Sempre più frequentemente, e in sempre più ambiti disciplinari, si legge l’invito a ripensare concetti come vita e intelligenza, idee chiave per definire il nostro ruolo nel mondo.
Nel suo lavoro di ricerca prima e poi di sapiente divulgazione, il biologo Stefano Mancuso ha dimostrato estesamente che il mondo vegetale presenta molte più caratteristiche leggibili come intelligenti di quanto il pensiero occidentale, e la nostra immediata esperienza del mondo, sarebbero pronte ad ammettere.
La filosofia, del resto, da Haraway ad Agamben a Latour, si interroga da decenni sulla necessità di un superamento dell’umano come parametro per la comprensione del mondo. Il libro di Laura Tripaldi, Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali, uscito nel 2020 per effequ, si pone in continuità con queste riflessioni.
Tripaldi è dottoranda in scienza e nanotecnologia dei materiali all’università di Milano-Bicocca, e ha una discreta esperienza come divulgatrice su testate digitali come Il tascabile, L’indiscreto e Not. Non è frequente trovare, nel pure affollatissimo spazio della litweb, qualcuno specializzato in una materia che non appartiene alle discipline umanistiche, ed è proprio questo a rendere interessante il lavoro di Tripaldi, che conosce l’argomento direttamente e senza ulteriori mediazioni. Dico nello spazio della litweb sia per le collaborazioni succitate sia perché, come vedremo, il lavoro di Tripaldi ha anche spiccate qualità letterarie, oltre a essere profondamente utile per i suoi contenuti a chi fa ricerca in questi ambiti o semplicemente se ne interessa.
C’è ovviamente un duplice problema quando si scrive, come sto facendo io, di un testo divulgativo: anzitutto, che lo si fa da turisti (la mia sola fonte su quello che scrive Tripaldi sono in fondo le parole di Tripaldi stessa: se si sbagliasse o mentisse deliberatamente, non avrei modo di saperlo); in secondo luogo, che si rischia sempre di compendiare quello che è già di suo, almeno in una certa misura, un compendio. Cercherò allora di dire in questa recensione non tanto quello che questo libro contiene, ma a cosa può servire.
Muovendo da concetti e casi di studio delle materie di cui è specialista, Tripaldi offre sì una serie di riflessioni specifiche ad esse, ma (anche grazie a una solida base di letture filosofiche, tra Donna Haraway, Luce Irigaray e Jane Bennett) riesce anche a declinarle in termini utili a interrogare la realtà intorno a noi, e a contestare gli assiomi che la regolano. Il libro parte da alcuni esempi di materiali che interagiscono in maniera attiva con l’ambiente che li circonda (e che sono, dunque, “intelligenti”) per invitare il lettore a ripensare che cosa significa, effettivamente, intelligenza, e quanto vale il confine tra organico e inorganico, tra umano e non-umano.
La seta del ragno, per esempio, si trasforma da liquida a solida in brevissimo tempo, mentre la sua resistenza e la sua tenacità aumentano notevolmente quando viene sottoposta a stress, come quando vi impatta un insetto o il ragno precipita; il physarum polycephalum, una sorta di muffa, è in grado di spostarsi nello spazio alla ricerca di cibo e luce solare. Tutto questo è raccontato con una scrittura lucida e precisa, ma mai puntigliosa, senza fronzoli ma anche senza sciatteria; con una scrittura, in altre parole, profondamente elegante e misurata.
Immagino più per caso che per progetto, questo è il secondo libro di Tripaldi a uscire nel giro di un mese. Il primo, Demonologia rivoluzionaria, scritto con gli altri membri del Gruppo di Nun (nome con cui si firmano Valerio Mattioli, Claudio Kulesko ed Enrico Monacelli), raccoglie una serie di interventi che, per comodità e tenendo ben presente che difficilmente si può riassumere in due parole questo libretto metamorfico e prodigioso, chiameremo di stregoneria anti-antropocentrica. Nei suoi contributi a Demonologia rivoluzionaria, Tripaldi si dilunga su questioni alchemiche e cabalistiche, e benché lo spirito dei testi sia profondamente diverso, e il saggismo del Gruppo di Nun decisamente più eterodosso, non si può non individuare una certa continuità tra i libri.
