Fuori dagli schemi, il mestiere di scrivere raccontato da chi lo fa è una serie di interviste a scrittrici e scrittori pensata per esplorare alcuni aspetti del lavoro sul testo letterario che normalmente vengono lasciati da parte, taciuti o tenuti gelosamente nascosti. Fuori da schemi interpretativi per addetti ai lavori, le interviste si concentrano su schemi concreti, che di volta in volta possono essere scalette, appunti, brogliacci, alberi genealogici, schede dei personaggi, disegni, tabelloni da detective e crazy wall…
Oltre a porre alcune domande dirette su questo o quel problema tecnico, abbiamo chiesto agli intervistati di metterci a disposizione parte dei propri scartafacci e di discuterli insieme a noi. Ma l’obiettivo più importante di questi dialoghi è invitare gli appassionati di letteratura a esplorare il backstage del testo insieme a chi lo ha concepito e realizzato, sia per conoscere aspetti nascosti di testi letti e apprezzati, sia per scoprire opere, autrici e autori che ancora non si è avuta l’occasione di incontrare.
Le precedenti interviste sono state fatte a Giorgio Fontana, Claudia Durastanti, Filippo Tuena e Melania G. Mazzucco.
[questa rubrica è nata da un’idea di Claudio Lagomarsini]
Alessandro Piperno
Alessandro Piperno (Roma, 1972) insegna Letteratura francese all’Università Tor Vergata di Roma. Il suo esordio narrativo, Con le peggiori intenzioni (Mondadori, 2005, premi Viareggio e Campiello Opera Prima), è stato seguito dal dittico Il fuoco amico dei ricordi, composto da Persecuzione e Inseparabili (Mondadori, 2010 e 2012, Premio Strega). Del 2016 è la pubblicazione di Dove la storia finisce (ancora per Mondadori) e, mentre conversiamo, è in fase di stesura avanzata un ulteriore romanzo, che vedrà la luce nei prossimi mesi.
Se la produzione romanzesca di Piperno sgorga principalmente dall’inesauribile fonte (o problema) delle relazioni familiari, il tipo di famiglia su cui sono proiettate le vicende narrate è quello, originalissimo, della ricca borghesia ebrea di Roma, fotografata di preferenza nei dorati anni Ottanta di via Veneto e delle settimane bianche. Ma il disincanto, il senso di colpa, gli atti mancati, la vergogna e i «pubblici infortuni» – che danno anche il titolo a una raccolta di saggi del 2013 – incombono su personaggi complessi e irrisolti, attraversati da conflitti non solo familiari ma soprattutto personali.
Alla carriera di docente, saggista e scrittore, Piperno affianca l’attività di editorialista e giornalista culturale per il Corriere della Sera e per il supplemento «la Lettura». Da novembre del 2020 dirige, inoltre, i «Meridiani» Mondadori. Nell’intervista che segue gli abbiamo chiesto di parlarci del proprio approccio alla scrittura narrativa, ripercorrendo insieme gli ultimi quindici anni, dal fulminante esordio fino alla lavorazione in corso del nuovo romanzo.
Nelle interviste e negli articoli in cui ha accennato alla genesi e alla composizione dei suoi romanzi si trovano allusioni a un processo che sembra ripetersi: la storia che intendeva raccontare si è complicata o arricchita più del previsto e la mole del romanzo si è fatta, via via, piuttosto ingente. Il fuoco amico dei ricordi, ad esempio, si è allargato fino a riempire due tomi: «Il romanzo non smetteva di crescere», si legge nella sua prefazione all’edizione 2015. Mentre alcuni autori dichiarano di aver bisogno fin dall’inizio di poter stimare l’estensione finale del racconto, è come se lei, al contrario, avesse la necessità di occultare a se stesso questo dettaglio. Se è davvero così, come le sembra che agisca questo processo? E in genere l’allargamento (o l’esplosione) avviene per aggiunta di paperoles all’interno di singole scene, per l’approfondimento di linee narrative lasciate in un primo tempo inesplorate o in altri modi ancora?
Mi conceda una premessa che spero illuminerà la nostra chiacchierata d’una fioca luce claustrale: sempre più, nel corso del tempo, la scrittura ha assunto nella mia vita i connotati d’una necessità ineludibile – come le opere per i calvinisti – ravvivata, per così dire, da un’allegra stella edonista. E dire che non ho la tempra dello sgobbone, né la stoffa del gaudente: ero uno studente mediocre e non mi sono mai sballato. Eppure, quando la mattina presto mi metto al computer, almeno nelle mattine migliori, rivelo la pazienza dell’amanuense e il temperamento di chi non chiede di meglio che assaporare piccoli privatissimi istanti di voluttà.
