La generosità che Antonio Tabucchi ha messo nell’incoraggiare il lavoro di scrittori emergenti è nota. Lo attestano i tanti omaggi, prima e dopo la sua scomparsa, dai giovani che più lo hanno frequentato negli anni, da Andrea Bajani a Paolo Di Paolo e Romana Petri. Tuttavia il ruolo di maestro gli è sempre stato stretto. Nell’ultimo libro-intervista a lui dedicato, Dietro l’arazzo (Giulio Perrone, 2013), Tabucchi riflette infatti sulla possibilità di “fare scuola” in letteratura e sembra avere le idee piuttosto chiare a riguardo: «Vedi, prima abbiamo parlato delle erbe selvatiche citando Pessoa, ecco la letteratura è un’erba selvatica, e un’erba selvatica non la puoi coltivare in serra. Se tu la programmi troppo, se gli dai quel tipo di temperatura, quel tipo di umidità come la dai a un fiore di serra, diventa appunto un fiore di serra. Ciò non significa che sia artificiale, ma è un’altra cosa». Soprattutto dopo le avanguardie degli anni ‘60, è difficile delineare correnti e gruppi compatti, espressione di una stessa idea di scrittura. Ma Tabucchi ci dice qualcosa in più, convinto che la letteratura concepita come ricetta di laboratorio dia risultati che possono sì assomigliare al naturale, ma semplicemente non lo sono. Colpisce allora la metafora dell’«erba selvatica» per indicare quanto di azzardo e solitaria audacia richieda lo scrivere vera letteratura. Come è stata certamente la sua, che al di là delle tematiche e degli stili ha fatto dello spaesamento e dell’incompiutezza inquieta una tonalità ben riconoscibile nel panorama della letteratura italiana di fine secolo. E solo molto generalmente possiamo attribuirgli, come la critica accademica fa da anni, l’etichetta di postmoderno. D’altronde basta dare un colpo d’occhio ad alcuni esempi dagli anni ’80: cos’hanno in comune la scrittura di Tondelli, Il nome della rosa di Eco e i racconti di Tabucchi? Se il senso di posterità e riciclo agisce su questi autori, appare evidente che lo fa in modi e forme radicalmente diverse.

Per Tabucchi il periodo che indichiamo come inizio dei post- e meta- è quello più fecondo e interessante della sua lunga produzione, quello su cui l’attenzione critica, prima internazionale e poi anche italiana, si è concentrata maggiormente. Se il successo mondiale riscosso nel 1994 con la pubblicazione di Sostiene Pereira ha messo d’accordo critica e pubblico, tanto da essere spesso proposto come lettura scolastica, da quel momento la narrativa di Tabucchi prende altre strade e rifluisce in un cauto “ritorno all’ordine” non senza ottimi risultati (basti pensare a Tristano muore del 2004).

Arriva quindi con piacere l’antologia Che ore sono da voi?, curata da Paolo Di Paolo e edita come sempre da Feltrinelli, che ripropone alcuni dei più significativi racconti dello scrittore toscano, con particolare predilezione per il periodo che va dal 1981 al 1992. Arricchiscono la raccolta due inediti emersi dal ricco archivio dell’autore, conservato in parte alla Bibliothèque nationale de France e in parte presso la casa di Lisbona. L’auspicio è che con questa pubblicazione anche un pubblico più allargato e giovane, giustamente affezionato al riscatto di Pereira, possa entrare in contatto con quelli che sono tra i migliori racconti del nostro Novecento, forma che si sa non ha mai riscosso molto successo tra i lettori italiani.

L’impressione che emerge dalla scelta operata da Di Paolo con la collaborazione della moglie di Tabucchi, Maria José de Lancastre, è che nell’arco di un decennio, tra frammenti, racconti brevi e romanzi che sembrano racconti lunghi (su tutti Notturno indiano, non presente però nella raccolta), l’opera di Tabucchi si è configurata come un unico grande corpus letterario. Certamente rifratto, tortuoso, ricco di richiami intertestuali, ma comunque ben delineato, il macrotesto tabucchiano si caratterizza per quegli elementi prediletti che siamo ormai soliti associare al suo autore. Incontreremo quindi il sogno, il rovescio delle cose e dell’esistenza, il rapporto tra finzione e realtà con sfumature di fantastico, il sentimento agrodolce della Saudade, il tempo e la memoria come spazi labirintici e vertiginosi in cui si affanna la vita e la trama della narrazione, la brutalità della Storia. Il tutto sotto l’ombra lunga dei miti letterari che Tabucchi stesso ci ha invitato ad amare, a partire ovviamente da Pessoa e le sue maschere. Un debito, quello con il poeta portoghese, che non è mai stato nascosto tra le righe di uno smaliziato citazionismo postmoderno ma profondamente incorporato nel fare stesso della propria letteratura (addirittura personaggio in Requiem). I personaggi di Tabucchi, come quelli pessoani, sono doppi, alter ego assillati dai ricordi, dalla morte, dagli smarrimenti della Storia; sembrano vivere sospesi tra il ricordo dolente del passato e l’attrazione verso un “fuori dal tempo” che è spesso indecifrabile, misterioso, slittante nel fantastico o nel sogno. Anche il riferimento al Portogallo non è mai gratuito o di decoro. Lisbona, in racconti come Il gioco del rovescio o Any where out of the world, non è solo un’ambientazione-omaggio ma costituisce il paesaggio narrativo ideale, luogo dello spirito, per storie che mescolano passato, presente e futuro in quel misto di sofferenza e dolcezza che abbiamo imparato a chiamare Saudade.

