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La Balena consiglia: i libri per Natale

libri da leggere 2020

Anche se questo è stato un anno tutt’altro che ordinario, la Balena Bianca lo chiude in nome della tradizione: la listona di consigli natalizi firmati da redattori, collaboratori, amici. Come di consueto, abbiamo scavato a fondo nei cataloghi editoriali del 2020, cercando di evitare le scelte più ovvie: troverete narrativa, saggi, reportage, ripubblicazioni, novità assolute, sia nostrani sia stranieri. Ne approfittiamo per fare gli auguri a tutte le nostre lettrici e a tutti i nostri lettori: noi ci prendiamo qualche giorno di pausa.


Eleonora Marangoni, E siccome lei, Feltrinelli (Ambrogio Arienti)

Utilizzando come Musa e traccia Monica Vitti, Eleonora Marangoni realizza quarantasette ritratti femminili che riprendono, con diverse modalità e a partire da diversi spunti, tutti i ruoli impersonati dalla grande diva. E siccome lei è una raccolta di racconti brevi e brevissimi dal respiro aperto, che riescono a turno a essere tragici e comici, divertenti e malinconici. L’autrice si cimenta nel difficile compito di restituire in forma narrativa l’anima di un’attrice allo stesso tempo eclettica perché capace di trasformarsi, di calarsi in numerosi e diversi ruoli, e iconica, inconfondibile perché ogni suo personaggio «si porta dietro un destino, una personalità e un modo di stare al mondo». Lo fa senza mai snaturarsi, riuscendo ad affacciarsi a una giocosa sperimentazione (fatta di elenchi, battute, invenzioni) pur rispettando la scrittura elegante e distesa che i suoi lettori avevano già apprezzato con Lux (Neri Pozza), il suo romanzo d’esordio. Insomma, vale la pena di visitare questa galleria di ritratti – per farsi convincere, suggerisco di dare un’occhiata anzitutto alle voci “I pappagalli”, “La poltroncina” e “Centomila copie”.

Carmen Maria Machado, Nella casa dei tuoi sogni, Codice (Sara Casiraghi)

Nella casa dei tuoi sogni è il postmoderno memoir in cui Carmen Maria Machado racconta la sua relazione, fatta di violenza e abusi, con un’altra donna, faticosamente ricostruita accostando i frammentari ricordi di un’interiorità spezzata, che con l’atto della scrittura cerca di approdare a una ritrovata interezza. Nel tessuto dell’autofiction si incastonano narrazioni e si affastellano allusioni e richiami, illuminando gli intricati percorsi dell’immaginazione attraverso i quali l’autrice interpreta le proprie esperienze di vita. E mentre l’intreccio, svolgendosi, interroga il lettore, contemporaneamente si rivolge a se stesso, elaborando e realizzando le proprie diverse possibilità. La scrittura rovente di Machado suscita una ricezione lucida e inebriata, una partecipazione priva di riserve a una narrazione densa e rifrangente, capace di abbattere qualsiasi resistenza. Bisogna seguirla, abbandonarsi per ripercorrere il passato e risorgere dalle sue ceneri.

Gianfranco Mammi, Ugo il duro, MUP (Michele Farina)

Vincitore del Premio Malerba 2019, questo racconto lungo è una perfetta carola natalizia in salsa emiliana, sgangherata e vitale. Ugo e il suo compare Maccaferri, due vagabondi con la “fame nel destino”, si aggirano nei sobborghi di una provincia sempre uguale a se stessa, menando la vita degli amichevoli parassiti di una “microborghesia organizzata” a trazione parrocchiale. I due personaggi si troveranno a prillare – verbo chiave del libro – tra il Mollificio Carelia, le macerie dell’Hotel Bretagna e il Canile Diocesano per risolvere un mistero o forse due. La scrittura di Mammi possiede una sua comicità schietta e sommessa, non manierata, che rende degno omaggio ai maestri cui si ispira, fra gli altri Zavattini e Malerba. Seguendo le imprese di Ugo, scoprirete che, almeno nei libri, anche i personaggi più negletti hanno diritto alle loro piccole rivincite. E chissà che ora della fine non siano proprio questi personaggi dimenticati da Dio a essere quelli più vicini al Grande Capo. Consigliato a grandi e piccini, Ugo il duro “odora di povero” come i suoi personaggi, ma ha anche il profumo della pagina riuscita.