Il ragionamento di Tripaldi è costellato infatti (oltre che da saltuari paralleli tra chimica e alchimia) da riferimenti a classici della fantascienza e del gotico. Si tratta senz’altro di espedienti retorici, utili a raccontare con storie note nozioni che altrimenti sarebbero troppo complesse per il lettore non specializzato; ma il riferimento alla fantascienza (Ultimatum alla Terra, 2001: Odissea nello spazio, Ex machina) e al gotico (Il golem e Frankenstein, che del resto può essere letto agevolmente come proto-fantascienza) è eloquente dell’intrinseca stranezza delle tesi di Tripaldi.
Si è riflettuto lungamente, in questi ultimi anni, sulle opportunità che i generi speculativi forniscono al ripensamento di paradigmi antropocentrici e della nostra relazione col mondo. Queste riflessioni sono emerse a livello mainstream in particolare quando nel 2014 è uscita la trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, romanzo in cui l’immaginario (new) weird di un orrore cosmico e alieno era impiegato per pensare a un ecosistema come un’unità vivente di singoli fenomeni interrelati; mentre il gotico e l’horror come spazio di emersione dell’ecofobia latente della cultura occidentale sono stati ampiamente mappati dal nascente settore di ricerca dell’eco-gotico.
La stranezza che prende davanti all’Area di VanderMeer, alla materia morta infusa di vita di Frankenstein, o a certa vegetazione mostruosa dell’eco-gotico, è la stessa che ci prende scorrendo le pagine del libro di Tripaldi, nella forma della melma policefala o della seta del ragno: lo sconcerto davanti all’inaspettata agentività dell’inorganico.
Ho usato poc’anzi il termine ecofobia: il termine, coniato dal critico letterario Simon C. Estok, individua proprio questo, e cioè un timore radicale per l’agentività della natura. “Immaginare il potere e il pericolo dell’agentività non-umana”, scrive Estok, “significa spesso immaginare minacce al controllo umano. In quanto parte di diverse narrazioni con potenti effetti materiali, l’ecofobia trasforma la natura in un oggetto spaventoso che abbisogna del nostro controllo, qualcosa di disprezzato e pericoloso che, se lasciato autonomo, può solo risultare in dolore e tragedia”[1].
La storia umana si costituisce come un continuo tentativo di controllare l’ambiente naturale, ora costruendo rifugi da esso, ora modificandolo: e perché questo possa avvenire occorre prima proiettare un’agentività quasi umana sulla natura, e poi adoperarsi per contrastarla. In questo senso, l’agentività della natura viene modellata, nel corso della storia umana, con caratteristiche antropomorfe, e vi viene opposta attraverso i secoli una visione pastorale e disneyana della “natura” come spazio armonico (uso le virgolette perché questa visione è un concetto puramente culturale).
Le scoperte e i concetti esposti da Tripaldi, al contrario, non si adeguano né a certe proiezioni edeniche né al loro opposto, ma invitano a ripensare l’uomo come parte di un continuum di vita che comincia dalla materia inorganica, e prima ancora a cosa significhi esattamente “vita”. Se, come scrive Tripaldi, “la materia è dotata di una sua volontà inorganica” (p. 119), è chiaro però che questa non potrà essere rappresentata, o addirittura capita, antropomorfizzandola.
Tripaldi evoca a più riprese il concetto harawayano di cyborg: e vale la pena allora di ricordare, come scriveva Cary Wolfe in What Is Posthumanism?, che se l’“umano” in “umanesimo” si costituisce sull’opposizione concettuale al naturale, al biologico, all’animale, allora il postumano, venendo dopo, deve contemporaneamente essere in grado di venire prima. Questo processo di decostruzione concettuale, nota Tripaldi, “è stato accompagnato […] anche da un necessario cambiamento del linguaggio, che ha dovuto ridiventare a sua volta ibrido e ambiguo come la materia che cercava di definire: parole come organico e inorganico hanno perso il loro significato originario, basato su una distinzione metafisica tra vita e non vita, per trasformarsi in definizioni operative, utili a costruire relazioni, e non barriere, tra gli innumerevoli stati dinamici che la materia può assumere” (p. 163).
