1. Il fascino non discreto dello scrittore disimpegnato
Credo sia Borges ad aver detto da qualche parte che lo scrittore, ancor più del talento, deve avere fascino, anzi che il talento dello scrittore è, in effetti, il suo fascino, e nel mondo letterario contemporaneo, che è piccolo ma comunque pieno di egolatri, non c’è scrittore che abbia più fascino di Michel Houellebecq.
Nonostante la cubistica bellezza, il capello spelacchiato ma prepotentemente lungo, la pelle paonazza e terremotata, il fisico perfettamente fuori forma, Houellebecq è un divo delle lettere, il solo, ad esempio, che possa concedersi il lusso narcisistico di recitare in un film sul suo rapimento (Il rapimento di Michel Houellebecq, 2014), essendo contemporaneamente, e coerentemente, se stesso e la propria irresistibile parodia.
Houellebecq è un divo delle lettere anche e soprattutto perché al recinto delle lettere non è relegato: è infatti l’unico scrittore che riesca a suscitare, ad ogni benedetto (o nel suo caso maledetto) libro, un dibattito letterario e un dibattito politico/mediatico, cosa impossibile, oggi, per qualunque altro scrittore che invece è o esclusivamente letterario (Mari) o esclusivamente politico/mediatico (Saviano).
E la cosa davvero sorprendente è che tutto questo Houellebecq non l’ha ottenuto grazie all’impegno civile sartriano, alla militanza umanitaria, ai J’accuse, oppure andando incontro al lettore con piacionismo divulgativo, ma facendo (mi si perdoni il tecnicismo antropologico) la carogna, ovvero lo scrittore disimpegnato e menefreghista e, cosa inaudita in tempi di decostruzione/distruzione del fallo, facendo il maschio bianco erotomane, ultimo dopo Roth, che non si scusa di esserlo, pur sapendo di risultare, talvolta, eticamente schifoso e culturalmente anacronistico.
È tuttavia innegabile, nonostante i telecomandati trionfalismi recensori a ogni suo nuovo romanzo, che un buon numero di lettori, critici e scrittori che avevano amato Houellebecq quando non era ancora un divo impegnato a disimpegnarsi registrino un progressivo, seppur indefinito, appannamento del suo genio (come qui e qui).
In tempi di giornalismo culturale antigerarchico l’impulso classificatorio potrebbe suonare un poco scortese, ma di certo, se un qualunque critico fosse chiamato a scegliere tra Povera gente e Delitto e castigo o, restando ai contemporanei, tra Goodbye, Columbus e Pastorale americana, non avrebbe alcun dubbio nel preferire, per rilevanza letteraria, i secondi ai primi, visto che i secondi poi contengono i primi, mentre, nel caso di Houellebecq, sembra quasi vero il contrario.
Si può concepire Houellebecq anche senza Sottomissione e Serotonina, ma non senza Le particelle elementari e La possibilità di un’isola, un po’ come se tutto quel che d’irriducibilmente houellebecqiano è presente negli ultimi libri fosse già presente nei primi, ma qualcosa di quel che c’era nei primi fosse andato perduto, una certa urgenza espressiva, un inconfondibile modo di descrivere l’umanità e le sue miserie.
Non è ben chiaro però, e qui sta il paradosso critico, dove risiederebbe il presunto appannamento, visto che, se ci limitiamo al cosiddetto mestiere di scrivere, Houellebecq è progressivamente maturato, soprattutto dalla Carta e il territorio, suo formidabile autoritratto indiretto, che non a caso gli valse il Goncourt.
Al di là del più disteso giro di frase, che tuttavia finirebbe per dare ragione a chi mette Proust prima di Céline solo perché Proust scrive “meglio” di Céline, c’è nell’ultimo Houellebecq un modo più pacato di esprimere opinioni, un primato del ragionamento sulla veemenza dell’intuizione.
