La musica del 2020 è stata diversa da quella degli anni scorsi e sarà con ogni probabilità diversa da quella degli anni futuri. Non tanto (non solo) per l’intenzionalità di scrittura degli artisti, quanto per un cambiamento del paradigma di fruizione. Un cambiamento ovviamente legato al lockdown (e che cosa non è stato legato al lockdown, nel 2020?). La domanda è: che cosa rimane della musica che ascoltiamo, quando eliminiamo i live, la possibilità stessa di quell’esperienza – assistere a un concerto in religioso silenzio o dimenarci sotto a un palco, urlare? Che cosa significa tranciare il legame che esiste tra la voce e il corpo, tra gli strumenti suonati e la fisicità di chi quegli strumenti li suona, eliminare il sudore? Difficile non pensare che la musica ne sia uscita mozzata, amputata della sua dimensione collettiva, per la prima volta esautorata della sua capacità di descrivere e circoscrivere gruppi di individui che condividono lo stesso spazio e si rispecchiano nei medesimi gusti. Eppure, insieme a questa amputazione, sono anche cadute molte sovrastrutture, spesso inutili, facendo entrare la musica in una dimensione più intima, fragile, in un certo senso più onesta. Mai come quest’anno, scandendo la nostra quotidianità annoiata, è sembrato che gli artisti parlassero proprio a noi, esclusivamente a noi, attraverso le cuffie economiche che calchiamo nelle orecchie delle nostre case-bunker. Una bella sensazione, in questo schifo. Fine della digressione, passiamo alle cose serie: una selezione di dischi da non lasciare indietro in questo 2020.
Fiona Apple, Fetch the Bolt Cutters (Partisan)
Il nuovo album di Fiona Apple è uno dei regali più belli del primo lockdown. Otto anni dopo The Idler Wheel…, una delle più talentuose artiste della sua generazione torna sulla scena con un disco che è prima di tutto un manifesto di libertà creativa: vario, ricco, intelligente, divertente, appassionato, nuovo. Un rock da cantautorato con venature soul, uno di quegli album che regalano chiavi di lettura sempre diverse a ogni ascolto, con ciascun pezzo portato un po’ più in là di dove ci aspetteremmo, ma senza mai eccedere. In questo Fiona Apple dà prova di una grande sensibilità: saper cogliere il momento giusto in cui fermarsi, appena prima che l’eccentricità cada nel virtuosismo, nel gioco stilistico fine a se stesso. La più grande virtù di Fetch the Bolt Cutters è proprio questa: ci ricorda che un artista vero non ha bisogno di esibire il proprio talento.
Makaya McCraven & Gil Scott-Heron, We’re New Again: A Reimagining by Makaya McCraven (XL)
Makaya McCraven, insieme a Kamasi Washington, è il simbolo della rinascita jazz degli ultimi anni, un jazz molto diverso dall’imbuto cerebrale in cui si era cacciato, adatto com’era più a polverosi saggi di critica musicale che ai club fumosi del periodo d’oro. Al contrario, il jazz di McCraven è estremamente contaminato, intimamente connesso alla cultura afroamericana e, soprattutto, infinitamente vitale. La sfida lanciata da We’re New Again è delle più ostiche: confrontarsi con uno dei numi tutelari della black culture, Gil Scott-Heron – poeta, musicista, attivista, inventore dello spoken word nonché padre spirituale dell’hip-hop –, e per di più farlo con il suo album-testamento, I’m New Here. Un azzardo (e reso ancora più complicato dal fatto che Jamie xx ha già compiuto un’operazione simile, nel 2011). Con rispetto ma con anche una salutare assenza di timore, McCraven riesce nell’impresa di trascinare Scott-Heron nel proprio immaginario, ammantando di sonorità aliene – ma sempre coerenti – i pezzi originali: là dove c’era un arrangiamento minimale, intimo, si apre ora un caleidoscopio di suoni avvolgenti, non di rado sensuali.
