A quasi un anno dallo scoppio dell’epidemia cercare di orientarsi tra gli effetti che questa ha avuto sulla nostra letteratura non è facile. Quello che abbiamo visto nell’immediato è come il pubblico dei lettori (ma presumo anche di chi di solito legge poco) abbia ricercato nei libri una riposta, un senso possibile, affidandosi per lo più a romanzi sul tema o a saggi considerati profetici. È stato quindi straniante, benché abbastanza prevedibile, vedere in cima alle classifiche due classici come La peste di Camus e Cecità di Saramago o un titolo altrimenti settoriale come Spillover di Quammen, subito impostosi quale vera e propria chiave di lettura del mondo in presa diretta. Di qui era prevedibile un fiorire di iniziative editoriali con al centro la pandemia: opere di approfondimento allegate a quotidiani, reportage narrativi da varie zone d’Italia, una marea di saggi sociologici e antropologici, antologie di scrittori. Ma tralasciando il piano più attinente alla sociologia della letteratura o all’analisi di mercato, la domanda che molti si saranno fatti è come e quanto ha già inciso il tempo del virus sulla letteratura. Se una risposta chiara è impossibile, ci sono tuttavia aspetti interessanti che l’attuale stato d’eccezione invita a scrutare da vicino, a partire dall’analisi di come una comunità di scrittori reagisce a un trauma collettivo di tale portata, e quindi quanto un contesto così marcato e condiviso influisca sulle scelte e i modi di scrivere. Senza addentrarci nella selva psicoanalitica dei Trauma Studies, questo significa molto più artigianalmente indagare i rapporti tra urgenza del tempo e ragioni di poetica, necessità di scrittura e fedeltà da mantenere.

In questo senso può essere un buon punto di osservazione la Piccola antologia della peste, curata da Francesco Permunian e pubblicata da Ronzani Editore, casa editrice di recente fondazione ma che si sta già distinguendo in qualità della scelta e cura tipografica. Prima di tutto bisogna notare come la forma dell’antologia, che sembrava ormai relegata al secolo scorso e per lo più appannaggio della poesia, sia tornata in auge proprio nel momento in cui è sorta l’esigenza di uno spazio comune in cui potersi confrontare. In secondo luogo, se in passato le raccolte hanno avuto soprattutto un taglio di tipo generazionale o di “linea”, qui ci troviamo di fronte a trentaquattro autori di diverse generazioni, estrazioni e provenienze geografiche. Si va da poeti affermati come Valerio Magrelli, Elio Pecora e Franco Bufoni a narratrici di lungo corso, completamente diverse tra loro, come Dacia Maraini e Laura Pariani; c’è un nutrito gruppo di saggisti e critici, ben rappresentati da Paolo Mauri, Pierluigi Panza, Cristina Battocletti e il più giovane Gabriele Ottaviani; poeti dialettali agli antipodi della penisola come il trevigiano Luciano Cecchinel e il marsalese Nino De Vita; giovani scrittori come Andrea Cafarella, più maturi come Roberto Barbolini e felicemente di nicchia come l’argentino Adrián N. Bravi.

Quello che colpisce a prima vista, oltre alla diversa natura degli autori, è l’ampiezza geografica coperta dalla raccolta, con una più fitta presenza da Milano e Roma, ma ben estesa alle tante provincie italiane. Aspetto connotativo e necessario a perseguire quella che è l’intenzione affermata da Permunian nell’introduzione all’antologia, cioè «poter ricomporre, attraverso il collante della scrittura, gli infiniti frammenti di un unico affresco nazionale; o perlomeno di riuscire a tracciare i tratti salienti di quella cartografia dell’angoscia e della speranza in cui si rispecchia il volto dell’Italia di oggi». Puntualizzando come il lavoro sia «privo di qualsiasi pretesa antologica, simile piuttosto a un’opera aperta che sta tra l’indagine socioculturale e un inesausto work in progress», Permunian sgombra subito il campo da un possibile criterio di selezione per eccellenza e rivendica piuttosto quello dell’informale richiamo a raccolta, rispondente a un principio di “presa diretta” che tanti prodotti recenti sulla pandemia hanno inseguito alimentando una precoce saturazione del tema. Non c’è dubbio tuttavia che quest’opera si distingua da iniziative simili per quantità (nonostante la titolazione di piccola) e qualità degli autori coinvolti, e quindi per la grande varietà delle scritture che ne fanno uno strano prosimetro-sismografo di questi tempi incerti.

