Un festival del cinema in versione virtuale è un’esperienza paradossale. Manca dell’incontro con i realizzatori, i produttori e soprattutto con il pubblico. Scompare la cerimonia e il rito mondano del tappeto rosso. Nessuno sciamare di giornalisti e spettatori da un teatro all’altro, come maratoneti dello spettacolo, attraverso la città. A mancare poi sono soprattutto i grandi schermi, il buio e l’applauso finale raccolto dagli attori in sala a fine proiezione. Eppure quest’esperienza della Berlinale da salotto, con i film disponibili da selezionare su una piattaforma, come quel Netflix che ci ha tenuto tanto compagnia in questi ultimi mesi, ha un nonsoché di tenero e familiare, per non dire di terribilmente attuale. Sarà poi che la città del festival è pur sempre la Berlino delle startup tech, il cuore europeo di un’innovazione meno interessata ai problemi di forma e più intenta a cercare soluzioni nell’immediato. Sarà forse con questo spirito che i direttori Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian hanno deciso di dividere la kermesse in due parti, una prima digitale a distanza per i soli addetti ai lavori e la seconda aperta al pubblico, a giugno, quando si spera che i cinema riapriranno. La Berlinale si presenta anche quest’anno con un numero considerevole di proposte suddivise per categorie: oltre ai film in competizione per l’orso d’oro, abbiamo le sezioni Panorama, Berlinale Special, Generation e Encounters. Scorrendo it titoli, si nota subito una scarsa partecipazione di proposte italiane, salvo i casi de La veduta luminosa di Fabrizio Ferrario nella sezione Encounters e il documentario su Lucio Dalla Per Lucio di Pietro Marcello nella sezione Berlinale Special. A registrare una considerevole presenza sono invece le produzioni in lingua francese, con ben tre titoli in corsa per la statuetta dell’orso. Oltre ai consueti temi sociali e politici cari al festival, quest’anno si avvertono nei titoli nuove urgenze dettate dal tempo sospeso che stiamo vivendo a livello globale, nonché si assiste a nuove sfide per i realizzatori, che in molti casi hanno girato i loro lavori in piena pandemia, risentendo di limitazioni, ma al contempo, attingendo ad alternative fonti di ispirazione. Emblematico il titolo dell’opera presentata dal mai banale regista sperimentale canadese Denise Coté: Hygiene Sociale, una sorta di grottesca commedia ambientata tra vasti prati e foreste, con attori distanti l’uno dall’altro, di fronte a una camera fissa, come su un enorme palco naturale. La difficile ripresa delle comunicazioni tra le persone è sicuramente uno dei temi di questa Berlinale, in particolare l’incomprensione intergenerazionale. Due le opere in concorso in particolare affrontano questo tema, mettendo in scena la distanza di madri e figlie separate da esperienze all’apparenza diversissime e inconciliabili, colmabili con solo l’aiuto della memora. E del cinema ovviamente.
Memory Box
La coppia di registi libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige propone alla Berlinale una storia di alienazione, guerra e sradicamento. Maia è una donna libanese che vive da più di trent’anni a Montreal con una figlia adolescente, Alex. Un giorno, a casa di Maia viene consegnato un grosso pacco dalla Francia contenente vecchi quaderni, audiocassette, foto ingiallite e una reflex: il materiale di un’altra vita quasi rimossa. Da quel momento Maia si chiude in un impenetrabile silenzio e alla figlia Alex non resterà che consultare quei documenti per entrare finalmente in contatto con sua madre. I registi, già premiati a Locarno per A Perfect Day, sono anche quotati artisti noti per la peculiarità delle loro opere, incentrate spesso su ricerche storiografiche, ricostruzioni di fatti attraverso la rielaborazione di documenti d’archivio. E in questa Memory Box ci mettono tutto il loro estro, riproducendo un evocativo campionario di documenti che permetterà ad Alex di viaggiare nel tempo e di ritrovarsi nella Beirut degli anni 80, dilaniata dalla guerra civile, ma anche piena di giovani che tentano di vivere una vita normale, tra cui sua madre. Le due donne iniziano così a parlarsi da mondi diversi, distanti non solo temporalmente, ma anche culturalmente. Ad essere rimarcata è una distanza che si fa anche tecnologia: il mondo di Maia è analogico, fatto di diari scritti a mano, macchine fotografiche con rullino, cassette che necessitano apparecchi quasi estinti come i mangianastri, per essere riprodotte. Poi c’è il mondo di Alex, dominato da smartphone sempre aperti su chat o a immortalare il quotidiano all’infinito. Ma oltre le differenze tecnologiche ci sono quelle linguistiche: Alex ascolta le registrazioni di una coetanea che parla arabo, fuma, ama e brucia di passioni, tutto l’opposto della madre apatica e stanca che vive con lei a Montreal. Il film intreccia la storia di un Paese con quello di una famiglia, senza mostrare forzature, ma facendo scorrere le vicende l’una nell’altra, attraverso originali usi del flashback, una colonna sonora azzeccata e un’interpretazione sobria e misurata da parte di tutti gli interpreti.
Petite Maman
Credo sia piuttosto raro trovare due film in gara così vicini per sensibilità e tematiche. Eppure l’ultima opera di Céline Sciamma, già acclamata regista di Tomboy e Ritratto della giovane in fiamme ha più di un elemento in comune con Memory Box di Hadjithomas e Joreige. Protagoniste della storia sono nuovamente una madre e una figlia, ma ritratte in una stagione della vita differente. Marion è una giovane mamma di 31 anni, Nelly una bambina di 8. Il film si apre su una casa di riposo dove Marion insieme alla figlia recuperano gli oggetti personali della nonna defunta. La bambina chiede alla madre di poter tenere il bastone della nonna, quasi fosse un oggetto magico. Nei film di Sciamma sono spesso rappresentati i riti di passaggio, come la scoperta della propria identità o la sessualità, in questo caso un lutto è l’evento fondamentale che opera in Nelly e Marion un cambiamento.
Scenario della vicenda è un magnifico bosco dove si trova la casa della nonna, luogo carico di ricordi dolorosi per Marion e al contempo posto tutto da scoprire per Nelly. È in un’atmosfera ai limiti del fiabesco che la storia assume una sfumatura fantastica, esattamente nel momento in cui la bambina incontra nel bosco una sua coetanea che le assomiglia in modo irreale: sua madre da piccola. Il film viaggia così su un registro sospeso, in cui i piani temporali si fondono in un’atmosfera di quiete diffusa, irradiata dalla luce autunnale del bosco stesso, archetipico luogo di incantesimi e in questo caso specchio di un desiderio: quello di Nelly di poter finalmente conoscere sua madre, attraverso la sua infanzia. Per quanto la sceneggiatura sia scarna e i dialoghi ridotti all’osso, Il film sorprende per la sua ammaliante atmosfera e una delicatezza descrittiva data da movimenti di macchina essenziali e un’interpretazione delle due bambine sorprendentemente autentica e mai eccessiva.