Adrianne Lenker, Songs / Instrumentals (Alt-Folk)
Se dovessimo trovare un simbolo musicale del lockdown, quel simbolo sarebbe il doppio album di Adrianne Lenker, frontwoman dei Big Thief, qui alla prova solista: schegge di folk acustico registrate su un vecchio Walkman all’interno di un cottage isolato sulle montagne del Massachusetts, undici tracce cantate e due lunghe strumentali (nomen omen) che trasportano i boschi americani direttamente nelle nostre città, con la naturalezza di una pioggia leggera all’inizio dell’autunno, quando la prima nebbia sale dal terreno e confonde i contorni dei palazzi, le automobili parcheggiate e i pochi temerari che, con il giubbetto chiuso, sfidano il coprifuoco. Lo dico: potrei barattare due album dei Big Thief per ascoltare qualsiasi altra registrazione Lenker dovesse aver dimenticato sui nastri di quel Walkman.
Bob Dylan, Rough and Rowdy Ways (Columbia)
È possibile condensare secoli di storia americana in un unico album? La risposta è: sì, se lo fa un Bob Dylan in stato di grazia. Per parlare di Rough and Rowdy Ways bisogna partire dalla fine, da quel secondo disco composto da un’unica traccia, Murder Most Foul. Accompagnata da un pianoforte leggero, qualche arco qua e là e, giusto ogni tanto, lo struscio di un piatto, Dylan si confronta con l’elogio funebre di John Fitzgerald Kennedy («Twas a dark day in Dallas, November ’63/ A day that will live on in infamy»). Eccolo, il peccato originale degli Stati Uniti – l’assassinio di JFK –, un peccato che, in sedici minuti di distici che procedono inesorabili come una marcia, ci conduce al giorno del giudizio. E quando l’essere umano sarà infine scomparso, al suo posto rimarrà solo un DJ degli anni Sessanta che mette sul piatto vecchie canzoni e racconta storie dimenticate, in un’enumerazione allucinata degna di un beat. Ma Rough and Rowdy Ways è molto più di Murder Most Foul. Dopotutto, si apre con Dylan che, citando Walt Whitman, dichiara: «I contain moltitudes».
Bright Eyes, Down in the Weeds, Where the World Once Was (Dead Oceans)
Un ritorno inaspettato, quello dei Bright Eyes, in un anno che ha visto molti ritorni. Sono passati quasi dieci anni dall’ultimo album, The People’s Key, venti da quel Fever and Mirrors che, nel 2000, aveva portato all’attenzione del mondo il talento innato del polistrumentista Conor Oberst, quando era solo un ventenne di Omaha, Nebraska. I vecchi fan – tra i quali mi annovero – si erano ormai abituati a inseguire Orbest da un progetto all’altro (molto riuscito il disco folk composto insieme a Phoebe Bridgers e uscito l’anno scorso con il nome di Better Oblivion Community Center; Bridgers che peraltro ha pubblicato quest’anno un ottimo album: Punisher), inseguendo il suo vibrato malinconico, le sue atmosfere apocalittiche, i suoi arrangiamenti spesso pomposi eppure efficaci. Con la certezza che la decennale esperienza dei Bright Eyes fosse ormai conclusa. Poi, durante il primo lockdown, è arrivato Persona non grata, il singolo apripista, e con lui la certezza che, nonostante tutto, qualcosa di buono in questo 2020 sarebbe accaduto.