Nadia Terranova, Come una storia d’amore, Giulio Perrone Editore (Francesca Motta)

Nadia Terranova è una maestra nel racconto di fantasmi – inteso non nel suo senso più comune, ma come narrazione di presenze tenaci eppure impalpabili, di pensieri fugaci eppure consistenti, di destini incrociati e situazioni che avrebbero potuto essere qualcos’altro. Pubblicato a maggio, pochi giorni dopo la fine del primo lockdown, Come una storia d’amore è una raccolta di dieci brevissimi e intensi racconti, che sono un’ode alla Roma più privata – quella fatta di pianerottoli, di bar scalcinati e lavanderie a gettoni gestite da signore bizzarre – ma sono anche, e soprattutto, uno spiraglio sulla vita dei suoi abitanti e sulle possibili esistenze che hanno (o non hanno) scelto. I personaggi parlano al lettore in prima persona o si fanno presentare da narratori ironicamente onniscienti, e l’impressione che si ha è che i racconti altro non siano che i singoli capitoli di un romanzo corale, in cui si distinguono dialetti, colori della pelle, sogni e paure di un’umanità che prova a resistere al tempo, all’odio e al dolore. E, alla fine, forse è vero che «l’unica è raccontarsela come una storia d’amore». 

Rachele Borghi, Decolonialità e privilegio, Meltemi (Martina Neglia)

Rachele Borghi è tante cose: professora di Geografia all’università Sorbona di Parigi, geografa queer, pornosecchiona transfemminista. Un posizionamento esplicitato fin dalle prime «#Note a(l) margine» del suo Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critiche al sistema mondo, in cui raccoglie gli insegnamenti di bell hook – che più volte torna tra le pagine di questo libro – per partire da sé e non dimenticare che «non basta appartenere ad una categoria oppressa per non essere oppressore, non basta occuparsi di temi o epistemologie marginali per non riprodurre l’elitismo del sapere sapiente». Se rompere la colonialità e decolonizzare i territori delle nostre menti sono ormai urgenze dei nostri tempi, maneggiare il pensiero postcoloniale, districarsi tra le voci che lo hanno animato può non essere immediato. Borghi, conscia della sua posizione di privilegio in quanto persona bianca all’interno di un’istituzione accademica, sfugge qui dalla «paura di passare inosservata, di dire banalità» e fornisce una vera e propria scatola degli attrezzi, con tanto di manuale d’istruzioni, per imparare a riconoscere le lenti di interpretazione degli eventi che singolarmente indossiamo, a stare a nostro agio nel disagio; per imparare, se necessario, anche a disimparare, a stare in silenzio e mettersi all’ascolto. Intrecciando il suo percorso personale, anche da attivista, alla materia dei suoi studi, ci offre quindi con un linguaggio accessibile una panoramica puntuale sulla “proposta decoloniale” (Fanon, Césaire, Anzaldúa) e una critica sferzante ai limiti della riproduzione del sapere in un Occidente che continua a invisibilizzare ciò che non arriva da luoghi di enunciazione autorevoli e cancellare genealogie. Genealogie che invece Borghi prova a non nascondere mai, con una continua pratica femminista della citazione – rivive addirittura Wittig in un dialogo immaginato –, rendendo il libro di una, un generoso e commovente regalo per tutti e tutte.

