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This station is non-operational: “Il silenzio” di Don DeLillo

All’inizio della pandemia, a fronte di milioni di persone rinchiuse in casa, si è temuto un sovraccarico senza precedenti delle reti digitali. Smart working, gaming, didattica a distanza, video in HD ripresi dai balconi e caricati sui social, serie tv, videochiamate WhatsApp, transazioni online, servizi telematici: praticamente ogni attività in quel periodo è passata attraverso internet, tanto che già nel mese di marzo hanno cominciato a registrarsi i primi (sporadici) rallentamenti della rete che hanno sollevato numerosi interrogativi a proposito di una possibile ostruzione dell’infrastruttura digitale.

Internet, tuttavia, ha retto – il suo funzionamento non dipende dalle singole macchine e la rete, si potrebbe dire con Timothy Morton, è un iperoggetto: non-locale, viscoso, interoggettivo. Ad ogni modo, per qualche settimana, governi e infrastrutture digitali sono dovute correre ai ripari per rinforzare la rete scongiurando il tilt dei server sparsi in tutto il mondo. E una domanda ha cominciato a farsi strada, soprattutto tra i non addetti ai lavori: cosa sarebbe potuto succedere se all’improvviso si fosse verificato un collasso informatico?

Il silenzio (Einaudi, 2021) è l’ultimo visionario esperimento letterario di Don DeLillo, che con questo romanzo decide di spegnere la tecnologia e «vedere (di nascosto) l’effetto che fa». Siamo nel 2022, e Jim Kripps e Tessa Berens sono in volo da Parigi a New York, dove dovrebbero atterrare in tempo per raggiungere una coppia di amici che li aspetta per vedere la finale del Super Bowl

Max Stener e Diane Lucas, un appassionato di football e un’insegnante di fisica in pensione, siedono invece davanti alla televisione in compagnia dell’eccentrico Martin Dekker, un ex allievo di Diane. Ad un tratto accade l’imprevedibile: sull’aereo e nell’appartamento dell’East Side (e in tutta New York? In tutto il mondo? Difficile saperlo) gli schermi diventano neri, la tecnologia sparisce, è il buio sugli smartphone, sulle tv, sui computer.

«Max controllò il cellulare, lo stesso fece Diane con il suo. Morto. Diane andò all’altro capo della stanza, dove c’era il telefono di casa, il fisso, un cimelio sentimentale. Nessun segnale. Il computer portatile: privo di vita. Andò nella stanza accanto, toccò vari elementi del computer fisso, ma il monitor restava grigio».

A partire da questo momento, il lettore-voyeur attratto da tragedie e catastrofi post-apocalittiche potrebbe rimanere deluso: nessuna comunità isolata in lotta per la sopravvivenza, niente disastri sociali o guerre planetarie. Del collasso tecnologico ne Il silenzio non si dice molto, né delle cause che l’hanno provocato né del suo impatto sulla società, perché non è questo a interessare DeLillo. 

È emblematico, in questo senso, il poco spazio che l’autore dedica alla manifestazione dell’evento: a bordo dell’aereo – «a quel punto ci fu una botta pazzesca, dal basso. Lo schermo diventò nero» – e nell’abitazione di Max e Diane – «a quel punto successe qualcosa. Le immagini cominciarono a tremolare […]. E poi a un certo punto lo schermo diventò nero». 

Piuttosto, aggirando il topos distopico dell’implosione sociale provocata dalla catastrofe tecnologica, la narrazione si concentra sui cinque personaggi e le loro interazioni, inaugurando una riflessione attorno allo scarto cognitivo tra l’individuo e la realtà creatosi dopo il blackout che di fatto prosegue nel solco di un percorso tracciato già da tempo dallo scrittore. 

La domanda che DeLillo si pone qui sembra coincidere con quella pronunciata da Max nella prima parte del romanzo, dopo aver scoperto che la tecnologia si è spenta: «pensa ai diversi milioni di schermi neri. Cerca di immaginare i telefoni fuori uso. Che cosa succede alle persone che vivono dentro il loro telefono?».

DeLillo non ha mai smesso di ricordarci attraverso i suoi personaggi che la nostra percezione della realtà è costantemente mediata dalla tecnologia e che a ben vedere la realtà stessa, nascosta e soffocata da questo filtro, potrebbe non essere quella che crediamo. 

È dai tempi di Americana (1971) che i suoi romanzi esplorano la relazione tra identità americana e mediascapeRumore bianco (1985), in particolare, descriveva un mondo completamente pervaso da una comunicazione mediatica esasperante, organizzato prevalentemente attorno al medium televisivo (erano gli anni Ottanta, erano gli USA di Ronald Reagan). 