Se in Possibilità troviamo passaggi in cui Michel stabilisce, senza argomenti, che Nabokov è un aspirante Joyce fallito, il cui successo si basa sulle diffusissime ma celate pulsioni pedofile del pubblico, in Sottomissione Houellebecq, tramite il professore protagonista, dedica pagine acutissime e spesso commoventi a Huysmans, componendo una sorta di monografia sentimentale dell’autore, che potrebbe quasi costituire un libretto a sé.
Non solo, dal particolare allo strutturale, anche nello sviluppo dei climax distopici, se in Possibilità Houellebecq se la cava con l’espediente un po’ meccanico dei capitoletti alternati e in Particelle con la cornice, in Sottomissione tutto è mescolato insieme, si cerca la lenta ma incessante pienezza narrativa.
Eppure l’impotenza esistenziale del Bruno di Particelle, biologicamente inadatto all’amore, o la solitudine del Daniel 25 di Possibilità, ultimo uomo del mondo, chiamato a comunicare con l’altro solo attraverso la tastiera di un computer, ci dicono molto di più sul nostro disperato presente autoapocalittico di quanto faccia, ad esempio, il professore huysmaniano di Sottomissione, convertitosi satiricamente all’Islam per tornaconto sessuale.
Abbiamo come l’impressione che i nuovi libri di Houellebecq, sebbene formalmente ineccepibili, abbiano subito una sorta d’invecchiamento precoce, mentre i suoi primi siano sempre attuali ma non attualistici, che è poi un modo eufemistico per dire classici.
Ma perché? Come spiegare criticamente quest’impressione a prima vista illogica, cronologicamente contraddittoria? Qual è la causa dello iato poetico che percepiamo?
Prima di abbozzare una possibile risposta a questa domanda, proviamo innanzitutto a cimentarci nel tentativo di capire come sia strutturato, al suo meglio, un romanzo houellebecqiano.
2. Breve guida alla stesura di un romanzo houellebecqiano: un terzo di Camus, un terzo di Darwin, un terzo di Huxley
Per fare l’albero ci vuole il fiore, per fare il romanzo di Houellebecq, prima di tutto, ci vuole il rottame umano, impotente, indifferente e risentito.
Il tipico protagonista dei libri houellebecqiani, che è poi anche voce narrante in prima persona, è sempre cinico e vandalico, almeno a parole, non solo verso di sé, autocompiaciuta carcassa, ma verso chiunque, anche se poi ha dei bersagli preferiti: le donne e il loro per lui divertente decadimento fisico, gli omosessuali e la religione vista come stupidità organizzata.
Non serve qui fare la lista delle sentenze, spesso citate come i fondamentalisti citano le sutre, ovvero decontestualizzate, che hanno determinato l’odio e dunque la fama, seppur fondata su fraintendimenti, di Houellebecq. Basteranno due memorabili esempi.
Nel suo libro d’esordio, Estensione del dominio della lotta, Houellebecq, per descrivere le esponenti della fauna femminile, prima di adoperare l’espressione «ragazza in minigonna», se ne esce innanzitutto con «una scema», «due tizie» e «racchie totali», «tardive e deprimenti scorie del femminismo infranto».
Nei romanzi di Houellebecq le donne, a meno che non siano, come per Michel all’inizio di Particelle, la nonna, sono dio, vale a dire l’unica speranza di felicità, ma sono anche un dio oggetto e un dio mortale, con la data di scadenza, e quando scadono, non scendono al livello di persone, ma diventano subumane, a meno che subumane non lo siano già dall’inizio, perché nate brutte.
Ci sono poi le teorie pronunciate dai vari personaggi, astutamente inserite tra le virgolette del dialogo diretto, per sentirsi più impunito e dunque essere più spinto, come quella secondo cui l’omosessualità sarebbe una forma di pedofilia socialmente accettata, perché, a ben vedere, secondo Bruno, coprotagonista delle Particelle, gli omosessuali si mettono coi coetanei solo per rassegnazione, ma vorrebbero tutti stare coi minorenni.