Attratto dagli equivoci e dalle cose fuori posto, Tabucchi mette i suoi personaggi, spesso solo voci monologanti che prendono la parola, nella condizione di dover decifrare il senso della propria storia. Le tracce casuali lette su un giornale portano il protagonista di Any where out of the world a ripercorrere un amore mancato, che assume però le sembianze sinistre di una voce muta dall’altra parte del telefono. Oppure il sogno della donna amata nasconde un segreto per il narratore di Rebus, il quale dopo aver proposto in tutti i bar l’enigma da sciogliere a un certo punto dichiarerà che «a volte una soluzione sembra plausibile solo in questo modo: sognando».

Ma ciò che colpisce di questi racconti, e che credo sia la chiave di lettura più interessante rispetto alle tante forme di narrazione che oggi si confrontano con la Storia, è proprio la capacità di calare le vicende personali nel contesto storico senza abdicare mai al filtro letterario. Anzi, trovando nei moduli della tradizione gli strumenti più congeniali per intuire ciò che altrimenti sarebbe difficile afferrare. Ad esempio in racconti come I pomeriggi del sabato e Capodanno, i bambini protagonisti trasfigurano la realtà tragica che ha segnato la propria famiglia, finita dalla parte sbagliata della Storia, in narrazioni che guardano alla letteratura fantastica, con echi di James e Cortázar. Attraverso le possibilità del fantastico il dramma storico è rintracciato fin dentro la coscienza stessa del personaggio, i suoi sogni e le sue paure.

Critica ricorrente a Tabucchi è che questa commistione tra una forte componente letteraria già data e il racconto che vuole riallacciarsi a momenti cruciali del passato, renda artificiali e manieristiche le sue storie, senza una reale consistenza. Eppure, più che piegarsi alla scorrevole indifferenza postmoderna, Tabucchi in ognuno di questi frammenti sembra lottare appassionatamente contro l’evanescenza della realtà e la scomparsa della memoria. In Notte, mare o distanza l’immaginazione di un personaggio, vittima insieme ad altri compagni di un’aggressione da parte della polizia politica salazarista, aggiunge la presenza disturbante di una cernia nel momento di massimo orrore della vicenda. L’autore sconfessa la variazione di trama ma lotta per farla reggere anche così, fino all’allucinante cavalcata di una giovane sul dorso del pesce. L’intrusione tipicamente metaletteraria si giustifica quindi con le ragioni stesse della finzione, che introduce l’elemento fantastico come il più idoneo a cogliere la brutalità volgare della dittatura. Nel racconto I treni che vanno a Madras è invece il misterioso personaggio di nome Peter Schlemil che si presenta sotto l’ombra letteraria della novella di Chamisso. L’incontro ferroviario da giallo inglese e pervaso di citazionismo è tuttavia ricondotto a un finale che ci proietta improvvisamente negli strascichi dolorosi della Shoah. 

Il dolore e le conseguenze della Storia da una parte e i labirinti della memoria e del senso dall’altra: tra questi due assi opera come un diaframma la Letteratura, che sola può rendere dicibile quello che appare misterioso. E non solo attraverso il fantastico e la citazione ma anche con generi, motivi e topoi della grande tradizione moderna che Tabucchi rielabora: il doppio, la maschera, la notte e l’ombra, il racconto di viaggio e quello di avventure, il giallo e la lettera. Sono tutte strade che Tabucchi perlustra non come collezione preziosa di nostalgiche maniere, ma cercando sempre di rintracciare nei dettagli, negli scambi e nei rovesci il senso globale che sfugge.

In scrittori più recenti il confronto con la Storia e l’elaborazione di una possibile memoria ha un po’ trascurato questo passaggio attraverso gli specchi della tradizione letteraria, per preferire le forme più dirette dell’autobiografismo-saggistico e della biofiction, rivolte spesso anche alla cronaca. Sicuramente la lezione di Tabucchi è stata preziosa per autori come Di Paolo, quasi allievo ideale, o il Fontana di Morte di un uomo felice, la cui Milano anni ’80, fluttuante tra notturni sospesi e scoppi di violenza, sembra una Lisbona molto tabucchiana. Tuttavia anche nei grandi affreschi romanzeschi che soddisfano la nostra sete di globalità e serialità, dalla polifonia epica dei Wu Ming alle geometrie psicologiche dell’Amica geniale, fino alle raffinate ricostruzioni di Scurati, manca quell’atteggiamento obliquo e perplesso con cui Tabucchi ha saputo trasformare situazioni già lette in occasioni di nuova e fugace conoscenza. Come, a volte, il dettaglio di una vecchia fotografia o l’inflessione di voce di una vecchia canzone ci coinvolgono indietro nel tempo molto più di un’intervista ben informata o di un accurato documentario.


Antonio Tabucchi, Che ore sono da voi?, racconti scelti da Paolo Di Paolo, Feltrinelli, Milano 2020, 256 pp. 17,00€