Tra i primi movimenti del Voyage au bout de la nuit (1932), dedicati alle terribili esperienze dell’avatar Ferdinand Bardamu sul fronte franco-belga della Grande Guerra, e gli ultimi paragrafi del romanzo di formazione Mort à crédit (1936), a ridosso dell’arruolamento dello sciagurato anti-eroe, nelle intenzioni di Louis-Ferdinand Céline (al secolo L.-F. Destouches) avrebbe dovuto trovare posto un terzo capitolo espressamente dedicato al servizio militare prestato in gioventù presso un reggimento di corazzieri: romanzo di caserma dunque, che poi, a completare un ideale ciclo, si sarebbe organicamente riallacciato alle carneficine narrate nello straordinario esordio del romanziere francese.

E tuttavia la redazione di Casse-pipe (alla lettera “tirassegno”, come il soldato in balia del fuoco nemico; nonché, per estensione, l’arruolamento e la guerra stessa), condotta tra l’autunno del 1936 e l’estate successiva, subirà una brusca interruzione con l’avvio delle famigerate Bagatelles pour un massacre (1937), primo tassello del trittico (questo sì, compiuto) con cui Céline, ambiguo simpatizzante della Germania nazista, darà fiato a tutto il suo disastroso, deflagrante antisemitismo, denunciando con terrore l’avvento di un mondo enjuivé (“ingiudeato”) votato all’ennesimo massacro, e di fatto guadagnandosi un posto di rilievo nell’esclusivo club degli Scrittori Maledetti.

Un capitolo doppiamente scandaloso, quello della “pubblicistica nera” di Céline – alle Bagatelles seguiranno L’École des cadavres (1938) e Les Beaux Draps (1941), coronati da un successo paragonabile solo a quello del Voyage –, se è vero che proprio nella ferocia visionaria dei pamphlets, riecheggianti i più vieti stereotipi razzisti dell’epoca, l’ex romanziere “comunista”, divenuto firma di prestigio della stampa collaborazionista, scoprirà la possibilità di un’inaudita frantumazione ritmico-melodica del periodare francese, quello staccato sintattico retto da una sorta di metrica interiore, graficamente rilevato dai famosi “puntini”, che fin dalle Bagatelles prenderà il nome di petite musique.

Del progetto di Casse-pipe, troncato di netto dall’urgenza paranoica dei pamphlets e mai più ripreso, resta la stupefacente ouverture, una sessantina di pagine che, come da programma, narrano l’ingresso di Ferdinand in caserma e la sua tragicomica iniziazione a un universo ferino e minaccioso, fatto di tremende invettive scagliate nella notte, evacuazioni corporee e biblici diluvi; un frammento di romanzo pubblicato una prima volta in volume nel dicembre del 1949, all’indomani del processo per collaborazionismo (conclusosi con la condanna a un anno di carcere e alla “indegnità nazionale”, e seguito nel 1951 da un’amnistia), e che prelude al travagliato rilancio del romanziere maudit negli ultimi anni della sua vita, perlomeno dalla sontuosa “trilogia tedesca” inaugurata da Nord (1957).

Proprio su Casse-pipe si apre l’ultimo lavoro di Pierluigi Pellini, La guerra al buio. Céline e la tradizione del romanzo bellico, Quodlibet (2020), che in sette capitoletti e un’appendice propone un affondo nell’antropologia bellica dello scrittore francese. I lettori ricorderanno come, al centro (o meglio, al termine) del frenetico notturno céliniano vi sia la ricerca di una parola d’ordine dimenticata, necessaria per identificarsi e dare così il cambio a una sentinella. Dopo varie vicissitudini, sarà un piantone in preda a un’improvvisa crisi epilettica a balbettare l’inconsueto, floreale lasciapassare, per così dire “sbocciato” nientemeno che dalla parola maman “mamma”: «Ma man! Ma man! […] mam… mam… Mar… gue… rite…» (Marguerite che poi, verrà fatto notare dalla critica, sarebbe il nome della madre dello stesso Céline).