A parte questa sua visione scandalistica della letteratura, tipica dei Sade, dei Miller, dei Céline, dei Bukowski – una letteratura intesa come luogo della presunta verità estrema, e quindi furbescamente libera da argomentazione e contraddittorio -, Houellebecq in realtà, a livello letterario, è molto più vicino a Camus. Se superficialmente, cioè commercialmente, è soltanto una carogna, il personaggio houellebecqiano è, a tutti gli effetti, una riscrittura attualizzata dello Straniero.
«Oggi la mamma è morta, o forse ieri, non so», superbo incipit dello Straniero, potrebbe essere stato scritto da Houellebecq stesso. L’indifferenza alla differenza, l’alienazione cognitiva, l’abolizione dell’empatia e dunque dell’etica, sono tutte caratteristiche sia di Meursault, protagonista del capolavoro camusiano, che dei non eroi di Houellebecq da Estensione a Serotonina.
In questo senso Houellebecq non s’inventa nulla, ma si limita a proseguire quella progressiva trasformazione dell’eroe romanzesco che va dal personaggio romantico, diverso dagli altri perché sente tutto e sente troppo (Werther) al personaggio novecentesco, diciamo così esistenzialista, ma anche un po’ kafkiano, che è diverso dagli altri perché, invece, non sente più, non sente niente.
Al modello camusiano Houellebecq dà però una declinazione sessuale. Se Meursault non prova sentimenti, gli muore la mamma e non cambia niente, uccide e non cambia niente, lo ammazzano e non cambia niente, i personaggi houellebecqiani più che di fronte alla morte vera e propria sono messi di fronte a un altro tipo di morte, apparentemente più veniale, ma in realtà più subdola e contemporanea: la morte del desiderio. Sono sessualmente impotenti, nullificati a livello amoroso e soprattutto libidico.
Come Lo straniero ha poi un controcanto filosofico che è Il mito di Sisifo, allo stesso modo Estensione ha al suo interno un perno teorico, sotto forma di manoscritto, una rielaborazione parziale ma comunque persuasiva, almeno in sede romanzesca, del darwinismo.
Houellebecq s’appoggia a Darwin, e anche un po’ a Schopenhauer, per dichiarare che, in una civiltà complessa, e perciò priva di rischi da giungla, non vige più la selezione naturale, ma soltanto quella sessuale. La sessualità quindi non è altro che una forma di gerarchia sociale: i belli amano e sono amati, seppur a tempo determinato, mentre i brutti sperimentano, giorno dopo giorno, un inferno in vita.
Grazie al darwinismo inoltre Houellebecq perfeziona, soprattutto nei romanzi maggiori, uno stile descrittivo quasi zoologico, simile a quello di Desmond Morris, ma ovviamente più cupo, angoscioso e poetico. Applica il lessico biologico al contenuto umanistico, descrivendo l’uomo come fosse un mammifero a piacere e l’umanità tutta, dall’alto dell’indifferenza della natura, come un formicaio o un alveare.
Ma se Houellebecq fosse soltanto questo, per quanto indubitabilmente originale, non avrebbe di certo posto nella storia della letteratura.
La svolta che gli permette di compiere un salto di qualità letterario, passando, in un solo libro, dal notevole al necessario, cioè al classico, arriva con Le particelle elementari. Qui l’autore riprende il personaggio camusiano e lo cala all’interno d’intrecci distopici molto astuti, strutturalmente riuscitissimi, che ricordano, per dirla facile, Il mondo nuovo di Huxley.
Nelle Particelle si parla di mutazione genetica con conseguente creazione di un nuovo genere umano, nella Possibilità di un’isola gli argomenti sono la clonazione e la nascita di una nuova religione. Rispetto a Estensione, ritratto autodiagnostico, il romanzo s’espande, acquista trama, visione, mondo.