Amerei avere un metodo, purtroppo non ne ho alcuno. Stento a comprendere chi procede per stesure. Un romanzo per me non è un brogliaccio da buttare giù frettolosamente da cui trarre una sceneggiatura più cospicua e dettagliata. Non posso procedere oltre se quello che ho già scritto non mi soddisfa. Visto che ciò capita di rado, e dopo decine di tentativi, spesso mi blocco in un punto ben consapevole che sarò costretto a perlustrarlo per settimane, come un avvoltoio.
Ritengo che il mio metodo (ammesso che abbia senso chiamarlo così) sia dettato da limiti intellettuali e dall’intermittenza dell’ispirazione. Di solito quando inizio un nuovo romanzo sono guidato da due demoni:
- un tema (che so, un medico di successo viene distrutto da un sospetto infamante, vecchi rancori mettono l’uno contro l’altro una coppia di fratelli simbiotici, ecc.). Il più delle volte il tema si associa a un titolo evocativo e icastico: Persecuzione, Inseparabili, ecc.
- Un clima, un’atmosfera. Questo è più difficile da spiegare. Credo che riguardi il fraseggio che mi suona in testa che trova piena corrispondenza nel mood richiesto dal romanzo. Non è mica un caso che il mio primo libro (Con le peggiori intenzioni) sia caratterizzato da uno prosa lutulenta, mentre l’ultimo (Dove la storia finisce) si compiaccia di una scrittura distesa e ironica. È il clima a dettare lo stile. Così com’è stata la storia a favorire il clima. Lo considero un circolo virtuoso.
Insomma, tutto questo per dire che iniziare un libro per me è la cosa più difficile: per mesi navigo a vista. L’intreccio è ancora un abbozzo informe, i personaggi sono ectoplasmi in cerca di un corpo, il focus narrativo è nebuloso. Per uscire dall’impasse, procedo per scene. Questo è il segreto che mi hanno insegnato i classici della narrativa e del cinema. Non ha senso affastellare scene su scene come un regista di serie C. Meglio sceglierne una manciata, e lavorarle pian piano, ben benino, fino allo sfinimento.
In senso stretto non uso le paperoles, ma in un senso più largo sì. Il computer offre opportunità impagabili agli scrittori confusi e confusionari: posso aggiustare il tiro a più riprese, dando al quadro nuove cospicue mani di vernice. Quando leggo George Eliot, tanto per fare un esempio caro, rimango sbalordito dalla capacità mozartiana di seguire uno schema prestabilito, come se avesse già tutto in testa. Certe volte mi dico che se non avessero inventato il computer non avrei potuto fare questo mestiere.
Diciamo che il romanzo mi rivela la sua essenza segreta con lentezza esasperante costringendomi a tornare spesso suoi miei passi. Tanto per dire, nel libro su cui sto lavorando, ho dovuto riscrivere quasi da zero il capitolo 2 alla luce del capitolo 4 a sua volta modificato per colpa di quello screanzato del capitolo 7.
A fronte di tante false partenze, arrivano anche per me i giorni di gloria. C’è un momento, infatti, un momento che non stento a definire epifanico, in cui capisco che oramai solo la morte potrà impedirmi di andare a dama. Allora il romanzo smette di essere un enigma e diventa un impaccio di cui liberarsi al più presto.
Rispetto al romanzo d’esordio, nei lavori successivi sembra aver dedicato più energie alla costruzione della trama. Penso in particolare a Dove la storia finisce, con il suo finale a sorpresa ma attentamente preparato, oppure all’inizio di Persecuzione, dove si incontra la scena potentissima di un uomo accusato di aver avuto rapporti con la fidanzatina minorenne del figlio: il racconto si sviluppa poi naturalmente da questo nucleo. Possiamo approfondire, se non il metodo, il lavoro svolto sull’intreccio?
Non ho schemi prestabiliti, non prendo appunti perché non so quasi tenere una penna in mano e soffro di una lieve dislessia. L’intreccio prende forma grazie a improvvisi colpi di fortuna. Mi si rivela con fatica a scapito (temo) della naturalezza. Anche i personaggi hanno una maturazione. Con il passare del tempo diventano sempre meno banali e generici.