Un po’ di hardcore sotto cassa: Idles, Fontaines DC, Metz
Tre dischi da ascoltare con le casse alzate al massimo, in attesa di potersi ammassare di nuovo sotto il palco, con qualche drink di troppo in corpo, spalla contro spalla. Il primo è Ultra Mono degli Idles (Partisan), un disco dall’attitudine punk e dalle chitarre graffianti, perfetto per vomitare fuori tutta la rabbia che abbiamo accumulato dopo un anno come questo (una rabbia, si badi bene, da scagliare come la tradizione rock ci insegna: contro il sistema). Il secondo è Atlas Vending (Sub Pop) dei Metz, un album orgogliosamente fuori tempo, che ci regala acide sonorità grunge e un po’ di sano hardcore anni Novanta, come se non fossero già trascorsi venti o trent’anni: dopotutto, non sono tornate di moda le camicie di flanella e i jeans strappati sopra le All-Star? Infine, l’attesissimo secondo disco dei Fontaines D.C., A Hero’s Death (Partisan), che arriva appena un anno dopo il successo della prova d’esordio, Dogrel. A Hero’s Death perde un po’ di immediatezza e di spensieratezza rispetto al predecessore, ma regala pezzi post punk da ascoltare in repeat come l’ipnotica A Televised Mind.
Ancora jazz: Shabaka Hutchings, Jeff Parker, Go Go Penguin, Tony Allen & Hugh Masekela
Mi ripeto: la scena jazz è in grande spolvero, attraversata da vibrazioni innovative e sperimentali. Con We Are Sent Here by History (Impulse!), Shabaka Hutchings, insieme ai suoi Ancestors, si lancia in una lunga riflessione sulla fine del mondo, mescolando John Coltrane all’afro beat: non c’è più tempo, ci dice Shabaka, e non c’è più salvezza, il cambiamento climatico è irreversibile e ciò che resterà saranno solo macerie, sparuti sopravvissuti, forse un sax. Poi c’è Jeff Parker, alfiere della International Anthem (l’etichetta che sta rivoluzionando il jazz americano) e sodale di Makaya McCraven: Suite for Max Brown è un disco polifonico e muscolare, una freccia scagliata verso l’ascoltatore, impossibile da prevedere. Di tutt’altra pasta, invece, l’album omonimo dei Go Go Penguin (Blue Note): rispetto alla scena di Chicago della International Anthem, la band inglese si allontana dall’eredità di Coltrane per infilare con decisione la strada elettronica: ad anni luce dal virtuosismo, Go Go Penguin è un saggio di minimalismo jazz che dischiude davanti all’ascoltatore una dimensione onirica e meditativa. Infine, nell’anno della scomparsa del batterista nigeriano Tony Allen, una menzione obbligata spetta al suo Rejoice (World Circuit), una session londinese registrata nel 2010 ma pubblicata quest’anno, insieme un altro nome mitologico del panorama jazz africano, Hugh Masekela.
Un po’ d’Italia: Francesco Bianconi, Zen Circus, Brunori SAS
Il 2020 è l’anno in cui abbiamo dovuto salutare il maestro Ennio Morricone e la sua immensa eredità musicale. Su di lui, più che un disco, consiglio un libro, Inseguendo quel suono (Mondadori) è una lunga, stimolante, approfondita conversazione del maestro con il “discepolo” Alessandro De Rosa. Venendo alla musica suonata, tra le molte uscite, ho selezionato tre artisti che hanno saputo, nel corso di molti anni di carriera, costruire un percorso peculiare e immediatamente riconoscibile, all’interno dei rispettivi generi. Innanzitutto, il primo album solista di Francesco Bianconi, Forever (Ponderosa / BMG), che esibisce, e forse esacerba, le stesse caratteristiche che hanno reso i suoi Baustelle una band da dentro o fuori, o li ami o li odi. In Forever la voce di Bianconi è ostentatamente monotonale, gli archi e il piano sostituiscono la sezione ritmica e i testi sono quelli che chiunque si sarebbe aspettato: colti, intelligenti, ricchi, con un sapiente mix di alto e basso che richiama Battiato. Anche il percorso rock-folk degli Zen Circus è fortemente identitario, una furia iconoclasta e antiretorica che si lega all’abilità innata di Appino nel raccontare la quotidianità, la provincia, le distopie sociali e politiche. L’ultima casa accogliente (Polydor / Universal) è un disco più intimo e riflessivo rispetto a quanto ci ha abituato il Circo Zen, avvicinandosi così ai lavori solisti di Appino. L’ultima menzione spetta a Cip! (Island) di Brunori SAS, uno dei pochi artisti del vecchio panorama indie a essere riuscito ad avvicinarsi al pop con intelligenza, senza perdere le proprie peculiarità. Il suo nuovo lavoro non fa che confermarlo, mettendo Brunori SAS sulla scia di quegli artisti (vedi: Daniele Silvestri) che riescono a maneggiare con abilità tematiche sociopolitiche e racconto della quotidianità, senza rinunciare a una salutare dose di ironia.
