Ho un ricordo in bianco e nero di Franco Loi: il poeta, con un volto sottile, scolorito e scherzoso, era vestito di nero fino al berretto; eravamo in una stazione balneare su una piccola isola che poteva, nonostante l’appellativo di «isola del sole», contare solo sulla scala dei grigi di una sera d’inverno al chiaro di luna; prima a cena ai Bragossi, osteria semplice nell’arredamento (sedie nere, tovaglie bianche, pareti grigie, foto d’epoca) con il menù scritto su una lavagnetta, poi a passeggiare verso il Grand Hotel Astoria.
Di quell’unico incontro con Franco Loi conservo un foglio bianco, da lui manoscritto a penna nera, con una poesia, una dedica e la data («Grado / 16 dicembre 2014»), e qualche annotazione che fissai, dopo aver salutato il poeta ed esser salito in camera. Da ciò vorrei prendere spunto per un omaggio estemporaneo, a pochi giorni dalla sua morte (Milano, 4 gennaio 2021).
Loi, nato a Genova il 21 gennaio 1930, resterà il protagonista démodé della poesia neo-dialettale, un anacronista minaccioso (Pier Vincenzo Mengaldo) e autenticamente moderno (Enrico Testa), una delle voci più vigorose che, dagli anni Settanta, si sono alzate per reagire all’estinzione delle parlate locali e alla supremazia dell’italiano nazionale.
Ha dato al dialetto nuova vita, reinventandolo con contaminazioni erudite, espressioniste e anticonvenzionali già da Stròlegh (introduzione di Franco Fortini, Einaudi 1975), poema dal taglio cinematografico in cui inquadra la Milano operaia e popolare degli anni ’40 e ’50 con «iperralismo tragico-deformante» (Mengaldo) e presa diretta della «lingua ideologica» di proletari e immigrati. Con un tocco del tutto personale, «tra Dante e Céline, tra rappresentazione “comica” e realistica e ribollente gorgoglio monologante» (Testa). Non ha avuto timori, Loi; e, per dirne una, se Gozzano fa rimare «Nietzsche» con «camicie», lui in Teater (Einaudi 1978) fa rimare «Sant’Ambrös» con «Levi-Stross».
Dopo Stròlegh e Teater, venne L’angel – nello stesso 1981 in cui Loi, poco più che cinquantenne, sbarcava per la prima volta a Grado per festeggiare i novant’anni di Biagio Marin, che a differenza sua esordì presto con una raccolta di poesie ma s’impose tardi all’attenzione della critica.
Da quell’incontro con Marin, Loi ereditò, oltre a un modello di strenua fedeltà al dialetto e uno scambio epistolare che reca gli estremi 1981-1985, i continui soggiorni a Grado, perlopiù nelle vesti di giurato del premio «Biagio Marin». Quando, alla fine del 2014, mi spinsi ai confini dell’Impero (da Genova è più facile raggiungere Arles che Aquileia e poi Grado), Loi mi parve uno di casa, l’amico di tanti più che un’autorità in materia. Ma poi quale materia? Lui stesso mi disse: «Non esiste la poesia in dialetto, esiste la lingua del poeta».
Di quelle giornate ricordo il rettilineo, diretto a Grado, sospeso sulla laguna, fumoso, infinito (impressionante per un ligure), con gli aironi, le batèle dai bordi bassi e i casoni dal tetto di paglia a galleggiare beati. Ricordo la bellezza dell’isola, il «picolo nío e covo de corcali» di Marin, «pusào lisiero sora un dosso biondo» («piccolo nido e covo di gabbiani / posato leggero sopra un dosso biondo»), ricordo la casa del poeta dei Canti dell’isola, affacciata sul mare (quasi ficcata sulla sabbia), con le pareti degli interni piene di conchiglie.
Ricordo la visita all’atelier del pittore Dino Facchinetti, amico di Loi, al piano terra di calle Corbatto nella Grado Vecchia, il quale ci accolse ruvidamente e ci congedò malvolentieri, malagevole e generoso come i suoi soggetti, pescatori che scaricano casse di pesci, barchi (al maschile) derelitti, crocefissi e lische. E ricordo gli occhi azzurri, silenziosi e lucidi, di Luciano Cecchinel, il quale si rimetteva a fatica, dopo la malattia e la morte della figlia, sulla «cara e difficile strada» della poesia (definita così, ci confidò, dalla sua personale guida, Andrea Zanzotto, in una dedica privata). Aveva vinto lui la IX edizione del premio Marin, con Sanjut de stran (prefazione di Cesare Segre, Marsilio 2011).
Il ricordo più vivido, nonostante rimanga virato al bianco e nero, è della vigilia della premiazione. Era il dicembre del 2014 e, a cena con Loi, seduto di fronte a me, c’erano anche Alia Englen ed Edda Serra, rispettivamente nipote e “vestale” di Marin. Il poeta mangiava poco, a un certo punto chiese delle scaglie di parmigiano. Invece io mangiavo parecchio ma alla chetichella, e gli versavo il vino se volevo bere. Alla fine provai io lo struccolo, dolce tipico della Venezia Giulia, lui dei biscotti e ci concedemmo della grappa. «Il poeta deve essere capace di essere felice, mangiare, bere, godersi la vita», disse, sorridendo, «e di essere triste, chi si tortura senza risultati è chiunque».
Dell’autore del campionario Voci d’osteria (Mondadori 2007) non la saprei dimenticare la voce, un po’ squillante un po’ stentata, sorridente, pacata, accelerava quando lo colpiva ciò che ci accumunava. Genova innanzitutto. Mentre le nostre due commensali polemizzavano per Mafia Capitale, io e Loi parlavamo della città dove nacque e dove trascorse un’indimenticata infanzia, fino al 1937, quando si trasferì a Milano (lavorò nelle ferrovie, nelle relazioni pubbliche della Rinascente e nell’ufficio stampa della Mondadori, mentre militava alla base del PCI e, in seguito, nella nuova sinistra).