In effetti, nei casi da lei citati – e mi fa piacere che lo abbia notato –, le cose sono avvenute altrimenti. Le confesso che, per quanto riguarda Persecuzione,l’immagine di un bell’uomo che in una bella sera d’estate, nella bella casa borghese, a cena con la sua bella famiglia, viene raggiunto, grazie a un elettrodomestico feroce e infido come la tv, da una Fatwa capace di modificare il corso degli eventi è stata la mia stella polare. Visto che siamo in vena di confidenze, le confesso che poche cose mi euforizzano come torturare i miei eroi. Provo un piacere sadico e masochista a un tempo nell’infliggere loro il tipo di castighi da cui non saprei mai e poi mai riavermi. È una forma di esorcismo molto efficace. Fanno bene sia al romanzo che alla psiche dell’autore. Parlando di Dove la storia finisce, a guidarmi sin dalle prime battute è stata la deflagrazione finale. Alcuni lettori hanno parlato con rincrescimento dell’intervento di un Deus ex machina un po’ troppo brutale, estemporaneo ed ingerente. Mi hanno accusato di non aver preparato adeguatamente un epilogo così tonitruante. Peccato che la mia idea fosse proprio questa: niente ci coglie più impreparati di un attentato terroristico. Non escludo, tuttavia, che possa trattarsi di un mio errore compositivo, una di quelle pedestri ingenuità che rimprovero ai narratori inesperti.
Il suo è uno stile lussureggiante, dove aggettivi e avverbi preziosi sono calettati all’interno di frasi abbondanti e sintatticamente sinuose. Uno scrittore dallo stile insieme flamboyant e digressivo, Javier Marías, ha spiegato di non produrre mai più di una o due pagine al giorno, che vengono riscritte numerose volte nel corso di un’unica seduta di lavoro ma poi considerate definitive. Sull’altro versante, Alberto Moravia sosteneva di partire da stesure veloci e molto grezze dell’intero testo, con il fine principale di fissare l’azione, per poi procedere in seconda battuta alla cura della forma. Rispetto a questi paradigmi lei dove sentirebbe di collocarsi?
Ai miei studenti dico sempre che gli scrittori si dividono in due categorie: i Flaubert e gli Stendhal. I primi hanno bisogno delle loro lentezze non meno di quanto i secondi prosperano nella fulminea rapidità di esecuzione. Non esiste la ricetta giusta. È questione di gusto e di temperamento. La ragione per cui considero Nabokov un modello (certo, ineguagliabile) è che ti dà la sensazione di non lasciare niente al caso. Ogni parola, ogni virgola direi, è una sorpresa e una festa. Detesto le zeppe, i recitativi, le pagine piatte ingolfate di dialoghi mimetici, e quindi corrivi. Pur rifuggendo i facili lirismi di molta scadente narrativa contemporanea, attribuisco alla prosa la funzione della poesia. Mi compiaccio del ritmo che ho imparato a imprimere alle mie frasi.
Un esempio? Vediamo un po’.
C’è una scena di una quarantina di pagine nel romanzo cui sto lavorando (a proposito, s’intitola Di chi è la colpa) che mi ha dato filo da torcere. Per scriverla ho impiegato diversi mesi. Mentre ero lì, impantanato, ho pensato: “Di questo passo lo pubblicherò alle soglie della pensione”.
Su questo punto, però, vorrei essere chiaro. Non sono un purista della frase, me ne infischio della ricerca flaubertiana della “parola giusta”. Sarebbe ridicolo, nel 2020, indulgere in certi estetismi parnassiani. Il mio lavoro consiste nel dare senso a autonomia ai paragrafi. L’aspirazione è che chiunque apra un mio libro, anche così a casaccio, che so a pagina 61, non s’imbatta in proposizioni buttate lì per fare numero. Non sono un fuochista disposto a tutto pur di mandare avanti la locomotiva narrativa. Quando si scrive un romanzo non vale il vecchio adagio: show must go on!
A quindici anni dal suo esordio e dopo esperimenti narrativi tra loro diversi per forma e costruzione, quali sono gli ostacoli tecnici che avverte come più problematici nella scrittura ditestinarrativi? Potrebbe discutere l’esempio di un ostacolo ormai superato e di uno che invece continua a tormentarla?
Temo di non riuscire a liberarmi dal più inutile e falso dei problemi: l’esigenza di plausibilità. In nome di questa ubbia mi spendo più del dovuto. L’errore in questione è di carattere tecnico. Vorrei essere più omertoso. Come recita un vecchio cliché, talvolta gli spazi bianchi sono più eloquenti di una frase brillante. Be’, io ho una smania dilettantesca di dire tutto, di non nascondere niente, di stipare gli spazi narrativi fino a saturarli. Se dipendesse da me ricostruirei la genealogia di ogni personaggio e mi soffermerei su ogni capo del suo guardaroba. È come se non prestassi la fede dovuta alle mie capacità rappresentative né alla fantasia del lettore. Gran parte del lavoro di revisione dei miei romanzi consiste nello sforbiciare spiegoni su spiegoni. È una tara consustanziale da cui difficilmente saprò liberarmi.
