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Sogni? Su “I poteri forti” di Giuseppe Zucco

giuseppe zucco i poteri forti

Cinque lunghe notti. Cinque sogni perturbanti e angosciosi. Cinque racconti che oscillano sul poroso confine tra sonno e veglia. Chiunque intenda fermarsi a questa prima interpretazione complessiva di I poteri forti di Giuseppe Zucco (NN Editore, 2021) è libero di farlo, e di conseguenza può tornare a dormire non metaforici sonni tranquilli. Altri, invece, potrebbero prendere in considerazione l’ipotesi, ben più fondata, che in I poteri forti il sogno sia soltanto un pretesto per parlare della realtà con maggiore esattezza. Chi assume infatti che la “realtà” sia “realistica” è vittima di un errore grossolano, perché estende a dismisura un concetto di comodo, un piccolo trucco con cui sbrighiamo le faccende di ogni giorno. Giuseppe Zucco, già autore di una raccolta di un’altra raccolta di racconti, Tutti i bambini (Egg, 2016), e di un romanzo, Il cuore è un cane senza nome (minimum fax, 2017), si premura di mettere in crisi quest’abitudine malsana e indaga le crepe di orrore e gli spiragli di luce che emergono incrinandone la superficie.

Certo, alcuni meccanismi tipici del sogno appaiono in tutte e cinque le storie: i personaggi non possiedono un nome proprio, il contesto spazio-temporale è sempre vago (il centro e la periferia di una metropoli, generici uffici amministrativi, la scuola e il lungomare di una città costiera), le situazioni più o meno paradossali si succedono a rotta di collo e spesso senza una logica apparente, a caso. Tuttavia, è proprio questo genere di caos ingovernabile, di continuo paradosso che, una volta rimosso il rassicurante filtro del “realismo”, domina ogni ritaglio del mondo e si configura come il primo dei poteri forti con cui dobbiamo fare i conti.

Così, in Giuditta, un marito che ha sempre desiderato tradire la moglie senza mai andare oltre lo sguardo, di notte la sente ridere di una risata orribile e sguaiata, il viso deformato in un’espressione d’odio. In La pietanza, invece, un delinquente in debito con un misterioso uomo sfregiato presidia un grande e sinistro palazzone ormai in rovina. Nelle cantine dell’edificio trova una giovane donna dalle lunghe gambe, sporca e denutrita. Il protagonista del racconto si commuove e inizia a procurarle del cibo. Quarant’anni si apre invece su un progetto di suicidio del tutto originale: nel giorno del suo compleanno, uno scapolo esce di casa elegantemente vestito e inizia a cercare il palazzo migliore da cui buttarsi. Progettare il suicidio è infatti la sola ragione che lo tiene in vita, almeno finché non incontra una donna vestita da sposa che ha esattamente il suo stesso obiettivo. Un ramo spaccato in due è invece il primo tatuaggio con cui un uomo sancisce sulla propria pelle la fine della vecchia vita e l’inizio di una nuova: un’altra città, un altro impiego, altre conoscenze. Proprio sul posto di lavoro incontra una collega che indossa sempre una pesante maschera di trucco. Tra i due si instaura una relazione tumultuosa ma sincera. Lui “annota” ogni avvenimento della nuova vita con un tatuaggio sulla pelle, fino a ricoprirsene del tutto.

Lasciamo per un attimo da parte l’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta. Giuseppe Zucco eccelle nell’arte di slabbrare i confini tra ciò che avvertiamo come “familiare” e ciò che invece ha dello “sconcertante”. Nulla a che fare con il realismo, insomma. Tutto in questi racconti è infatti reale, un reale esteso che ci mette difronte ai nostri peggiori incubi, al fallimento di vite grigie o addirittura sperperate, alle risate terribili che il caso si fa se appena getta un occhio di sotto, alle aspettative e ai progetti infranti, alla violenza manifesta e sotterranea, al “mostro” che si annida in noi e negli altri. Proprio i riferimenti laschi al “dove” e al “quando” anestetizzano i punti fermi garantiti dalle coordinate spazio-temporali e invertono le aspettative. Così, in La pietanza, sono i radi contorni di una città senza nome, o la fumosa vicenda umana dello “sfregiato”, a insinuare qualche dubbio sulla verisimiglianza della trama. La trasformazione della giovane donna in bestia enorme e affamata è invece descritta in maniera molto vivida e precisa, e tale operazione narrativa le permette di “avverarsi” insieme a tutto ciò che rappresenta: la schisi insanabile tra il costante bisogno di cure amorevoli e la sorda ingordigia che più stringe e più vuole. Qualcosa di molto reale, insomma.

