Diana ha un’enorme voglia sulla coscia di cui si vergogna al punto da tenersi un costume a gonna quando va al mare con gli amici; Giorgio è in crisi e si ritrova a nascondere la propria inadeguatezza dietro a un gesto violento; Vanessa è fidanzata con Gianmarco, rampollo di una famiglia palazzinara i cui valori sono saldamente ancorati a quelli della borghesia più spiccia e tradizionalista. Questi e molti altri i giovani che affollano come in un mosaico il paese laziale di Pontinia (che a partire dal suo nome rievoca una storia provinciale fatta di grigiume e olezzi nostalgici), in cui si svolge Adorazione, il romanzo d’esordio di Alice Urciuolo.
Reduce dall’esperienza di sceneggiatura della fortunata serie Skam (Netflix), che segue le vicende di un gruppo di ragazze e ragazzi, studenti di un liceo classico romano, Urciuolo tenta la sua prova nella narrativa mescolando la strumentazione del teen drama già messa in atto sullo schermo, al tentativo di sviluppare su di essa una prospettiva inedita. A determinare lo scarto nel racconto di una canonica estate adolescenziale fatta di nuovi amori e falò in riva al mare è infatti un’ombra scura del passato prossimo. L’anno precedente Elena, amica e compagna delle ragazze di Pontinia, è stata uccisa – soffocata – da Enrico, a sua volta membro del gruppo maschile, esempio di come il desiderio di possesso possa trasmutare in violenta anche la persona apparentemente più insospettabile. Contrariamente a quanto il lettore-voyeur si aspetterebbe, però, la storia non si attorciglia in alcuna maniera possibile attorno a questo fatto (la cui dinamica viene descritta in un flashback cortissimo verso la fine del libro), che assume piuttosto le fattezze di un vuoto a cui tutto tende in un moto centripeto. Evitando di divenirne il centro argomentativo (e scansando così il rischio di un’operazione narrativa dai connotati già noti che ricorderebbe altri drammi alla Tredici), la morte di Elena si tramuta invece in una sistematica pietra di paragone per chi non è uscito dalla storia.
Le ansie, le aspettative e gli interrogativi di questi adolescenti si interfacciano infatti continuamente con un vuoto che è allo stesso tempo il vuoto degli adulti i quali, nei loro sentimenti e nelle loro azioni bloccati in un’adolescenza fuori tempo massimo, non sembrano poi così diversi dai loro figli, ma è anche il vuoto di una violenza – paradigma del mondo e di una precoce perdita di innocenza – che nessuno sa spiegarsi e di cui nessuno è intenzionato a parlare.
Proprio qui risiede il proposito della scrittura di Urciuolo: tentare una resa “plastica” (e non solo) di una generazione (quella dei cosiddetti zoomer) intenta, come tutte le generazioni giovanissime, a un processo di decodificazione e interpretazione del mondo, ma più di altre coinvolta in una frattura col passato e più in generale col mondo dato, in un processo di ricomposizione della propria identità fuori dai canoni della tradizione.
Nel testo, a esemplificare questo contrasto si situa una molteplicità di elementi interconnessi. L’universo di Pontinia infatti è un modello esemplare di vita di provincia in cui si deve agire di nascosto (ché c’è sempre il rischio di essere visti) e in cui la gente mormora reiterando atteggiamenti e dinamiche sempre identiche a se stesse senza mai accedere a un cambiamento. La vita di provincia e la vita dei padri sono quindi un amalgama complessa ricca di automatismi insondabili per i giovanissimi che si ritrovano così attori involontari di una realtà sempre più opprimente.
La trama – che come detto dura l’arco di un’estate – è costruita attorno a grandi blocchi giustapposti, focalizzati ognuno attorno alle grandi situazioni sociali tipiche di una vita di paese. La sagra, il battesimo di un neonato della famiglia più facoltosa, la messa in commemorazione di Elena sono snodi del racconto in cui il punto di vista muta di capitolo in capitolo raccontandoci la stessa situazione da una poliedricità di sguardi e restituendo la sensazione che sia necessario un lavoro a mosaico per capire la complessità di un’adolescenza non ancora in grado di sintetizzare uno sguardo totale sul presente, ma partecipe di una percezione frammentata e foriera di quei dubbi che sono a loro volta motori della crescita.
Tuttavia, oltre le vicende personali di ciascun personaggio, pare che ciò su cui vadano a convergere in buona sostanza questi sguardi interrogativi sia comunque una dimensione più ampia, proprio quella cioè della socialità borghese in cui si ritrovano coinvolti. Pur non conoscendo altra realtà che quella, i giovanissimi di Adorazione percepiscono il desiderio di liberarsi da una società vissuta come “messa in scena”, dall’apparenza tipica della tradizione borghese che, nel testo, si manifesta in scene forse spesso un po’ troppo compiaciute che ricordano i film di Muccino – e qui scatta in negativo il debito cinematografico di Urciuolo. Così accade, a titolo d’esempio, nella descrizione del ricevimento post battesimo della famiglia Crociara:
Le foto di famiglia vennero scattate dentro la chiesa e sul sagrato, alla fine della funzione. Il prete che aveva battezzato Rossella era lo stesso che aveva fatto la comunione e la cresima a Vanessa, lo stesso che alla recita d’estate alle medie mandò le catechiste a dirle di coprirsi perché il vestito che indossava era troppo scollato, lo stesso che aveva detto alla messa al funerale di Elena. […] All’ingresso della villa dei Crociara li accolsero camerieri in divisa bianca con vassoi pieni di calici di prosecco. Il giardino era stato allestito in modo perfetto. «Adesso è proprio da rivista» aveva constatato soddisfatta Serena quella mattina. Garofani bianchi e rosa addobbavano i tavoli, petali di rose galleggiavano sulla superficie della piscina. Vanessa si sporse per guardarli: erano finti […].