Come diretta conseguenza di questa esposizione, la percezione della realtà da parte dei personaggi era sempre più regolata dalle rappresentazioni assorbite attraverso i mezzi tecnologici adibiti alla loro diffusione: uno scenario che in qualche modo problematizzava sul piano letterario le teorie radicali di Jean Baudrillard a proposito dei simulacri e del problema ontologico che cominciava a incrinare la percezione del mondo, per cui le immagini (i significanti) finivano per sostituire l’esperienza diretta della realtà (il significato). 

Le immagini assorbivano la realtà. Anzi, diventavano più reali della realtà che cancellavano, e la loro proliferazione incontrollata plasmava la vita, i comportamenti e le aspettative dei personaggi: se la loro quotidianità era strutturata attorno alla fruizione delle rappresentazioni, la comprensione della realtà, trasformata e resa fragile dalla sua penetrazione ad opera delle immagini, diventava altrettanto problematica. 

L’aspetto disturbante al fondo della narrazione di Rumore bianco era legato proprio a questa saturazione della coscienzadei personaggi, che nel romanzo “venivano parlati” a tal punto dalle immagini, dall’informazione mediatica, dal virtuale, che il lettore era autorizzato a chiedersi se questi personaggi, in fondo, possedessero ancora coscienze indipendenti, autonome.

A distanza di più di trent’anni da Rumore biancoIl silenzio sembra riprendere, osservandolo da una diversa angolazione, lo stesso tema, come dimostra chiaramente anche il titolo. 

Se tecnicamente il rumore bianco indica infatti un suono costante e omogeneo, un brusio di fondo senza picchi di frequenza (che nel romanzo di DeLillo alludeva alla saturazione sonora della società americana intasata dal surplus di dati e informazioni diffusi dai media), Il silenzio presuppone invece il suo contrario: la tecnologia si spegne, niente più chiacchiericcio di fondo, né fonti di disturbo e distrazione, solo schermi neri e, appunto, silenzio, fine delle comunicazioni.

Nella prima scena del romanzo troviamo Jim a bordo dell’aereo impegnato a leggere i dati riportati sullo schermo in maniera compulsiva: «Altitudine, temperatura esterna, velocità, ora di arrivo […] il flusso di parole e numeri era incessante». Jim, ossessionato da queste informazioni, si qualifica subito come un personaggio delilliano, isolato come una monade e impegnato a interpretare e a conferire senso al mondo grazie alla tecnologia, senza la quale sembrerebbe incapace di trovare una propria dimensione. 

Così l’atto di ripetere ad alta voce numeri e dati – «Distanza destinazione milleseicentouno miglia. Ora a Londra diciotto e quattro. Velocità quattrocentosessantacinque miglia all’ora. Leggo tutto quello che compare sullo schermo. Durée du vol tre ore e quarantacinque minuti» – non può che rappresentare per Jim «la lettura udibile […] del dove e del quando» della sua esistenza in quel preciso momento. 

Tuttavia, ed è qui che si può rinvenire la prerogativa del romanzo, questo approccio al mondo viene ribadito anche in seguito allo spegnimento della tecnologia, se è possibile in maniera ancora più lampante, come dimostra evidentemente il caso di Max. Il blackout che costringe Jim e Tessa a un atterraggio di fortuna avviene nello stesso momento in cui la televisione di Max sta proiettando l’ingresso in campo delle due squadre di football: nessuno riuscirà a vedere l’incontro di Super Bowl, anche se l’uomo, fissando lo schermo nero, decide ad un tratto di simulare la telecronaca dell’incontro (pubblicità compresa), come se il linguaggio emergesse direttamente dalle telecronache presenti nel suo inconscio

Poco importa se il Super Bowl, nella realtà, stia avendo luogo o meno (la partita è mai cominciata? Si starà giocando ancora?): il distacco tra individuo e mondo è segnato, Max può tranquillamente proseguire con il suo sproloquio, mentre l’evento sportivo si dissolve in un indefinito spazio-tempo avulso dalla dimensione del personaggio. 

Scomparsa la tecnologia, Max continua a comportarsi come se questa fosse ancora al suo posto, rimanendo in una condizione sfasata rispetto alla realtà, chiuso nel proprio io, dove il discorso mediatico è rimasto impresso a tal puntoche il meccanismo continua a operare anche se lo schermo resta irrimediabilmente spento. Del resto, come si chiede Martin, se «tutti gli schermi, ovunque, si sono svuotati, [che] cosa ci resta da vedere, da sentire, da provare?».