L’effetto di straniamento, per cui la stessa esperienza del virus condivisa con il lettore è colta da così tante angolature da risultare alla fine ancora più aliena e indecifrabile, è rafforzato dalle illustrazioni di Roberto Abbiati che attraversano l’antologia. Si tratta di un bellissimo e inquietante bestiario schizomorfo, dove ogni animale è dimidiato e come cucito in una maschera rattoppata di se stesso. Queste immagini di zoologia spettrale, scandendo le pagine tra un pezzo e l’altro, vanno a comporre una galleria che infine ci sembra stranamente umana e oscuramente rivelatrice del filo del discorso che dovrebbe solo corredare. Non è quindi un caso che in copertina campeggi l’unica figura umana, un frammento di manichino toccato dai colori della malattia.

Entrando nel merito della raccolta, le vie seguite dagli autori costituiscono un buon campo d’indagine per sondare non solo il tempo vissuto da tutti ma anche le capacità della scrittura di reagire in base al contesto di realtà e secondo la storia letteraria di ognuno.

Chi ha scelto la via del racconto d’invenzione ha optato o per un salto nel genere fantascientifico di tipo distopico (Barbolini) e logico-enigmistico (Cafarella), stabilendo quindi un calzante aggancio con la tradizione nobile del genere, oppure inserendo la narrazione nel tempo realistico del virus. Tra questi ultimi spiccano solo quei racconti che non stanno “dentro” l’epidemia ma che la assumono come orizzonte minaccioso di attesa, come se affrontando in maniera troppo diretta l’attuale si perdesse in efficacia narrativa e originalità. Nel racconto Un’intervista impossibile di Renato Poletti assistiamo a un dialogo da operetta morale tra un giornalista del futuro e l’anima di un anziano e famoso scrittore morto di Covid nel nostro presente. Il tono brillante e ironico è bilanciato dall’atmosfera mesta, che guarda al dolore e alla gloria terrena con un certo distacco, assumendo una lente di leopardiana memoria (strano come Leopardi sia stato così poco citato in questo momento di fragilità collettiva). Terribilmente vicina, fino alla perdita di realismo, è invece la prospettiva scelta nel racconto‘Colata, dell’esordiente napoletana Mimma Rapicano. Qui l’epidemia è trattata attraverso la deformazione comico-grottesca, in una storia indiavolata di suore di clausura alle prese con la malattia. L’ispirazione sadica e barocca del racconto riesce a non essere mai indelicata nei confronti della realtà tragica del momento e del contesto stesso dell’antologia, grazie soprattutto alla tutela di un filtro linguistico deformante e scopertamente esagerato. Altri racconti più eterogenei, come Civico trentanove di Fiocchi o Il portalettere di Gallini, risentono invece di uno squilibrio non risolto tra la componente realistica, a volte sembrerebbe autobiografica, e quella più visionaria che ne dovrebbe costituire il sigillo. Stesso problema di cui risentono i pezzi più propriamente di autofiction, compresi quelli da lockdown, che dovendo trascendere la propria storia personale in un segno collettivo restano per lo più ancorati a mute scene di vita quotidiana, fugaci meditazioni o lamenti poco decantati. Fa eccezione in questo senso il contributo di Adrián N. Bravi che in Senza tessiture vaga nel paesaggio desolato a cui ci siamo ormai abituati (per lo meno tra chi vive in piccoli centri). Sono frammenti di un discorso che intreccia con leggerezza riferimenti letterari e di cronaca con l’affabulazione di sé in chiave tragicomica. In questo caso il mal di denti diventa un sintomo piccolo ma terribile se messo in relazione all’orizzonte funesto del tempo presente. E alla fine la furia delle informazioni, che siano citazioni colte o riferimenti al virus, si auto-fagocita in una smaterializzazione del reale che lascia fluttuare il pensiero da solo sulla pagina. Anche qui l’aver seguito la committenza, per così dire, in modo laterale e fedele alle insegne del proprio percorso autoriale ha pagato.

