È il 1990 quando Michele Sovente pubblica la raccolta-poemetto Per specula aenigmatis che lo espone, dopo due prime raccolte passate più in sordina,[1] all’attenzione della critica.[2] Certo la caratteristica più evidente di Sovente è l’utilizzo del latino, ma a ben vedere non si tratta dell’unica peculiarità che lo distingue da molte tendenze poetiche coeve. Si osservino per esempio questi versi estrapolati da una delle prime poesie della raccolta:
Egomet vates Sovente saepultam mei linguam
aliamque personam in huiusce sphaerae subluce
inquirens glaciali facunde, silvae, vos cano
in subsilvarum aenigmate iamdudum exstinctas.
Ego scurra suavis. […].[3]
Questo è solo un esempio lapalissiano di una caratteristica dell’intero Per specula aenigmatis: una diffusa ed evidente presenza del soggetto poetico nel testo. Non c’è quindi alcuna emarginazione grammaticale dell’io; questi non si nasconde, anzi, all’opposto, si mostra con una certezza e un nitore quasi inconsueti nella poesia italiana di fine secolo. Non bisogna però farsi trarre in inganno dalla parola vate che, ben lungi da posizioni romantiche o dannunziane, è un termine da intendersi nella sua originale accezione latina-medievale quando l’appellativo poeta-vates veniva attribuito a poeti classici come Omero, Virgilio, Orazio e, soprattutto, Lucrezio, autore molto caro a Sovente. Erano i poeti divinamente ispirati, quando non profetici, in grado di proporsi come guida della comunità.
È possibile che tale idea di poesia come furor poetico (non certo unica, ma altresì non così consueta nel secondo Novecento) Sovente l’abbia ereditata da un autore da lui apprezzatissimo[4] come Bartolo Cattafi il quale «specialmente a partire da L’aria secca del fuoco, tende a prediligere le forme brevi e discontinue, le epifanie inaspettate e abbaglianti, che riflettono più fedelmente i lampi intermittenti dell’ispirazione».[5]
Un poeta divinamente ispirato è anche il Sovente di Cumae, raccolta del 1998 che ha definitivamente consegnato il flegreo all’apprezzamento della critica. Ciò emerge sin dalla coppia (in latino e in italiano) di poesie proemiali dove «il pensiero» è solo il mezzo attraverso il quale «parlano i ruderi oscuri della storia»:
Dalle remote larve della terra
dalle anguste-alte ombre
la fatica schizza del tempo
e la linfa cupa del vivere
tra erosioni e deflagrazioni
si evolvono forme verso
la morte il silenzio
ma il moto elettrizza squame di luce
per le cavità e polverizza etere e nubi fino
al delta del pensiero e dell’orizzonte
(d’improvviso spalanca la geometria
ai fantasmi futuri la via
e l’alto e il basso abitano lo stesso piano)
e si addensa vieppiù nei giorni la scrittura
che cattura le meteore del passato:
sotto il sole – lassù – a perdifiato
parlano i ruderi oscuri della storia.[6]
Anche in questa raccolta, infatti, l’io poetico si mostra senza remore in scena e, anzi, evidenzia questa sua presenza con un uso talvolta reiterato del pronome “io”, ma non per questo bisogna credere che sia un io solipsistico, tutt’altro: il poeta è il mezzo attraverso cui parlano le voci, i fantasmi, i ruderi della Storia. Non importa, insomma, che questo io sia il Michele Sovente che vive «A Cappella, in via Petrara»,[7] perché la sua «ombra è da principio un nome soltanto».[8] La voce lascia il posto, tramite epifanie e visioni, ai territori fantasmatici in cui compaiono personaggi a metà tra storia e mito come Ulisse e le Driadi, o anche divinità come Proserpina, Demetra e Venere.
Quello di Sovente, infatti, non è né un discorso privato, né personale, né riservato, perché nulla del contingente è realmente importante se non inserito nella vastità del reale: «il radicamento alla storia e alla geografia locale diventa la chiave di volta per parlare dei grandi temi della storia e del continuo ritornare ed evolversi di tutte le cose».[9]
Per chiarire quest’ultimo passaggio si può prendere in considerazione l’ultima terzina di Di sbieco:
L’occhio strabico strazia
piumaggi e fossili. Si vive
si scrive di sbieco.[10]
È interessante approfondire che cosa intenda Sovente con questo particolare punto di vista, cioè “di sbieco”, che caratterizza la sua poesia. Sono almeno due le considerazioni affrontate dal poeta che chiariscono il punto. La prima è una fondamentale compresenza di passato e presente sul piano dell’enunciazione: nella pagina si ritrovano sullo stesso piano temporale-enunciativo eventi e personaggi distanti secoli, perché è grazie al suo sguardo di sbieco che l’io riesce a dare profondità cronologica al mondo e percepirne il perpetuo e tellurico moto. Lungi da un appiattimento sul presente, la storia, per Sovente, è nel presente, prende cioè possesso della scena non dissimilmente dall’empirico attuale. Il punto di vista di sbieco sarebbe, dunque, “un occhio strabico” perché rivolto sia al passato che al presente: «non c’è alto e basso, ma solo compresenza costante di tutti gli esseri, non c’è spazio e tempo, ma annullamento dei confini razionali per far posto a sembianze evanescenti, ai brusii, alle voci sotterranee. È probabile che il poeta campano sia debitore a un grande della sua terra, il nolano Giordano Bruno, per questa sua filosofica concezione degli elementi dell’universo: una concezione naturalistica, capace di immaginare il mondo come un corpo unitario, fondato sulla continuità tra componente vegetale, animale e umana».[11]
In questo corpo unitario rientra ovviamente anche il soggetto, tuttavia è proprio l’acquisizione della voce che permette al poeta di astrarsi e osservare il mondo dal suo particolare punto di vista. Si veda a tal proposito la coppia di poesie Definitiones / Definizioni dove si tenta una distinzione di soggetto e oggetto nell’amalgama del reale:
Oggetto: nell’ordine
adicarsi delle apparenze,
l’infetto mare perfetto
guardare delle escrescenze.