Una delle questioni centrali e più interessanti di Menti parallele è la difficoltà che la specie umana incontra quando si tratta di riconoscere forme di intelligenza diverse dalla nostra. Questo avviene già quando si tratta di confrontarsi con intelligenze animali (che siamo prontissimi a negare per non farci scrupoli a sfruttare) o vegetali, ma anche, a livello macroscopico, quando ci si confronta con l’intelligenza dei materiali.
La nostra idea di intelligenza si fonda anche sulla forma che ha il nostro corpo, regolato da un sistema centralizzato di controllo ubicato in una parte ben precisa; i materiali, al contrario (ma è anche il caso del corpo modulare delle piante o di animali come i polipi), possiedono una forma di intelligenza diffusa in tutte le loro parti. In quei sistemi naturali e artificiali capaci di self-assembly, per esempio, “è legittimo chiedersi chi è quel ‘self’ che si assembla, e dove esattamente risiede” (p. 133). Pensare all’intelligenza dei materiali porta, inevitabilmente, a ripensare a cosa compone il mondo che ci circonda:
In questo contesto quelli che siamo stati abituati a considerare come semplici oggetti della scienza sembrano animarsi, diventando invece soggetti veri e propri, prendendo parte attiva al processo scientifico che li definisce e li studia. Sotto questa nuova prospettiva anche i corpi che abbiamo sempre considerato inerti e passivi rivelano una capacità nascosta di intessere una rete di relazione con noi e con il mondo che li circonda. […] Questo nuovo sguardo scientifico ci ha permesso di scoprire che non soltanto gli animali più vicini a noi, come i mammiferi, ma anche gli organismi invertebrati, le piante e i funghi sono, in realtà, soggetti al centro di un ricchissimo universo percettivo e relazionale, che mette radicalmente in discussione la nostra idea di che cos’è una mente. (p. 21)
La conseguenza di questo ripensamento della frattura tra organico e inorganico si presta naturalmente una volta di più a pensare alla vita biologica come a un punto di un continuum di fenomeni, piuttosto che come qualcosa di nettamente separato da quello che vita non è. “Il concetto di mente estesa”, scrive Tripaldi, “suggerisce […] che non è più possibile separare una mente dal mondo in cui è immersa.
Più che come una caratteristica intrinseca del cervello, possiamo riscoprire l’intelligenza come un fenomeno decentralizzato e diffuso, che emerge dal modo in cui diversi corpi – umani e non umani, viventi e non viventi – entrano in relazione tra loro” (p. 82). Ancora (ed è qui che il libro di Tripaldi torna utile in un contesto ambientalista), Menti parallele spinge ad abbandonare l’atomismo del pensiero occidentale per imbracciare “una visione più dinamica del tessuto della realtà, che metta in risalto la relazione al di sopra dell’individuo” (p. 137).
Quello proposto in Menti parallele è un viaggio affascinante e incredibilmente utile nelle meraviglie che nascondono fenomeni a cui normalmente saremmo portati a non prestare attenzione; per riprendere il titolo di un saggio di Jane Bennett citato anche da Tripaldi, questo libro ci rivela il mondo come composto non da oggetti inanimati intimamente separati da noi, bensì come una materia vibrante con cui noi siamo in continuità. Il libro di Tripaldi allora, con la sua ricchezza di aneddoti, la sua pazienza, e la generosità dei suoi rimandi, è lo strumento perfetto per cominciare a navigare in questa nuova percezione della realtà.
Laura Tripaldi, Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali, Firenze, Effequ, 2020, pp. 208, €15
In copertina: Tomás Saraceno, On air, Parigi, Palais de Tokyo, 17 ottobre 2018 – 06 gennaio 2019 (©Palais de Tokyo)
[1] Estok “Painful Material Realities, Tragedy, Ecophobia”, in Serenella Iovino e Serpil Opperman (a cura di), Material Ecocriticism (Bloomington: Indiana University Press, 2014), pp. 130-140, p. 135.