«Una scena puramente psichica si sostituisce a quella concretamente storica, bellica», commenta scettico Pellini; il quale, richiamandosi ai modi del realismo céliniano (allucinato quanto si vorrà, ma pur sempre tale), e ridimensionate le letture psicoanalitiche sul desiderio regressivo all’origine del testo, dedica la prima parte del suo libro a una breve ma solida indagine attorno al nome della figura militare che (come da tradizione) si celerebbe dietro l’equivoca parola d’ordine di Casse-pipe.

La “chiave” proposta dall’autore è quella di Jean-Auguste Margueritte (con due t), comandante della divisione di cacciatori d’Africa immolatasi nel 1870 in una disastrosa carica di cavalleria sul campo di battaglia di Floing, menzionata dallo stesso Céline in un’intervista del 1939. Da qui, opportunamente, la ricognizione di Pellini procede attraverso una rilettura de La Débâcle (1892) di Zola, romanzo militare di enorme fortuna ai tempi di Céline, e che, del sacrificio di Margueritte, contiene la più nota trasfigurazione romanzesca, al tempo stesso offrendo «la più celebre e la più riuscita rappresentazione letteraria della guerra del 1870, cioè del diretto antefatto, per la coscienza nazionale francese, della Grande Guerra».

La seconda parte del volumetto si snoda allora tra analisi intertestuale e storia militare ottocentesca, schizzando via Zola, Hugo e Stendhal (ma con cammei anche di Proust e Freud) una piccola «antropologia romanzesca della guerra moderna», fondata come prevedibile – con la parziale eccezione di Zola – sul codice dell’onore e del pro patria mori. È infatti a partire da questa tradizione e dai suoi retaggi patriottardi (ma anche da un nutrito filone antimilitarista di fine ’800, su cui Pellini sorvola) che muoverà il Céline delle origini, marcando, con l’oltraggiosa sconfessione dell’eroismo napoleonico e delle sue “parole d’ordine”, una radicale discontinuità in termini di rappresentazione dell’esperienza e della retorica bellica rispetto al secolo precedente: «Questo vuol dire la parola d’ordine di Casse-pipe, “Margueritte”: sacrificio totale per l’onore, carica a perdere, inutile suicidio, gloriosa follia, morte sicura»…

Autentico cuore de La guerra al buio, più volte richiamato nel corso della trattazione, è appunto il ruolo di «trauma originario» che il primo conflitto mondiale rivestirebbe nell’arte céliniana, a partire dai primi capitoli del Voyage e passando per il frammento di Casse-pipe: un conflitto «al tempo stesso nel tempo e fuori dal tempo», consustanziale alla natura umana, destinato a fungere da «modello e termine di paragone di ogni crudeltà, di ogni sopraffazione» vissuta dalla controfigura céliniana nelle sue mille disavventure. Insomma: «il paradigma più esatto, e sempre valido, di un’antropologia segnata dalla tenebra».

Ma anche la tenebra di Céline, il suo nichilismo (come quel pessimismo che tutti, studiando Leopardi, abbiamo imparato a scandire pedissequamente in fasi distinte), conosce una sua evoluzione interna… E il libro di Pellini (almeno nei capitoli che ne costituiscono il corpo vero e proprio), per non inciampare nel “buco nero” dei pamphlets antisemiti, sceglie di tenersene distante, specie là dove delimita a suo oggetto di studio il Céline «che conta, quello di prima dei pamphlets».