Elettronica e dintorni: Nicolas Jaar, Autechre, Nine Inch Nails
Tre nomi. Uno: l’osannato Cenizas dell’altrettanto osannato Nicolas Jaar, un disco ambizioso, oscuro e metafisico, un’esplorazione intimista che ci parla di isolamento e solitudine ma che sa anche regalare inaspettate fioriture di speranza: come a dirci che, nonostante tutto, laggiù in fondo, una luce c’è. Due: gli Autechre, maestri dell’elettronica minimale, vagamente cervellotica, che, fedeli alla propria imprevedibilità, escono con due album a distanza di dieci giorni l’uno dall’altro: Plus e Sign (Warp). Tre: i Nine Inch Nails con Ghost V-VI, doppio disco strumentale che risente dell’esperienza claustrofobica del lockdown e rimanda alle floride esperienze di Trent Reznor con il mondo delle colonne sonore (un nome su tutti: David Fincher).
Lunga vita alle chitarre: Bill Callahan, Bruce Springsteen, Muzz
Tornando al sound più tradizionale (e decisamente più rassicurante) delle chitarre, acustiche o elettriche che dir si voglia, una menzione spetta a Gold Record (Columbia) di Bill Callahan, folk singer vecchio stampo che, per mettere subito le cose in chiaro, esordisce così: «Hello, I’m Johnny Cash». Il 2020 ha visto anche la nascita del nuovo album dell’inossidabile Bruce Springsteen. Con Letter to You (Columbia), registrato in meno di una settimana di lavoro con la fedele E Street Band, il Boss si rivolge direttamente ai suoi moltissimi fan e regala loro esattamente quello che vogliono: puro sound Springsteen al cento per cento. Non che sia poco, tutt’altro. Infine, c’è spazio per il nuovo progetto firmato dal frontman degli Interpol, Paul Banks: i Muzz. L’album omonimo è un onesto insieme di folk-rock malinconico e un po’ nostalgico, sapientemente condotto dalla voce iconica di Banks. Sarebbe poi uscito anche il nuovo disco dei Tame Impala, The Slow Rush, con il loro ormai consueto pop-rock psichedelico, ma si tratta più che altro di un passaggio a vuoto.
Verso il 2021: Iosonouncane
Il lockdown e la conseguente serrata dei live è stata giudicata troppo pericolosa per l’attesissimo ritorno di Iosonouncane, cinque anni dopo DIE, un disco a tratti stupefacente, sicuramente innovativo, che ha messo d’accordo gran parte della critica. IRA, questo il nome del nuovo album, è stato rimandato in vista di tempi migliori. Questa attesa potenzialmente infinita, visto che non è affatto semplice comprendere quando arriveranno questi benedetti tempi migliori, è stata in parte interrotta a metà novembre con il lancio di un 45 giri: lato A dedicato all’inedito Novembre, lato B a Vedrai, vedrai, cover ispiratissima di Luigi Tenco. Come si impara al liceo, “del doman non v’è certezza”, ma se IRA sarà dello stesso livello di questi due pezzi, ci troveremo davanti a un capolavoro annunciato.