Se ancora resta qualcosa della vecchia editoria di progetto, certamente va cercato tra gli editori indipendenti. E dirò di più: guardate a Firenze, dove la piccola ma combattiva Effequ da ormai diversi anni si distingue per una collana culturalmente impegnata, con uno sguardo attentissimo al mondo contemporaneo e ai suoi macrodiscorsi. Tra i Saggi Pop di recente pubblicazione voglio ricordare, per esempio, Femminili Singolari della linguista Vera Gheno, in cui si ragiona su lingua e sessismo, con un’analisi molto approfondita delle reazioni registrate sui social in relazione al femminile dei nomi professionali. A partire da questo saggio, la riflessione sul rapporto tra questione di genere e scrittura è diventata per la piccola casa editrice fiorentina un punto centrale della politica editoriale, portando alla decisione di introdurre lo Schwa (ə) per marcare le forme non binarie nei volumi di tutto il catalogo. Una decisione culturalmente rivoluzionaria che concretizza un bagaglio di teorie e posizioni molto chiare su identità di genere e normativismo.
Canone ambiguo di Luca Starita è un’altra pubblicazione, come quella di Gheno, che va ad inserirsi nel progetto di militanza culturale della casa editrice. In questo saggio l’autore rivendica l’esistenza di una letteratura queer italiana schiacciata da un canone calcificatosi su posizioni normativiste: storie di uomini e donne, espressioni di virilità o femminilità, nei confronti delle quali tutti gli altri personaggi “non inquadrati” vengono marginalizzati o interpretati parzialmente, quando non esclusi. Queer è il contrario di straight, che significa “dritto”, qualcosa che gioca secondo le regole. Non è sinonimo di omosessuale, ma è l’assoluto rifiuto di una definizione mossa tra i due poli di femminilità e virilità, dati come i soli possibili. Nel saggio di Starita il queer è non solo oggetto di studio applicato alla letteratura italiana, ma diventa anche strumento espressivo, andando a giocare con le regole stesse del genere letterario, trasformandosi qui e là in racconto, in rappresentazione, in qualcosa di inafferrabile; il testo, più o meno consapevolmente, va a collocarsi sul tracciato di una nuova tendenza accademica che sfonda le strutture del saggio con elementi di autobiografismo (recita l’incipit: «Mai mi sarei aspettato di essere gay e tuttora non sono poi così convinto di esserlo fino in fondo»).
Il libro è un vero e proprio viaggio nella letteratura queer italiana contemporanea. Viaggio neanche troppo metaforico, dato che l’autore rappresenta se stesso come un giovane Dante che percorre, guidato da Pier Vittorio Tondelli, una serie di stanze popolate da personaggi e autori, ciascuno pronto a uscire dal silenzio per raccontare la sua storia. Prima di addentrarsi in questa selva di anime letterarie, Starita presenta con grande chiarezza al lettore i propri strumenti: appoggiandosi alle teorie di Judith Butler e Michael Foucault e agli scritti di Mario Mieli, critica quella matrice educativa che porta i bambini a crescere con l’idea che «solo la via dell’eterosessualità e della netta distinzione tra i sessi sia quella giusta». Il principio da cui si muove il canone ambiguo è esattamente questo: che i valori su cui il canone tradizionale si costruisce sono, a loro volta, una costruzione. Ci sono tantissime altre strade oltre a quella tracciata dai valori normativi: tra queste, un racconto dell’identità che non si sottometta a ruoli sociali prestabiliti e distribuiti in base al genere.