Sarò sincero: avessi conosciuto meglio i luoghi genovesi da lui frequentati, San Fruttuoso soprattutto, o il dialetto genovese, avrei incontrato con più facilità, nelle sue parole di quella sera, il protagonista dell’autobiografia Da bambino il cielo (Garzanti 2010) e il poeta dell’Angel (San Marco dei Giustiniani 1981, Mondadori 1994), ma questi incontri del tutto letterari avvennero successivamente.
Ritrovai dopo qualche mese, nella nota introduttiva al Diario minimo dei giorni (Hacca 2015), anche la vicenda editoriale del romanzo dedicato al padre partigiano. Durante quella cena, nel dicembre 2014, Loi utilizzò ancora il titolo Diario di una medaglia d’oro, risalente agli anni Cinquanta allorché lo propose a Elio Vittorini che era intenzionato, con modifiche minime, a inserirlo fra «I gettoni» dell’Einaudi; seguirono, però, una versione totalmente stravolta dall’autore, la controproposta del direttore di collana di intervenire lui stesso sull’originale e un nulla di fatto. «Ma ho scritto sempre narrazioni io», sottolineò Loi, «e tanta filosofia».
Ripenso proprio all’Angel, romanzo in versi composti con le lingue di una vita (il milanese, il genovese e, da parte di madre, il colornese), densissimi di trasfigurazioni di eventi privati e collettivi, quindi di riflessioni sulla vita stessa, rivissuta dall’angelo, alter-ego del poeta, che «attraversa le nebbie della pazzia e anela a un’umanità liberata dai suoi gravami e inebbriata dall’amicizia, dall’amore» (Cesare Segre).
E in un continuo riaprire i libri, rincontrarsi con l’autore, e capirci qualcosa, oggi rileggo queste parole di commento che paiono di congedo, e non sono né una cosa né l’altra: «L’angelo è straniero sulla terra. La sua patria è, di nuovo, ancora, il “regno dei cieli”, la terra d’utopia, il mondo “dentro di noi”, che non trova riscontro nella duplicità e ambiguità della terra, degli uomini, della società».
Usciti dalla trattoria, diretti all’albergo, vide la luna e me ne parlò, un po’ trasognante, e camminando cominciò a dire, con voce stridula eppure profonda, versi di cui era, con ogni evidenza, innamorato: De Diu sun matt… Sono estratti da Memoria (introduzione di Giovanni Tesio, Boetti 1991) e sono esemplari dell’ultimo Loi, che ha composto in un dialetto «più disincarnato e trasparente» (Franco Brevini) ed è passato dal poema alla misura breve, dalla narrazione a una lirica che oramai, dialogando con la morte e interrogando la metafisica e la religione, prediligeva l’introflessione alle sortite politiche (Testa).
Mi confidò che lui oramai componeva versi «sotto dettatura», fece una pausa, «dettatura dell’inconscio». Poi specificò: «ma non bisogna farsi travolgere dall’inconscio, bisogna scrivere con consapevolezza, sapendo affrontare se stessi per conoscersi profondamente. Poi si cambia: pensa che a volte, rileggendomi a distanza di anni, non mi riconosco». Arrivati alla hall del Grand Hotel Astoria chiese una penna, un foglio e quella poesia me la scrisse come la trascrivo:
De Diu sun matt
se streppa la cunsciensa.
Vu in gir, el pensi,
me ‘l remeni, e vu
e pussé ‘l pensi, e pü ghe sun luntan.
Diu l’è schersus; L’è cume fa la lüna
ch’i me penser in nüver, e lú se scund.
Inscì me tundi via, parli cuj omm,
e matta l’è la luna, ciara lünenta,
cun la sua lüs che slisa ne la nott.
La mano era stanca ma la mente svelta: «È un dialogo scherzoso con dio e con me stesso», specificò prima di cominciare a scrivere (col piglio dell’illusionista che invita lo spettatore a fare attenzione), mentre lo faceva me lo traduceva e me ne spiegava il senso, contando sulla mia «sensibilità»:
«Di Dio sono pazzo, si strappa la coscienza, cioè è disorientata, s’interroga, si divide e contiene l’inconscio, ciò che non si conosce. Vado in giro, lo penso, me lo rimugino, e cammino. E più lo penso, e più mi allontano. Dio è scherzoso… È come fa la luna, che i miei pensieri sono nuvole e lui si nasconde. Così, mi distraggo, “mi perdo via” diciamo in milanese, parlo con gli uomini, e matta è la luna, chiara luminosa, con la sua luce che scivola nella notte. Quel “slisa” è intraducibile perché la luna passa lasciando un segno leggero, sembra lisa».
Il satellite esercitò la propria forza e lasciò un segno “leggero” sulla poesia di Loi, dalla serie di Stròlegh intitolata Secundum lüna («Secondo le fasi lunari») fino ai versi della piena maturità. In chiusura – come, però, a continuare la camminata sull’isola del sole al chiaro di luna – ne cito quattro di versi, da Umber (prefazione di Romano Luperini, Manni 1992):
«Se mí nel camenà senti la mort,
lenta la luna vègn nel sò savè,
che scüra dent a l’òm l’è la sua sort
e amur porta la lüna sensa véd…»
(«Se io nel camminare sento la morte,
lenta viene la luna nel suo sapere
che dentro all’uomo la sua sorte è oscura
e la luna porta amore senza vedere…»)
[In copertina: Franco Loi in un ritratto fotografico di Dino Ignani]