Thomas Bernhard, Midland a Stilfs, Adelphi (Matilde Quarti)

Claustrofobia, solitudine, oppressione, noia: chiunque abbia trascorso il 2020 in questa zona dell’universo sa di cosa sto parlando. Giornate che si ripetono ossessivamente tutte uguali tra loro, afa senza via d’uscita – letteralmente – in estate, pioggia battente e buio in inverno. Sembra lo scenario perfetto per un racconto di Thomas Bernhard. Per esempio uno dei tre raccolti in Midland a Stilfs, ambientati tra le vette e le valli del Tirolo, un panorama tanto vasto per gli occhi quanto asfittico nelle anime dei protagonisti che abitano le pagine di Bernhard. Nel primo racconto, quello che dà titolo all’opera, Midland è un turista, anzi un villeggiante, che nei suoi brevi soggiorni magnifica quelle stesse valli solitarie che sono prigione, calda culla e feroce aguzzino, di chi le abita. Il mantello di loden segue il crescente delirio di un avvocato, un allucinato dialogo tra due disperazioni intrappolate come è intrappolata Innsbruck tra le sue montagne. Sull’Ortles, terzo e ultimo movimento, segna la fine metaforica e metafisica di questa parabola in tre atti, seguendo il precipizio esistenziale di due fratelli, un’illusione che si sgretola sistematicamente per non lasciare più alcuno spazio possibile a una speranza vana, vaga, ottusamente umana. Se c’è un autore in grado di rappresentare uno specifico stato dell’animo, quello è sicuramente Bernhard, e Midland a Stilfs, per l’anno appena passato, è il suo vassallo.

Flavio Favelli, Bologna la Rossa, Corraini (Giacomo Raccis)

Flavio Favelli è un artista visivo, che nelle sue opere – collage, sculture, installazioni – impiega oggetti d’uso comune e materiali di scarto della civiltà dei consumi, e di quella italiana in particolare. Bologna la Rossa è un libro d’artista e al tempo stesso un’autobiografia per parole e immagini. Attraverso quattro brevi testi, Favelli ricostruisce la propria infanzia bolognese: un racconto intermittente, che procede per frammenti, salti, improvvise accensioni che si sviluppano intorno a una parola, un oggetto o un luogo. La storia famigliare arriva poi a incrociare quella collettiva, ricostruita in una lunga sequenza di fotografie d’archivio e disegni dell’autore che coprono quindici anni di stragi, dall’Italicus(4 agosto 1974) alla strage dell’Armeria (2 maggio 1991), passando per la morte di Francesco Lorusso, Ustica, la stazione di Bologna e altri fatti neri. Quello che le fotografie tentano di restituire con obiettività e misura, i disegni invece riformulano filtrando attraverso l’immaginario personale, dove si mescolano dettagli documentari e tracce di una memoria involontaria che capta insegne, pubblicità, biglietti dello stadio o pagine di giornale. Le opere sono realizzate con matite colorate su cartoncino A4, a certificare l’origine primitiva di questa narrazione, che è personale ma tocca l’esperienza di tutti.

Carlo Ginzburg, I benandanti, Adelphi (Elia Rossi)

È vero, non stiamo parlando di un romanzo, ma di un saggio storico. E non è nemmeno un testo ideato e edito nel corso del 2020, ma la ripubblicazione di un’opera che fu innovativa nel lontano 1966. Però, se c’è una casa editrice italiana le cui antenne junghiane sanno vibrare alle onde dell’inconscio collettivo, questa è proprio Adelphi. E allora la domanda sorge spontanea. Di quali vibrazioni del 2020 si fa portatrice la ripubblicazione dei Benandanti di Carlo Ginzburg? Una ricerca che affonda mani e piedi nei verbali degli inquisitori cinquecenteschi e secenteschi, e in particolare di quelli che si aggiravano tra le campagne friulane per stanare delle strane figure di sciamani contadini. Quest’ultimi erano stregoni a tutti gli effetti, che tuttavia ritenevano di stare dalla parte del bene e affrontavano il demonio e i loro emissari a colpi di mazze di finocchio, per impedirgli di intrufolarsi nelle cantine a svuotare le botti di vino (e poi magari a pisciarci dentro), ma anche di spargere sulle case dei contadini le spore della malattia, della fame e dell’incidente. I benandanti ci racconta di una partita a tre (gli inquisitori, gli sciamani rurali e lui, il Male) in un mondo in cui l’epidemia e la carestia spingevano le persone a ipostatizzare la paura della morte in figure malvagie che, si immaginava, agissero nell’ombra, per danneggiare la comunità. Un mondo che elaborava il dolore collettivo tramite gli schemi della colpa e della punizione e che scaricava l’angoscia nell’azione della caccia castigatrice. Eppure, leggerlo oggi ha qualcosa di rasserenante. Forse perché ci mostra che dall’oscurità di quei giorni siamo usciti vivi e, a distanza di cinquecento anni, riusciamo a sciogliere il groppo in gola con il respiro diaframmatico dello sguardo storico.