La scena, con i dovuti distinguo, ricorda un modello nobile della letteratura mondiale; la così chiamata Cena di Trimalcione nel Satyricon dello scrittore latino Petronio. Il paragone non suona indebito nella misura in cui proprio nel romanzo latino i protagonisti, invitati al banchetto di un ricco liberto (un ex schiavo), osservano una continua ostentazione di ricchezza per mezzo di uno sfarzo strabiliante. Tale sfoggio però finisce sempre col rivelarsi essere qualcos’altro, smascherando di sé e della cena stessa una dimensione fittizia e pacchiana il cui scopo narrativo non è altro che dimostrare l’aspetto rozzo e dozzinale dell’occasione. Lo stesso accade quando gli occhi dei ragazzi (di Vanessa, in questo caso) osservano questa o altre scene, proiettando su di esse uno straniamento che ne mette in luce tutte le contraddizioni, i rapporti di potere e i conseguenti meccanismi coercitivi.
Questa critica implicita all’impossibilità che una società matura ha di farsi guida e accoglienza per i più giovani che la abitano porta delle conseguenze. Il discostarsi dai padri non genera solamente i silenzi e le incomprensioni tipiche dell’adolescenza, ma questa volta ci immette in una ricerca di affermazione di sé e della propria identità condotta in un campo di azione che tende a coagularsi attorno alla scoperta del desiderio e alla sessualità.
Nel raccontare la generazione Z, Urciuolo ha il merito infatti di porre il sesso al centro di una riflessione che lo vede non solamente come strumento di scoperta e definizione di una propria identità, ma come dispositivo di orientamento per l’esplorazione dei rapporti umani che supplisce un’educazione (scolastica, familiare e sociale) lacunosa. Ben presto i ragazzi si accorgono infatti che la sessualità non è una mera attività legata al divertimento o al solo corpo e che il desiderio assume forme complesse e contraddittorie spesso crudeli, che palesano come le relazioni umane siano in realtà basate su un continuo braccio di ferro di potere, alternandosi tra sottomissione, violenza e, appunto, adorazione. La sessualità così descritta informa il testo come una forza che penetra e sconvolge, che crea feticci e sebbene spesso vincoli a delle illusioni, altrettanto spesso è il mezzo per accedere a una percezione più nitida della realtà e delle persone. È in questo dipinto dei rapporti umani letti attraverso la lente vergine dei giovanissimi e confrontati con il mondo contorto degli adulti che emerge il tratto di maggior qualità del romanzo che, sebbene spesso indulga in pagine da teen drama tradizionale, da esso si discosta con dei guizzi inattesi, proprio come quando Vanessa dopo aver deciso di lasciare Gianmarco (e con lui un tipo di vita che non desidera) cerca conforto in sua nonna Stella:
«Ma è possibile che davvero non lo ami più?» disse Stella con quel tono accondiscendente che tutti avevano sempre usato con lei, quello con cui ci si rivolge ai bambini che fanno i capricci e con le persone che vanno riportate sulla strada giusta – sempre quella che decidono gli altri. Vanessa riposò la testa sulle ginocchia di sua nonna e in quel momento comprese di essersi sbagliata su di lei. D’altronde Stella era stata costretta a passare tutta la vita insieme a un uomo che la opprimeva, per lei non esisteva altra scelta, allo stesso modo sarebbe stato naturale che pure lei rimanesse tutta la vita insieme a Gianmarco. Che lo amasse o meno non importava, che lo volesse o meno non importava. Gianmarco era un impegno che si era presa, e così sarebbe stato per sempre. Vanessa guardò sua nonna, stavolta fu lei a farle una carezza. Non si erano mai capite fino in fondo, e non si sarebbero mai capite.
Ecco dunque che attraverso la capacità di fratturare i rapporti con un mondo e una società che corrispondono solo falsamente ai propri desideri, Urciuolo fornisce il ritratto di una generazione animata da una disperata vitalità, che soprattutto grazie alla definizione di sé in termini sessuali è in grado di sviluppare consapevolezze inedite anche per gli adulti, e che questi adulti è in grado di smarrirli, quasi invertendo i rapporti, non nei termini di una classica dialettica padri-figli, ma attraverso il rifiuto di un mondo e dei suoi ruoli, da sempre accettati e ricoperti acriticamente.