[…]
Soggetto: essere una volta stato
nel turbine del vivente, ora
rompersi contro il niente,
il furore di sognare miseramente
svanito per specchi e specchi
a bui fondali va il bambino
e allibito brancola.[12]
La poesia rappresenta l’istante in cui l’io poetico (qui rappresentato anche dal soggetto analizzato in terza persona) è uscito dalla materia (il turbine del vivente) e perciò si annulla (si rompe contro il niente), mentre un furor indaga (per specula) il buio dell’insondabile (ai bui fondali) come nella migliore tradizione moderna a partire almeno da Baudelaire: «Noi vogliamo, bruciati da questo interno fuoco, | scendere nell’abisso, Cielo o Inferno che sia, | e annegar nell’Ignoto, pur di trovare il nuovo!».[13]
Proprio l’Ignoto è protagonista del secondo motivo per cui lo sguardo dell’io è di sbieco. Con questo termine Sovente mette in mostra la propria particolare impostazione difettiva che ritiene importantissima per scrivere in versi. Vedere di sbieco significa anche, infatti, non avere una completa visione del tutto: il poter percepire la profondità costa al poeta assumere un punto di vista scomodo e incompleto di ciò su cui pone lo sguardo. Si badi però che per Sovente non è affatto un problema, anzi: è proprio quel che rimane di oscuro, di dubbio che permette all’io di essere poeta.
Per comprendere che cosa si intende con impostazione volutamente difettiva merita ampio spazio una considerazione dello stesso Sovente sulle pagine de «Il mattino» nel 1988, dove è anche possibile cogliere il legame che lega tale impostazione alla modulazione dell’io poetico:
Ferma restando l’urgenza di aprire tutti i varchi possibili ai valori creativi del soggetto, appare ormai impraticabile la vecchia strada di un discorso sia umanistico, sia scientifico, rigidamente predeterminato. Ciò che conta, soprattutto in arte e nella fattispecie, in letteratura, è guardare in qualsiasi direzione, attingere a tutte le esperienze prossime e remote, sapere che il linguaggio è qualcosa di estremamente vivo. mobile. modificabile, sottoposto come è agli stimoli del mondo e agli impulsi dell’inconscio.
Noto e ignoto, necessità e caso, razionale e irrazionale sono le insopprimibili forze con cui la poesia ha sempre fatto i conti, si è dovuta misurare, proprio perché essa non ha certezze da dimostrare, valori assoluti da difendere, obiettivi pratici da realizzare. […]
“La vaporizzazione e la centralizzazione dell’io” per dirla con Charles Baudelaire, sono il problema dei problemi del poeta della società industriale. Più egli entra in possesso dei segreti del suo laboratorio e più diventa sconosciuto a sé stesso, risucchiato dalla spirale di una solitudine senza scampo. […] Posta questa premessa, sembra davvero farsesco etichettare l’esperienza poetica, rinchiuderla in tanti ghetti, tacciarla di passatismo, di leso dovere di sperimentazione forzata. imporle il rigoroso ossequio a un ricettario, come se il poiein consistesse in un puro procedimento combinatorio e non in un’avventura dagli approdi infiniti.[14]
Per Sovente, insomma, la poesia nella società industriale deve essere intesa anzitutto come enigma.[15] Permane, infatti, in ogni sua opera un senso di insondabile che rimane taciuto dall’io e solo man mano scoperto insieme al lettore, questo perché la poesia non è rigidamente predeterminata, anzi è un «complesso percorso umano, esistenziale, culturale».[16] L’enigma, insomma, quell’insondabile di cui si è detto, è necessario al fare poetico: «Rimaneva una certa soglia oltre cui non potevo, non sapevo e non volevo andare».[17] Concezione poetica, questa dell’enigma, che si sposa perfettamente con la figura del vates così come è stata inizialmente delineata: l’io scopre insieme al lettore i bui fondali a cui solo la poesia può accedere e lo fa grazie a quel furor che, nel caso di Sovente, è indotto non da un Dio, ma dalla Storia stessa.
