Se è vero che la letteratura nasce essenzialmente come un’occasione d’incontro e di dialogo tra i vivi e i morti, nell’ultima fatica di Giuseppe Culicchia questo assioma trova la sua più dolorosa, drammatica evidenza, che deflagra in una narrazione ibrida e di difficile (quanto inutile) classificazione.
Un po’ epistola un po’ memoriale, un po’ album di famiglia (corredato dalle foto d’epoca) e un po’ cronistoria dell’Italia contemporanea, Il tempo di vivere con te (Mondadori) crea un interregno narrativo che è soprattutto il tentativo da parte dell’autore di ricucire definitivamente le lacerazioni del proprio vissuto familiare con quelle della Storia recente (politica, culturale, di costume) del nostro Paese, attraverso il filo di una memoria personale silenziata per oltre quarant’anni.
Un libro che è anche un piccolo colpo di scena, grazie al quale veniamo a scoprire che l’autore era il cugino di primo grado di Walter Alasia, giovanissimo membro delle Brigate Rosse ucciso in uno scontro a fuoco (in cui perirono anche il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani) presso la sua abitazione di Sesto San Giovanni nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1976 all’età di vent’anni; e che darà, purtroppo, il nome a una colonna brigatista (sebbene smarcata dall’organizzazione centrale) colpevole di diversi omicidi e gambizzazioni a cavallo della fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, tra cui quella più celebre di Indro Montanelli.
Tra Culicchia e Alasia c’erano nove anni di differenza: un abisso anagrafico in età puberale, ma anche una straordinaria somiglianza fisica (ben evidenziata nella foto in quarta di copertina). Infatti per il piccolo ‘Beppe’ Walter era ben più di un cugino, era «Il fratello maggiore che non ho mai avuto», come ammette l’io narrante. E, in quanto tale, idealizzato e fatto oggetto di quell’amore smodato e assoluto, al limite della venerazione e della mitizzazione, che si può provare soltanto durante l’infanzia, e in questa forma si è sedimentato e cristallizzato per sempre nelle profondità emotive dell’autore.
«Bello come un giglio tra i rovi», Walter era capace di provocare nel cuginetto «una felicità lancinante» durante le estati trascorse insieme nelle campagne della provincia di Torino, tra Grosso e Nole, dove viveva la famiglia Culicchia e dove Walter, ragazzo generoso e burlone e amato da tutti («perché non amarti era impossibile») si concedeva in toto ai pressanti capricci ludici del piccolo Beppe («che quando ti vede non ti molla un attimo») senza mai risparmiarsi o manifestare i minimi moti di insofferenza.
In queste parentesi totalizzanti, di solarità ed entusiasmo giovanili, rievocate da Culicchia con quella toccante semplicità che non indulge in facili sentimentalismi, emerge anche un piccolo e prezioso ‘ritratto del brigatista da giovane’, cresciuto, non dimentichiamolo, in una famiglia operaia e comunista degli anni Settanta nel cuore di quella che all’epoca veniva definita la ‘Stalingrado d’Italia’, ovvero Sesto San Giovanni. Un giovane allergico alle ingiustizie sociali, Walter, in cui il germe del suo destino si intravvedeva già nel rifiuto di parteggiare per le Giubbe Rosse o per il generale Custer quando i cugini giocavano agli indiani, in quanto, a suo dire, «bruttissimi» e «assassini al soldo del governo americano». Per non parlare delle sparatorie inscenate tra i due che, lette con il senno di poi, danno letteralmente i brividi.
In queste pagine commosse il lettore gioisce e soffre insieme al piccolo Beppe della presenza e poi della dipartita del cugino-eroe Walter, quando dovrà far ritorno alla brutale realtà metropolitana così distante dal mondo provinciale dell’autore, in cui il futuro ‘terrorista’ si formerà politicamente e ideologicamente, bombardato dagli stimoli politici e culturali dell’epoca e da cui Giuseppe/Beppe sarà escluso.
E qui s’innesta la seconda parte: un meticoloso vademecum di tutti (o quasi) gli episodi di violenza politica della prima parte dei cosiddetti Anni di Piombo, a partire dalla strage milanese di Piazza Fontana e dalla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli (12-14 dicembre 1969), che di quegli anni tragici furono la vera miccia che fece esplodere l’Italia per più di un decennio. Una sorta di imprescindibile ‘ripasso’ che, integrato da una sommaria ricostruzione del variegato quadro culturale dell’epoca, ha come obiettivo la rievocazione, mai abbastanza ribadita (e che accosterei ad alcuni saggi fondamentali sullo stesso argomento come Le ragioni di un decennio di Giovanni De Luna – Feltrinelli – La zona grigia di Massimiliano Griner – Chiarelettere – ma anche al lavoro di scavo storico di Benedetta Tobagi e al recente esordio di Marta Barone Città sommersa – Bompiani) del contesto, italiano e internazionale, in cui affondano le radici e le illusioni scellerate della lotta armata, oggi incomprensibili ai più.
E forse è proprio questo il nucleo traumatico del libro: l’incapacità di capire le motivazioni che hanno trasformato un ragazzo come Walter (e come tanti altri suoi coetanei), che per l’autore era «sinonimo di felicità», in un assassino, in un «mostro» come lo chiamavano i giornali coevi. E forse è proprio questo il mistero più grande di quegli anni, al di là delle trame segrete di Stato, che ormai più tanto segrete non sono. «Che cos’hai fatto, Walter?» si chiede ancora Culicchia dopo quarant’anni, immagino, di sofferte riflessioni. «Che cosa hai fatto alla tua famiglia e alle famiglie delle tue vittime?»
Infine nella terza, inevitabile parte del libro l’autore affronta di petto, e con un impeccabile piglio da giornalista di (contro)inchiesta, la sparatoria di quella funesta notte di dicembre del ’76, con tanto di rilettura dei documenti, testimonianze dei presenti e articoli di giornali ormai estinti come Lotta Continua). E lo fa alzando l’asticella del dolore e della fatica mnemonica, in una sfida postuma con la Storia che non fa sconti, neanche alle indagini abborracciate e opache che hanno sbrigativamente archiviato il caso Alasia, nel più classico e grottesco canovaccio delle indagini deviate all’italiana.
In realtà, ci sarebbe anche una quarta parte: ma è ancora da scrivere. Sotto forma di pagina bianca, Culicchia, dopo aver compilato minuziosamente un elenco delle vittime delle Brigate Rosse (direttamente scaricato da Wikipedia) si premura di segnalare l’assenza di un elenco speculare, quello dei brigatisti morti per mano delle forze dell’ordine, che su Wikipedia non si trova. E chissà che, da questo vuoto, possa nascere un nuovo filone narrativo… Noi lo auspichiamo.
Si conclude, così, questa struggente ‘lettera a un cugino mai morto’, la prima storia che Culicchia avrebbe voluto raccontare e in virtù della quale ha iniziato a scrivere, che ha la potenza sorgiva delle parole troppo a lungo trattenute e che contiene, in filigrana, il disperato tentativo di offrire una soluzione a quel grande enigma, non soltanto politico, che furono gli anni Settanta. Nella speranza che tanti altri romanzieri ne raccolgano il testimone e continuino il percorso di rilettura critica di quel periodo.
Una curiosità: ora sappiamo anche il motivo per cui il protagonista del suo celeberrimo romanzo d’esordio Tutti giù per terra (1994) si chiamava Walter.
E il conto è finalmente chiuso.
Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te, 2021, Mondadori, pp. 168, €17.