Perché se è vero che il Céline pamphlettista è ancora, in fondo, il reduce traumatizzato del Voyage, fattosi cantore sproloquiante di un’altra catastrofe mondiale (da cui la maschera di profeta inascoltato e vittima espiatoria che, tornato in patria dopo l’esilio e il carcere danesi, sceglierà di calcare per il resto dei suoi giorni); è anche vero che l’abbandono di Casse-pipe per il complottismo antisemita delle Bagatelles denuncia (come ha notato Henri Godard, decano degli studi céliniani) l’abbandono di quel pacifismo antimilitarista che tanto aveva contribuito al successo dell’esordio, e insomma come la polemica contro l’istituzione militare e i suoi valori rappresenti soltanto un momento iniziale nel sistema ideologico di Céline: centrale nel Céline «di prima dei pamphlets», senz’altro, ma incapace di dar conto di un macrotesto che non finisce certo con Casse-pipe, e in cui gli intollerabili pamphlets, piaccia o meno, costituiscono un snodo decisivo, non solo strettamente ideologico (si pensi alla novità, per dirla con Godard, della «parola pamphlettistica», alla scoperta di quel genio polemico che poi, lontano dal taglio ancora naturalistico dei primi romanzi, approderà nelle ultime opere a una sofisticata complicazione dei piani narrativi, tra la proiezione del dottor Destouches scrivente e la controfigura tutta romanzesca e insieme “vissuta” di Céline).

Perciò se è indubbio che, come afferma Pellini, «il trauma della Grande Guerra sia il nucleo generativo sia della scrittura, sia dell’ideologia dell’autore del meraviglioso Voyage e delle infami Bagatelles», ecco che solo a partire da queste ultime, dal furore persecutorio che le infiamma, «Céline elabora quello stile sincopato, quel ritmo concitato e interiettivo, quell’accumulo di urlate e illogiche imprecazioni, che dominerà nei romanzi del secondo dopoguerra, trasformando la pagina in esploso romanzo di figurazioni espressioniste e deliranti j’accuse» (così si legge d’altra parte nella bella appendice finale, sui dolori del Giuseppe Guglielmi traduttore céliniano).

La «micidiale felicità espressiva» dei pamphlet di Céline, prodotto di una «lacerazione dell’io […] odiosamente sublimata», è destinata a restare a quanto pare l’autentico hic sunt leones della nostra riflessione sui tabù di quell’insieme di discorsi che continuiamo a definire letteratura. Comunque si vogliano “spiegare” i più beceri cliché agitati da Céline; comunque se ne vogliano interpretare i libelli (a proprio rischio e pericolo: immonda esternazione filonazista; parodia ispiratissima dell’antisemitismo “quello vero”; paradossale “modesta proposta” a svelare le latenze sanguinarie dell’animale sociale, dove l’Ebreo assurge a sconfinata metafora dei pericoli incarnati dall’Altro), il lettore di Céline, sprofondato in quel raccontare ossessivo e incantatorio passato alla storia sotto il nome quasi frivolo di petite musique, “deve pagare” (per citare un mantra dello stesso scrittore): accettare che la Letteratura possa spingersi a predicare (in questo caso, intonare) anche l’odio imperdonabile, restando – comunque? O anche per questo? – Letteratura.

Anche per questo, nonostante le tonnellate di onori critici ed editoriali riservatigli negli ultimi cinquant’anni, nonostante la pronta accoglienza nell’empireo dei giganti, L.-F. Céline non sarà mai un “classico”. Non diventerà mai “un nostro contemporaneo”, come non lo fu della borghesia francese a cui si rivolse con furia incendiaria prima, tragicomico vittimismo poi. I suoi libri, oggi come allora, non hanno granché da “insegnarci”, destinati come sono a finire nell’immenso magazzino del rimosso della nostra nevrotica civiltà. Resta almeno, la dolorosa (e commovente) arte di Céline, a monito della pulsione di morte che ha guidato le magnifiche sorti e distruttive dello scorso secolo (ben oltre il termine che lo scrittore, morto nel 1961, ha potuto narrare), e che c’è da credere continuerà a farci compagnia fino al crepuscolo ultimo.


Pierluigi Pellini, La guerra al buio. Céline e la tradizione del romanzo bellico. Macerata, Quodlibet, 2020, pp. 128, € 12.