Bianca Bellová, Mona, Miraggi (Giulia Sarli)

In uno stato che non trova coordinate reali, in un tempo indeterminato della seconda metà del Novecento, una dittatura di stampo religioso sta prendendo sempre più piede. La piccola Mona racconta al suo bue Mun dei morti inquieti che cadono lontano da casa. A salvarli ci sono i trasportatori, che con la loro magia conducono i cadaveri ai villaggi cui appartengono. La stessa storia Mona adulta, ormai donna matura, la racconterà nell’ospedale in cui presta servizio come infermiera a un suo paziente, Adam, un ragazzo tornato da poco dalla guerra con un’infezione che i medici cercano di fermare amputandogli sempre più una gamba. Bianca Bellová sviluppa nella sua scrittura evocativa e densa un romanzo che si dirama in tre linee narrative: la cornice dell’ospedale e i ricordi di Mona e del giovane soldato. Mona racconta il suo passato, Adam sogna il proprio e, in questo scavo nel tempo, i due personaggi si innamorano. Mona è un romanzo breve e potentissimo che ci ricorda che la letteratura è prima di tutto magia che salva le anime inquiete. La sua autrice, Bianca Bellová, è una tra le più importanti scrittrici della narrativa ceca contemporanea, vincitrice con il suo romanzo precedente, Il lago, del Premio Unione Europea per la Letteratura e di quello nazionale Magnesia Litera. In Italia è pubblicata da Miraggi, per la collana NovaVlná, nella splendida traduzione di Laura Angeloni.

Georg Trakl, Quaranta poesie, Giometti&Antonello (Marcello Sessa)

Gli ultimi mesi di questo anno impazzito sono stati ravvivati, dal punto di vista editoriale, da un’importante rassegna di nuove traduzioni di poesia tedesca; per fare qualche nome: Trakl, Celan, Bernhard. Molte lezioni hanno scatenato un vero e proprio dibattito sulla traduzione, che ha oltrepassato di molto il campo della germanistica. Alcuni traduttori sono stati oggetto di critiche indegne. Indegne nei contenuti oltre che nei toni e nei modi, perché incentrate sull’idea che una determinata traduzione “canonizzata” possa essere classica e quindi imprescindibile riferimento. Quando invece nessuna versione può arrogarsi questa patente, dato che ogni volta che un testo persino lo si guarda prima di leggerlo a tutti gli effetti lo si traduce: lo si sposta; pertanto è bene accogliere ogni nuova traduzione con occhi curiosi e braccia aperte. Ci sentiamo di consigliare, in particolare, uno splendido libro Giometti&Antonello allestito da uno degli studiosi più bersagliati: Dario Borso ha vòlto in italiano quaranta poesie di Georg Trakl, scelte da Antonio Porta prima di morire per un progetto antologico. La selezione portiana è pura Gelegenheit: occasione e opportunità per fare esplodere nuovamente e a tutta potenza i versi trakliani, e per sorprendersi ancora di quanto effetto facciano: l’effetto – sinestesico, come gli accostamenti poetici di Trakl – di uno schianto.