Innegabile, poi, il tributo che Giuseppe Zucco paga (oltre che nei confronti di Anna Maria Ortese, Shirley Jackson, Emily Dickinson, tutte influenze dichiarate) nei confronti della grande narrativa breve di Tommaso Landolfi, padre e ispiratore di una parte, la migliore, della nuova letteratura nostrana. Difficile, infatti, non pensare allo scrittore di Pico quando è il caso a sconquassare l’esistenza dei personaggi senza nome di I poteri forti, a moltiplicarne sogni ed esperienze in un groviglio privo di scopo. Impossibile poi non notare altri landolfismi evidenti. Nel racconto Quarant’anni troviamo una grande villa lugubre e disabitata, difesa da una muta di cani, molto simile a quella che appare nel Racconto d’autunno. Nelle pagine precedenti, il protagonista ha un breve colloquio con una salamandra che inquieta i loschi avventori di un pub malfamato e strizza l’occhio alla famosa labrena. D’altra parte, proprio la trama di Quarant’anni è assimilabile per certi versi a quella di Stazioni morte, e non aggiungo altro per non guastare la lettura di una preziosissima gemma letteraria. Landolfiano fino al midollo è infine uno, se non il tema centrale dell’intera raccolta, ovvero quello del desiderio, dei moti di attrazione e repulsione fisica o psicologica che l’oggetto del desiderio suscita nel desiderante.

Prima di affrontare questo discorso, però, mi permetto un breve rilievo di natura stilistica. La lingua e la sintassi che Giuseppe Zucco utilizza in I poteri forti è un’ardita mescolanza di passato remoto verbale, rimembranze poetiche, toni onirici e fuochi d’artificio formali e retorici. Una miscela esplosiva di questa portata è estremamente complessa da dosare. Può infatti dar vita a periodi di bellezza plastica e di grande impatto emotivo:

Attraversando una strada, si piazzò in mezzo alle corsie. Arrestò la corsa delle macchine spalancando le braccia, e la sposa passò in un corridoio tutto suo sotto una volta di clacson. Fermandosi per bere a una fontana, lui la schizzò, la sposa restituì la cortesia. Ripresero a camminare mano nella mano, mentre il sole batteva su tutte le superfici, e ogni cosa sembrava guardarli con minuscoli occhi dorati. Ma a un incrocio, svoltando a sinistra, la città si fece più antica. (…) Solo allora lui pensò che fosse impossibile allontanarsi dal passato, e che il passato, con le sue oscure ragioni, seguitasse a perdurare. (Quarant’anni, p. 101.)

Ma può anche, purtroppo, frammentarsi in lacerti scomposti senza capo né coda, privi dell’elementare eufonia che caratterizza una frase ben scritta, oppure imprigionati nelle maglie di una similitudine infelice. Prendiamo da La pietanza:

(…) Ci doveva essere una scuola poco lontano. E una campanella sul punto di divenire un nido di bronzo da cui spiccavano il volo tanti uccellini d’argento. (p. 66.)

O da Giuditta:

E quando il caffelatte fumò, e il pane tostato fumò, e la marmellata si avverò come una colata lavica sotto una coltre di vapore, lui avvicinò sua moglie, le mise le mani sulle spalle e le baciò i capelli. (p. 17.)

È davvero un peccato imbattersi a volte in questi scivoloni, proprio per la notevole originalità tematica e la consapevolezza linguistica che Giuseppe Zucco possiede, e che dispiega nella stragrande maggioranza delle pagine che compongono I poteri forti. Proprio per questo, dispiace quando si impone di strafare e deraglia.

Ma torniamo al desiderio. I poteri forti è strutturato, a mio modo di vedere, come una scala che dal massimo grado di repulsione termina con la sublimazione del desiderio, con la fusione (rassicurante fino ad un certo punto) dei sempiterni complementari, amore e morte. In Giuditta, infatti, la paralisi è totale: il ménage matrimoniale si è ridotto a mera complicità, minata alla base dalla noia e dalle voglie frustrate che attanagliano il protagonista. Tuttavia, quando infine una collega a lungo vagheggiata gli si offre, l’orrore che il corpo di lei, non più giovane, gli ispira lo fa desistere. Nulla cambia, la moglie continuerà a sognare di staccare la testa al marito, come la Giuditta caravaggesca, così come lui sogna di tradirla senza mai muovere un passo.

In La pietanza, invece il piccolo malvivente nutre la giovane prigioniera e insieme il desiderio di lei. Il suo è tuttavia un desiderio subordinato alla propria “redenzione” personale e al sentimento di rivalsa nei confronti dello sfregiato. La situazione gli sfugge presto di mano, e il suo desiderio (cioè la ragazza/mostro) lo “inghiotte” letteralmente da capo a piedi, incapace di distinguerlo dal cibo che riceve.

In Quarant’anni facciamo ancora un passo avanti: la “sposa” salva indirettamente il protagonista da un mortifero amplesso con un’orrida prostituta e riesce a distoglierlo dal proposito del suicidio. Tuttavia, lui non riesce a fare altrettanto con lei. La “sposa” scompare sul cornicione del palazzo, e da quel momento, il protagonista smette di pianificare la propria morte e si mette a cercarla.

