli […].

Accogliete il disagio, la pena benedetta che vi apre alla partecipazione, ci dice.

[…] Il porco dopo di me non sa nuotare,
gli basterà un secondo per farsi trasformare
nel bianco del carcame scolorito […].

Mastrototaro appartiene a quanti sognano, per dirla con le parole di Ortese, «il ritorno delle bestie alla terra gentile». Frase meravigliosamente polisemica, se la gentilezza è davvero la terra a cui l’umano dovrebbe aspirare.


 1 «Mangiamo ciò che altri hanno ucciso. E questi altri sono esseri oscuri, non si sa chi siano. Passano la gran parte della vita nei mattatoi», R. Calasso


Teodora Mastrototaro, Legati i maiali,
Marco saya 2020, 12€, 74 pp