Mauro F. Guillén, 2030 d.C., il Saggiatore (Michele Turazzi)

Dieci anni, un intervallo di tempo infinitesimale nella storia della Terra e – tutto sommato – nemmeno troppo lungo per la vita di un essere umano. Eppure i dieci anni che si aprono davanti a noi saranno fondamentali per una lunga serie di ragioni: cambiamento climatico (questo decennio rappresenta probabilmente l’ultima chiamata per l’umanità, l’ultima possibilità che abbiamo per correggere la rotta), sovrappopolazione, inquinamento, automazione, AI, crisi economica, cambiamento dell’asse economico mondiale, migrazioni di massa, disoccupazione. La rapidità dei mutamenti socioeconomici e tecnologici che stiamo vivendo non farà che aumentare, il rischio è quello di venirne travolti, incapaci di interpretare un reale che non riusciamo a riconoscere. Per esempio, nella Terra del 2030, ci dice Guillén – sociologo ed economista politico – ci saranno quarantatré città con più di 10 milioni di abitanti, quattordici di queste ne avranno oltre 20 milioni, con il 60% della popolazione mondiale che vivrà in contesti urbani. 2030 d.C. è un saggio accurato, divulgativo, che procede con buon piglio e una lingua godibile, accompagnandoci a esplorare questo possibile (probabile) futuro, con l’obiettivo di esercitare il “pensiero laterale”, l’unico modo per non venire travolti dall’uragano. Il pregio più grande del libro è di non lasciarsi andare al pessimismo, non indugiare nella distopia, ricercare sempre il punto d’equilibrio, perché ogni innovazione può essere sia positiva sia negativa: tutto sta nel saperla interpretare. Il limite? Considerare il nostro sistema socioeconomico come inevitabile.

Anna Wiener, La valle oscura, Adelphi (Davide Valtolina)

“Uncanny valley” è un concetto introdotto nel 1970 dal professore di robotica Masahiro Mori. S’intende la sensazione di turbamento che si genera nelle persone quando vengono a contatto con automi umanoidi che somigliano “troppo” all’essere umano: il realismo rappresentativo rovescia la familiarità nella distanza della repulsione. Uncanny Valley è anche il titolo che Anna Wiener sceglie con malizia per il suo memoir, in cui racconta i cinque anni passati nella Silicon Valley durante l’èra degli unicorni («le startup valutate, dai loro investitori, più di un miliardo di dollari»), fatta di ambizione incontrollata, ossessione della performance e oscillante regolamentazione. Il libro viene ora proposto da Adelphi nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra come La valle oscura, sovrapponendovi una sapida reminiscenza dantesca. Siamo nel 2013, l’autrice lascia New York, dove ha un lavoro senza prospettive nell’editoria, per trasferirsi nella Bay Area. Eccola nell’“ecosistema” insieme agli ingegneri, gli autentici protagonisti di questa nuova corsa all’oro: i big data come incantesimo predittivo, fondamento di un corso rinnovato. Anna Wiener descrive con dovizia gli ambienti in cui i colleghi «si muovono a piedi scalzi per uffici che somigliano a circoli ricreativi, indossano leggings di lycra con stampate emoji di unicorni, magliette con le facce di colleghi, collari da bondage, pellicce in stile Burning Man». È proprio in questa capacità di raffigurazione, a seconda dei momenti mossa tra straniamento ironico e riflessione partecipata, che si trova uno dei maggiori pregi del libro, capace di zoom a tratti acuti: dal mito della produttività (in cui la cultura dell’ottimizzazione cresce «fino a sconfinare nel biohacking») alle vertigini socio-tecnologiche che accompagnano la transizione rapidissima di San Francisco. Per questa ragione La valle oscura ritrae uno spicchio di mondo che forse – incredibilmente – è già alle nostre spalle. Ma i motivi che solleva ci accompagnano anche in questo momento, non importa se non crediamo troppo nel mondo come modello computazionale: per qualcun altro, capace magari di stravolgere la nostra quotidianità con qualche “macchinetta infernale” (à la Pirandello), invece è così.