L’operazione d’innesto narrativo compiuta qui somiglia molto a quella che Dostoevskij mise in atto a partire da Memorie dal sottosuolo. Una volta scoperto quel personaggio monologante, inabile alla vita, perché munito di consapevolezza potenziata, per fare i capolavori a Dostoevskij non restava altro che applicare il tipo dell’uomo del sottosuolo a trame sempre più complesse, rinominandolo, di volta in volta, Raskol’nikov, Stavrogin, Ivan Karamazov.
Regista mancato o comunque tardivo, Houellebecq è anche un formidabile soggettista, possiede la capacità di orchestrare trame astute, spesso sensazionalistiche, scritte per attirare l’attenzione. Non a caso, che siano piaciuti o meno, gli intrecci dei suoi libri sono spiegabili in poche righe (il che è un pregio editoriale non da poco), e soprattutto restano vividi nella memoria, come un aneddoto caustico e/o inquietante, anche dopo anni dalla lettura.
Detto questo, il vantaggio della distopia sta soprattutto nella coerenza rispetto alle posizioni filosofiche ed esistenziali di partenza. Il nichilismo houellebecqiano da individuale si fa storico, scientifico e cosmico, guadagnando in risonanza simbolica e in potenza della visione, in vertigine metafisica.
Dall’impiegato frustrato di Estensione si passa al clone Daniel 25 della Possibilità di un’isola, che vive isolato in un bunker, ombelicato allo schermo, e conosce l’umanità leggendo il diario del suo predecessore.
Dunque, ricapitolando: un terzo di Camus, un terzo di Darwin, un terzo di Huxley. Questo è Houellebecq al suo apice.
Ebbene, che cosa sarebbe andato storto, dopo?
3. Dalla profezia al pronostico: il veggente miope
Cosa mancherebbe quindi nei suoi ultimi libri, dato che Houellebecq sembra avere progressivamente aggiunto? Cosa c’è in meno in Sottomissione e Serotonina che ce li fa percepire come invecchiati prima, non più specchio fedele della nostra condizione, un po’ imbarazzante, di scimmie nude nell’universo?
Ebbene, se il pensiero critico e la struttura sono cresciuti in complessità, ad aver subito una drammatica riduzione è la gittata delle sue presunte profezie, come se il veggente avesse contratto una curiosa forma di miopia. C’è, per dirla col lessico houellebecqiano, un oggettivo accorciamento del dominio della visione.
Nelle Particelle e in Possibilità Houellebecq specula su un futuro lontano e vago, mentre nei suoi ultimi libri, Sottomissione e Serotonina, la profezia somiglia più a un pronostico, perché riguarda il futuro prossimo, imminente. In Sottomissione troviamo, in tempo reale, il processo d’islamizzazione della Francia e, in Serotonina, la rabbia sociale, con conseguenti manifestazioni violente, della classe media impoverita, proprio nell’anno dei «gilet gialli».
Passando dalla profezia al pronostico, Houellebecq guadagna in divismo extraletterario, dal momento che tutti s’interessano all’instant book, anzi all’one instant before book di un autore che sembra quasi evocare, poco prima che si verifichino davvero, fatti di cronaca, come nel caso dell’attentato a «Charlie Hebdo» o appunto dei «gilet gialli».
Ma l’opera perde inevitabilmente in longevità sulla lunga distanza, perché già adesso noi possiamo dire che la Francia non s’islamizzerà nel modo in cui aveva scritto Houellebecq nel 2015, e che le proteste degli allevatori francesi, se ci saranno in futuro, non assomiglieranno, per contenuti e modalità, a quelle di Serotonina.
La testimonianza del presente è un esercizio letterario nobilissimo, ma quando diventa pronostico sul dopodomani, rischia di scadere entro la fine della settimana, un po’ come un pezzo di approfondimento sulle elezioni politiche dove si indicano, come imminenti vincitori, quelli che saranno i futuri perdenti.
Insomma Sottomissione e Serotonina hanno avuto un impatto notevole una volta usciti, in quanto vicini alla cronaca di quegli anni, anzi di quei mesi, ma riletti oggi paiono datati. Al contrario Particelle e Possibilità, scommettendo su un futuro lontano e vago, e soprattutto simbolico, conservano intatta la loro attualità, non tanto storica o peggio giornalistica, ma esistenziale.