Dopo gli strumenti, il metodo, che risulta essere altrettanto queer quanto le teorie a cui si ispira: quello di presentare in forma di monologo in prima persona i protagonisti letterari di questo nuovo canone. Fare in modo che siano loro a parlare, senza incorrere nel rischio di lasciarsi influenzare dalla vulgata critica prodotta in ambito ufficiale: «La teoria queer fa parlare l’interno, con il tentativo di dare voce a quel nucleo profondo che forma la coscienza umana nella sua unicità e di presentarla nella sua forma più pura, senza impalcature intellettuali o teorie secolari». L’operazione di Starita è in parte finzionale, mettendo in scena una serie di discussioni corali tra i personaggi evocati immaginandoli interagire tra loro; in parte si presenta come sapiente operazione di montaggio, perché questi protagonisti restano fedeli alla parafrasi di se stessi e delle opere a cui appartengono.
Nella prima parte di quella che viene indicata come “catabasi”, una discesa profonda nel cuore della letteratura italiana più ambigua, Starita immagina di incontrare personaggi femminili che hanno vissuto la propria identità di genere come una gabbia. Dalla Giannetta di Marino Moretti alla Contessa Maria di Palazzeschi, passando per la Bella di Lodi di Arbasino e le Splash di Tondelli, questi personaggi gridano, si ribellano, confessano la frustrazione nata dalla menzogna e dalla costrizione del proprio ruolo di donna. Tondelli concede e toglie la parola, guida lo sguardo del critico che riprende in mano le redini del commento solo dopo che queste voci si sono confessate. Qui il saggio diventa più convenzionale: dopo i monologhi Starita passa in rassegna le opere citate, contestualizzando gli autori che poco prima si erano presentati in modo caotico e spettacolare.
La stessa struttura (messinscena e analisi) procede negli “episodi” successivi, dove si incontrano rispettivamente figure di omosessuali “tendenti alla normalizzazione”; quelle di uomini a cui la virilità è stato un abito imposto con violenza; e infine un gruppo di scrittrici collocate ai margini del canone ufficiale. L’organizzazione delle sezioni in base al genere dei personaggi/autori, viene usata molto bene dall’autore per dimostrare quanto all’interno di uno stesso genere le narrazioni dell’identità possano essere molteplici e inafferrabili. Piuttosto, un aspetto problematico ricorre in alcune parti della “messinscena”, quando voci di autori e personaggi si confondono senza un distanziamento critico preciso.
Negli episodi iniziali il lettore ha assistito alla trasformazione di Tondelli nelle Splash del racconto Mimi e Istrioni, lo ha sentito parlare attraverso le parole di Leo di Camere Separate, mentre Elsa Morante è diventata Wilhelm Gerace, padre del protagonista adolescente de L’isola di Arturo. Similmente, nell’ultimo episodio, le parole autobiografiche di Sibilla Aleramo parafrasate dal romanzo Una donna si intrecciano a quelle di Natalia Ginzburg e Alba De Cespedes, che invece citano opere come È stato così e Dalla parte di lei, testi di finzione le cui protagoniste vengono un po’ forzatamente sovrapposte alle due autrici.
Nonostante tutto, il valore di un saggio come Canone Ambiguo s’impone nella fruibilità della scrittura e nei suoi intenti divulgativi, restando in equilibrio tra l’intrattenimento e l’informazione. Sarebbe errato pretendere da questo libro un eccessivo rigore accademico, quando proprio nell’ambiguità trova la sua ragione d’essere.
Starita attraversa le pagine di Arbasino, Comisso, Gadda, Bassani e tanti altri autori che sgusciano tra gli spazi meno illuminati della letteratura italiana, ribellandosi alla forma. Non a caso la scelta di Tondelli come guida: un autore che di forme ne ha cambiate tante, sia dal punto di vista dello stile che del genere letterario nel tentativo di raccontare l’identità oltre i confini tracciati dalla normatività. Un saggio come Canone ambiguo invita alla riflessione con una serie di spunti teorici e letterari, suggerendo con delicatezza possibili modi di pensare al racconto dell’identità, e anche, forse in primo luogo, a noi stessi.
Luca Starita, Canone ambiguo. Della letteratura queer italiana, Firenze, Effequ (Saggi Pop), 2021, pp. 224, €16.