Il punto di vista necessario all’io è dunque quello difettivo e scomodo, di sbieco appunto, che permette all’autore di porre la propria opera d’arte come un enigma. Tale considerazione diventa fondamentale nella definizione del soggetto enunciativo di Cumae perché determina l’uso delle tre lingue dell’opera: italiano, latino e dialetto. È proprio nell’utilizzo di diversi linguaggi, appartenenti al remoto o al diatopico, che trova soluzione il problema della vaporizzazione e la centralizzazione dell’io: «l’obiettivo dell’intera operazione non si risolve, come si potrebbe pensare, nella deformazione espressionista. È in gioco, invece, la flessibilità espressiva del soggetto. Perché passare da una lingua all’altra (come si vede nella stesura in lingue diverse di un medesimo tema) significa esercitare il pensiero a mutare liberamente forma. Anzi, non vincolato ad alcuna teoria il pensiero qui si vuole completamente sciolto libero di diffondere le proprie basi».[18]
Con questi linguaggi, che liberano il soggetto da un sapere predeterminato, il poiein di Sovente può ambire dunque a quell’abisso sopra osservato. Le nouveau, l’ignoto di Baudelaireiana memoria, non è solo obbiettivo, ma anche motivo stesso dell’atto poetico: ciò che ancora non è stato esperito dalla coscienza razionale dell’autore può essere invece raggiunto dal soggetto guidato dal furor. Ecco allora come la poesia stessa diventa, esattamente come nel voyage di Baudelaire, un’avventura dagli approdi infiniti.
[1] Si tratta di L’uomo al naturale (Firenze, Vallecchi, 1978) e Contropar(ab)ola (Firenze, Vallecchi, 1981).
[2] Fra i primi estimatori fu Giudici che così commentò il latino del poeta flegreo: «E che dire quando (come fa il Sovente In “Per specula aenigmatis”) si elegge a lingua della poesia un “anacronistico” latino tra ironico e dissacrante, ma estremamente naturale o moderno e perciò godibile». G. Giudici, Consigli d’autore. In «Il secolo XIX», 15 novembre 1990.
[3] Si riporta, anche se non è da intendersi come traduzione, la versione italiana dell’autore: «Io il vate Sovente, nella sottoluce di questa | sfera, vado da sempre cercando la mia lingua | sepolta nel ghiaccio e un’altra figura, io, | ultimo vate, a voi, selve, i miei turgidi versi | consacro, voi canto da tempo infinito sommerse | nell’enigma delle sottoselve. Io: l’istrione soave. | Io: il feroce straccione». M. Sovente, Per specula aenigmatis. Milano, Garzanti, 1990, pp. 14-15.
[4] Presso il centro APICE dell’Università degli Studi di Milano nell’archivio di Bartolo Cattafi è conservata una lettera di Michele Sovente datata 27/11/1977 che recita: «[…] seguo la sua produzione poetica da quando avevo sì e no 16 anni e mi sforzavo poi, nei miei esercizi poetici, di imitare il suo stile così corposo, abbagliante e obliquamente penetrante […]»
[5] R. Bruni, Per la poesia di Bartolo Cattafi. In B. Cattafi, Tutte le poesie. Firenze, Le lettere, 2020, p. XI.
[6] M. Sovente, Cumae. Venezia, Marsilio, 1998, p. 7. Si riporta per immediatezza la sola versione italiana.
[7] M. Sovente, Carbones. Milano, Garzanti, 2002, p. 118.
[8] M. Sovente, Cumae. Op. cit., p. 47.
[9] G. A. Liberti, Sismografia della resistenza. su Bradisismo di Michele Sovente. In «Nuova Corrente», n. 160, luglio-dicembre 2017, p. 149.
[10] M. Sovente, Cumae. Op. cit., p. 11.
[11] P. Cosentino, Il potere delle ombre. Voci, colori e metamorfosi nella poesia di Michele Sovente, in «Istmi», n. 31-32, 2013, p. 107.
[12] M. Sovente, Cumae. Op. cit., p. 81.
[13] C. Baudelaire, I fiori del male, tr. it. di Gesualdo Bufalino, Milano, Mondadori, 2006, p. 261. Con questi versi Baudelaire chiude l’edizione del 1861, quella definitiva, de Les Fleurs du Mal. Pochi anni dopo sarà Rimbaud, in quella che è diventata nota come “lettera del veggente”, a scrivere: «[Il Poeta] giunge all’ignoto! Avendo coltivato la propria anima, già ricca, più di ogni altro! Giunge all’ignoto, e anche se, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe viste!». A. Rimbaud, lettera a Paul Demeny datata 15 maggio 1871, in Opere, Milano, Mondadori, I Meridiani, 2006, p. 454.
[14] M. Sovente, Se il poeta sogna una vita di versi. In «Il Mattino», 11 ottobre 1988. Corsivo mio.
[15] L’arte come enigma e come ricerca titola una delle dichiarazioni poetiche di Sovente. In «Poesia». Milano, n. 188, novembre 2004, pp. 73-75.
[16] Ivi, p. 75.
[17] Ibidem.
[18] D. Claudi, Senza orizzonte. In «Istmi», n. 31-32, 2013, p. 123.