In Un ramo spaccato in due la coppia di colleghi vive invece una relazione vera e propria, e il protagonista riesce a “vedere oltre” la pesante maschera del trucco di lei, fino a rimuoverla del tutto. Tuttavia, un’altra maschera (i tatuaggi) lo ricopre d’inchiostro, e nuovo carburante alimenta la giostra di attrazione e repulsione, fino a confonderle del tutto, e forse irrimediabilmente, quando il viso della donna amata fa capolino nel groviglio nero che lei stessa gli impone di coprire per non incorrere nel sicuro licenziamento.

Arriviamo così all’ultimo gradino, al racconto I poteri forti. Due ragazzi fanno conoscenza tra le mura scolastiche. Il contesto del loro incontro è un’agghiacciante scena di follia collettiva:

Scendete giù, e di corsa, disse il bidello. La preside convocava tutti in aula magna. (…) Lui e i suoi compagni sciamarono nei corridoi. Presero le scale. Confluirono nel boato di centinaia di studenti che si accalcavano verso l’aula magna. (…) La preside disse al microfono che quello non era un giorno come gli altri. Ecco cosa stava accadendo poco lontano dalla costa della loro città. Il telegiornale ne stava dando notizia proprio in quel momento. Dall’elicottero, le telecamere riprendevano ogni cosa. (…) La preside disse che se la scuola era vera scuola doveva dare conto di quei fatti. E sul telone bianco continuarono ad avvicendarsi le mani tese di quella gente (…). (…) Le teste affondavano e poi riapparivano con le bocche divaricate. Braccia via via più isteriche mulinavano l’acqua. Due uomini lottavano a morsi contendendosi un giubbotto di salvataggio. Un neonato galleggiava con la schiena al sole e le braccine aperte. (pp. 142-143.)

Tutti osservano impietriti, le telecamere riprendono affamate di notizie, ma nessuno fa nulla per salvare i naufraghi. Però tutti devono vedere, una sorta di catarsi collettiva, buonismo e crudeltà si mescolano e si confondono una volta di più. Tuttavia, e di nuovo per puro caso(un caso piuttosto atroce), tra i due adolescenti scoppia un contrastato colpo di fulmine. La coppia infatti possiede, più sfumati, tutti i tratti caratteriali dei personaggi che li hanno preceduti. Così lui risulta costantemente insoddisfatto di sé, ritroso e insicuro, mentre la giovane bellezza di lei fa pendant con un’indole sfacciata e la predilezione per le scelte estreme: «Certo che la natura è stata più clemente con la gente in mare. Perché se non altro, morendo in quel modo, hanno provato di essere vivi» confida a lui nel corso del loro primo appuntamento.

La consueta lotta tra attrazione e repulsione si gioca così tra messaggi che arrivano e non arrivano, sogni erotici e angosce giovanili che prefigurano quelle dell’età adulta. Infine, i due si incontrano di nuovo, non entrano a scuola e raggiungono con un gruppo di altri studenti il lungomare. Ancora una volta, tra abbracci furtivi e improvvisi conati di vomito, lui è sul punto di abbandonare l’impresa.  Ma nelle ultime pagine, Giuseppe Zucco ricompone il cerchio. Tutti i poteri forti che soggiogano le nostre esistenze (il caso, il desiderio, l’abisso, la morte…) convogliano sul lungomare di una piccola città costiera per un finale à la Dylan Thomas, sospeso nella piccola speranza che, almeno per un istante, la morte (o la ferocia dell’esistenza) «non avrà più dominio»:

Stretti in un abbraccio, chiusero gli occhi, per capire se fosse tutto vero. (…) Per questo non videro quanto capitò intorno il cielo si illividì e poi si arrossò di colpo. E il vento si quietò, il mare si quietò, l’acqua divenne una pellicola tesa e trasparente. Delle teste emersero l’una dopo l’altra dal mare. A quelle teste seguirono spalle, toraci, gambe. La spiaggia fu lentamente invasa da un numero orribile di corpi marci e gonfi d’acqua. (…) E quando gli annegati accerchiarono i ragazzi e li sollevarono da terra con mani viscide e nerastre, lui e lei provarono quella vertigine, come se baciarsi fosse librarsi in aria senza più gravità. (…) Fu così che nel ventre scuro del mare le mani, le labbra, le lingue dei due ragazzi e il loro corpo intero divennero tanti pesciolini. Fu così che gli annegati tornarono di nuovo in vita sentendo i loro corpi marciti e sbrindellati diventare tanti pesciolini. (…) Nessuno seppe mai cosa fu dei due ragazzi, né i pescatori raccolsero più i corpi marci degli annegati quando tirarono le reti in barca. Ma su una terra completamente riarsa di cui nessuno aveva cognizione (…) un ragazzo e una ragazza dal viso sconosciuto godettero dell’ombra profonda degli alberi intrecciati quando le loro labbra tutte tremanti s’incontrarono per la prima volta. (pp. 165-166)


Giuseppe Zucco, I poteri forti, NNE 2021, pp. 176, € 17.