A questo punto occorrono alcune precisazioni.
Il profetismo di Houellebecq non è soltanto una posa autoriale, ma nasce dall’incontro, non del tutto riuscito, tra scrittore e grande pubblico. Nelle Particelle e in Possibilità la distopia non è una vera e propria previsione sul futuro, ma ha una funzione poetica e, appunto, di risonanza simbolica. Tuttavia, leggendola, il grande pubblico, costituito perlopiù da lettori occasionali, è incappato nell’errore più grave che possa commettere un analfabeta estetico: ha preso alla lettera la letteratura.
Dopo l’ampio successo dei suoi primi libri s’è innescato quindi un meccanismo messianico: il pubblico crede che Houellebecq sia un profeta e chiede a Houellebecq le profezie. Houellebecq, non essendo profeta, ma avendo ormai l’ansia da prestazione profetica, perché la folla lo osanna, invece di profezie, formula dei pronostici.
Contrae la sua veggenza, che in realtà era solo simbolica, orwelliana, dal futuro apocalittico lontano e vago, non falsificabile ma poeticissimo, al futuro prossimo, al dopodomani, giorno d’uscita del romanzo.
Tutto ciò ha provocato due esiti. Ha reso Houellebecq un divo anche al di fuori del recinto umanistico e ha determinato il singolare invecchiamento precoce dei suoi ultimi romanzi.
Restringendo il dominio della visione, Houellebecq ha perso l’unico elemento che accomuni ogni opera letteraria davvero riuscita, vale a dire l’universale che pulsa nel particolare.
I suoi ultimi libri non riguardano più l’ovunque e il sempre ma più il qui e ora, anzi il qui e il quasi ora, categorie mediatiche che presto decadono in là e ieri. Dunque, pur essendosi paradossalmente affinato come artigiano, critico e architetto delle lettere, Houellebecq sembra aver abdicato alla vera missione poetica, quella di dover dire, sempre, la parola necessaria, parola necessaria che, come nella teologia negativa, si definisce in base a ciò che non è: attualità, chiacchiericcio, giornalismo.
In questo senso, e solo in questo senso, Houellebecq ha subito un’involuzione, perché, nonostante si consideri un nichilista assoluto, ha ceduto all’ansia da prestazione profetica, ed è diventato, forse senza accorgersene, quello che il pubblico gli ha fatto credere di essere, ovvero un veggente, un veggente miope, dimenticandosi che, in Estensione, lui non era nato come novello Ildegardo di Bingen, ma come nipotino geniale di Camus.
Come scriveva Calvino, il libro d’esordio è forse l’unico vero libro dello scrittore, visto che, a differenza dei successivi, rivela una voce non ancora contaminata dal giudizio di chi legge, non ancora impantanata nelle critiche, nei chiarimenti, nelle aspettative.
Oggi l’ansia del presenzialismo in libreria, l’accelerazione editoriale, il confronto impari con giornalisti che scrivono romanzi e il complesso d’inferiorità verso cinema e televisione, hanno reso questa considerazione ancora più cogente.
Lo scrittore, dopo aver esordito, non ha più il privilegio della lentezza e della ricerca, deve essere veloce e attuale, riconoscibile ma sempre diverso, appartato ma presente, essere serialità, brand, deve intervenire nel dibattito pubblico, e così la sua letteratura, andando di fretta, dovendo dimostrare sempre se stessa, ogni paio d’anni con un libro e ogni mese con un articolo, rischia di convertirsi in giornalismo. Sono queste le malattie, forse incurabili, dello scrittore contemporaneo.
E Houellebecq, divo delle lettere, racchio fotogenico, anacoreta in copertina, è certamente il massimo scrittore francese del suo tempo, ma del suo tempo, forse, non è soltanto profeta, ma figlio.