Per contro, nel corso degli anni ho imparato a fidarmi della mia voce. Detto così, mi rendo conto, sembra una formulazione metafisica. In realtà, non lo è affatto. Credere nella propria voce evita un sacco di problemi. Quando ho iniziato a scrivere, per darmi la carica, avevo bisogno di compulsare gli scrittori amati. Che errore madornale. Guai lasciarsi influenzare dai propri modelli. Guai avere modelli. È come provare a rimorchiare utilizzando le tecniche di un amico che ci sa fare. A proposito di questo, mi permetta una piccola notazione a latere, ad uso di volenterosi scrittori alle prime armi: solo prendendo le distanze dai tuoi miti, potrai imparare ad amarli nel modo giusto, senza risentimenti o idolatrie. Nel saggio su Flaubert, scritto nel ’20, Proust afferma che il miglior modo per sbarazzarsi una volta per tutte dalla voce di uno scrittore troppo influente è parodiarne lo stile in un pastiche. Un ottimo consiglio. Chiusa parentesi.
Insomma, lo stile è un contegno, una postura, talvolta anche una somma di tic irritanti. Oggi so che devo abbandonarmici, che devo auscultarmi e fidarmi di me stesso.
Ho già fatto cenno alle quaranta pagine che mi hanno tormentato per lunghi laboriosi mesi. Il problema di quella scena è che il contesto era affascinante (un viaggio a New York di un adolescente romano a metà degli anni ’80) ma non altrettanto poteva dirsi dell’azione: cosa c’è di più noioso di un ragazzino che s’impratichisce con una città che tutti oramai conoscono? Inizialmente ho lavorato in modo diacronico: arrivo, permanenza, visite guidate, incontri, partenza. Del resto, a blandirmi, mentre scrivevo, c’erano un mucchio di celebri flâneur newyorchesi: da Céline a Soldati, da Cendrars a Salinger. Grazie al cielo li ho lasciati gracchiare un po’, poi me ne sono sbarazzato. A un certo punto, a complicare le cose ci si è messo il puntiglio descrittivo: così, pian piano il romanzo si è trasformato in una specie di Lonely Planet. A togliermi d’impaccio ci ha pensato un’idea. La vicenda che volevo raccontare su uno sfondo così impegnativo meritava di essere narrata in retrospettiva e per piccoli flash slegati. Allora ho inventato due lunghe telefonate (una alla mamma, una al papà) in cui il nostro giovane eroe dà conto dei suoi giorni newyorchesi e di molto altro. D’un tratto l’intera vicenda ha assunto naturalezza e necessità sorprendenti. Ecco, se mi fossi arreso prima, se mi fossi accontentato, non avrei ottenuto questi effetti. Viva la perseveranza.
Se ho capito bene, nel suo procedimento di lavoro non mancherebbero gli “scartafacci”, ma lei non li conserva o, se li conserva, preferisce non vederli mai più. Quali sono le ragioni di questa reticenza?
All’età di quarantotto anni posso dire di aver capito perché passo un quarto della mia giornata a scrivere un romanzo, e i tre quarti che restano a rimuginarci su. Sogno di allestire un congegno del tutto autonomo e funzionale in cui i conti tornano e la forma risplende di senso e bellezza. È un sogno, certo – un sogno puerile e sdolcinato – da cui, tuttavia, mi è impossibile emanciparmi. Per questo non capisco l’ossessione per i materiali preparatori, le varianti, gli abbozzi, le stesure, le botteghe, i laboratori con quell’acuto lezzo di colla e segatura. Sarebbe come andare a mettere le mani nella pattumiera per valutare che tipo di uova ha utilizzato un pasticciere per allestire il suo delizioso mille feuille. Un romanzo non è troppo diverso da una torta o da un trucco di magia: deve essere sorprendente. Io scrivo per avere il tempo di sbagliare, di accorgermi degli errori, di correggerli in corsa e di nasconderli per sempre come si fa con certi cadaveri che scottano. Perché, dopo aver fatto di tutto per seppellirli, ora dovrei riesumarli? Ecco il punto: fornirle una prova di tutti gli imbarazzanti errori che ho commesso per raggiungere un risultato un po’ più presentabile, di cui peraltro non sono neppure così soddisfatto, è un atto di maleducazione che personalmente preferisco evitare, e che non voglio infliggerle, anzi, da cui la risparmio volentieri.