Considerazioni simili riguardano anche gli interventi di poesia, che risultano più convincenti quanto più che a sentire tendono a risentire del tempo del virus. E i componimenti migliori sono infatti quelli scritti in una lingua altra da quella con cui abbiamo parlato della pandemia, e cioè il veneto di Cecchinel e il siciliano di De Vita. Il primo alterna ad auto-citazioni di vecchi componimenti, ripresi per l’occasione, annotazioni in prosa (italiana) di carattere paesaggistico e filosofico, che partono dalla vista del cimitero cittadino sbarrato e della campagna circostante. Ne risulta un prosimetro interessante, perché mostra in fieri il legame sempre rivelatore (ben delineato da Zanzotto) tra la lingua veneta e il suo paesaggio, già deturpato e ora ancor più desolato dall’avvento dell’epidemia. La scelta di riprendere la propria poesia in prospettiva e farla reagire con il tempo, senza dirlo quindi direttamente, arricchisce la parola antica e la sedimenta di nuove risonanze. Così come si carica di suggestioni malinconiche e sospese il poemetto narrativo di De Vita, che racconta la storia dell’incontro in ospedale con Vincenzo Consolo, malato di epatite, e della consegna di una lettera per Sciascia. Non c’è solo il ricordo legato alla fragilità di uno scrittore di fronte a un altro virus, ma anche la delicata e profonda incertezza che la lingua del quotidiano, il dialetto, assume nel raccontare il dolore, il male e i fatti più grandi della vita.

I pezzi saggistici dell’antologia, per lo più a dominante narrativa, sono di vario tipo: dalla riflessione antropologica e sociologica sul tema della paura e della solitudine (Maraini, Perrella e Ottaviani) a pezzi di taglio giornalistico sulla crisi delle religioni (Testa) e brevi trattazioni storiche sulla peste e il lazzaretto (Mauri e Piotti).

Una menzione speciale va infine a Laura Pariani, che ha scelto il linguaggio del fumetto per raccontare la condizione di spaesamento e saturazione mediatica che ci ha investito durante il lockdown. In quattro tavole dai colori sgranati, una serie di televisori incorniciano dettagli tratti da dipinti di Bosch, accompagnati dalle frasi-tormentone che ci hanno accompagnato in questi mesi. L’ultima tavola vede l’autrice stessa al lavoro che si e ci chiede: “Qual è la dose di realtà che io posso sopportare?”.     

Credo che la domanda finale della Pariani se la siano posta, consapevolmente o meno, tutti gli autori coinvolti in questa Piccola antologia della peste. In modi diversi e con alterni risultati artistici si è tentato di “far fronte”, mentre quello che appare evidente è come l’epidemia non possa essere semplicemente un tema, un nuovo repertorio di occasioni di scrittura. Da una parte infatti il virus, che ha investito il nostro mondo non più come una guerra lontana, ha acuito la nostra dipendenza da una spettacolarizzazione della realtà, simulacro di esperienza alimentato dalla fortificazione del mediascape sugli schermi delle case in cui siamo rinchiusi, dall’altra sembra aver mandato in cortocircuito il tutto con la presenza tangibile, imprevedibile e tragica del dolore e della morte quotidiani. Il cambio di passo richiesto alla letteratura in futuro riguarderà allora più profondamente il senso stesso dell’approccio alla realtà sulla pagina. Se il nuovo realismo letterario, tra documentazione e finzione, affronterà in maniera più compiuta il tempo dell’epidemia non potrà che chiedersi: sto subendo e agghindando quelli che Sciascia chiamava, con altre intenzioni, i “fantasmi dei fatti” o sono dentro un nucleo vero di esperienza condivisa, il “trauma in mancanza” del quale si è alimentata quella che un decennio fa Daniele Giglioli ha chiamato “scrittura dell’estremo” e “strategia dell’osceno”? In uno dei pochi libri d’autore già usciti che affrontano questa nuova realtà, Reality (Rizzoli 2020), Giuseppe Genna scrive: «Eravamo malati di spettacolo. Correvamo verso la malattia, la malattia era la corsa stessa». La risposta della letteratura sarà tanto più preziosa quanto costretta a scendere in un campo di superficialità massmediatica della morte a cui ci siamo già ampiamente assuefatti. Fuori dalla scena dello spettacolo e che affrontino direttamente o meno la pandemia, il valore delle nuove opere non potrà che misurarsi sulla capacità di restituire valore simbolico e pietosità alla parola, alla tragedia e al dolore: un compito antichissimo eppure mai così contemporaneo.           


AA. VV., Piccola antologia della peste, a cura di Francesco Permunian, con illustrazioni di Roberto Abbiati, Ronzani, Vicenza, 2020, pp. 349, € 18.