La confusione di Max caratterizza in realtà tutti i personaggi, e si palesa soprattutto in quello che dovrebbe essere il nuovo territorio in cui riguadagnare la propria identità, dopo la scomparsa della tecnologia: quello del linguaggio

Sopravvissuti all’atterraggio di emergenza, Jim e Tessa raggiungono Max, Diane e Martin, e la stanza in cui si raccolgono diventa il palcoscenico su cui si svolge, di fronte allo schermo nero della televisione, la seconda parte del romanzo. È il momento dei monologhi surreali dei personaggi, completamente disarticolati rispetto a una realtà che fuori dalla stanza continua ad esistere, ma in maniera a loro incomprensibile

Nella stanza vengono avanzate alcune deboli ipotesi sul collasso tecnologico, ma sembra in realtà che tutti, a turno, si esprimano con il solo scopo di dire delle cose a caso, senza comunicare veramente tra loro: Diane «decide di dire qualcosa, pur non avendo la minima idea di ciò che potrebbe uscirle di bocca», e finisce per citare «una frase a caso» del Finnegans Wake di Joyce: «prima che il sockson luccasse le dure». 

Martin, «un uomo perso nello studio compulsivo del manoscritto di Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale», è in preda a deliri sconclusionati sulla fisica quantistica e su teorie del complotto. Jim cerca di ricordare l’incidente aereo e Tessa parla del suo diario, «una cosa che non ha alcuna importanza per nessuno» se non per lei, mentre Max, l’unico ad essersi infilato la giacca ed essere uscito per vedere cosa succede fuori, dice che è meglio non sapere e preferisce raccontare agli altri degli scalini che ha affrontato dall’ingresso del palazzo fino al pianerottolo di casa.

Ora che sono qui non sento di dovermi scusare per questa lunga sciocca descrizione di me che salgo otto piani di scale perché la situazione contingente ci dice che non c’è altro da dire se non quello che ci viene in mente, perché tanto alla fine nessuno di noi ne conserverà memoria.

Il silenzio del titolo, a un livello più profondo, sembra così configurarsi anche e soprattutto come il corrispettivo sonoro dello smarrimento dei personaggi, precipitati progressivamente in una condizione di reciproca impossibilità comunicativa, un’afasia metaforica cui corrisponde il loro disorientamento cognitivo (Diane, seduta nella stanza insieme agli altri: «è una di quelle situazioni in cui bisogna pensare a quello che vogliamo dire prima di dirlo?»). 

Perché il silenzio non è solo ciò che rimane quando la tecnologia scompare, ma è forse anche quella tremenda forma di incomunicabilità che esplode nella seconda parte del romanzo e che si addensa negli spazi tra i personaggi, nonostante i loro scoordinati tentativi di esprimere qualcosa, manifestare un bisogno, gettare le basi per una forma di comunicazione libera dagli schermi della tecnologia. 

Il mondo de Il silenzio si riduce così alle dimensioni della stanza, in cui «nessuno va alla finestra per guardare fuori»; i personaggi si comportano come se la tecnologia fosse ancora lì con loro, anche se la sua sparizione finisce per mettere ancora più a nudo la problematica cognitiva dell’individuo assuefatto al filtro tecnologico. 

Lo spaesamento dei personaggi è totale e l’abitudine ad interfacciarsi con lo schermo troppo radicata: chiedendosi se il sole sorgerà ancora, o se siano in corso «guerre di droni», non riescono a realizzare che il mondo, fuori dalla stanza, esiste ancora. Che avendo delegato a supporti esterni un pezzo della loro mente, come vuole la teoria della mente estesa di Andy Clark e David Chalmers, dopo il collasso tecnologico è come se parte della memoria e della conoscenza dei personaggi fosse stata raschiata dal loro cervello.

Un gruppo di persone bloccate in una stanza. Solo che noi non siamo bloccati. Possiamo andarcene quando ci pare. […] Chissà come mai sono così restia ad alzarmi, ad andare alla finestra e, semplicemente, a guardare fuori? Tutto quello che sta accadendo non era in fondo scontato? Non è quello che alcuni di noi stanno pensando? Era la nostra meta. Niente più meraviglia, niente più curiosità. Il senso dell’orientamento gravemente compromesso. Un eccesso di cose generato da un codice sorgente troppo limitato.


Don DeLillo, Il silenzio, Torino, Einaudi, 2021, 112 pp., €14.