La categoria di panteismo è una delle più ambigue della storiografia filosofica e, ancor prima, della filosofia stessa. Essa appare, di primo acchito, come uno dei tanti parti mostruosi della ragione: un concetto superfluo, tramite il quale, dopo aver assunto la differenza tra due elementi – Dio e il mondo –, si pretende di stabilirne l’identità. Per questo, per coglierne l’essenza profonda, occorre lasciare da parte ogni esercizio di semantica storica, e considerare, invece, l’innumerevole serie di binomi attorno cui si è strutturato il pensiero occidentale, sin dai tempi di Platone: essere e pensiero, causa ed effetto, soggetto e oggetto, e, soprattutto, intellegibile e sensibile. Il panteismo, infatti, rappresenta la radicale contestazione di questi dualismi.
Con ciò, si vuole dire anche che esso non è tanto un portato del cosiddetto Illuminismo radicale, quanto, piuttosto, un tarlo che, nel corso dei secoli, ha roso dall’interno il discorso filosofico. Anzi: del panteismo si può dire che ha sempre condotto un’esistenza fantasmatica – per lungo tempo invocato soltanto da coloro che intendevano respingerlo ed esorcizzarlo, quando è iniziato ad essere rivendicato positivamente dai filosofi, nel XVIII secolo, non ne rimaneva che lo scheletro della doxa. L’idea si era già volatilizzata.
Queste le premesse destabilizzanti de Il dio sensibile di Emanule Dattilo, uscito per Neri Pozza il 25 febbraio scorso, nella collana diretta da Giorgio Agamben (che firma, peraltro, la quarta di copertina). Il saggio è un lungo movimento di fuga dalle banalizzazioni che vorrebbero ridurre il panteismo all’affermazione della coincidenza statica tra Dio e cosmo, e, allo stesso tempo, l’inseguimento appassionato di «quest’ombra, il cui statuto storiografico appare così precario e incerto» (p. 13), attraverso una serie di questioni apparentemente allotrie all’oggetto principale dell’indagine: il rapporto tra mente e materia, la natura del luogo e dello spazio, la causalità e la creazione, la relazione tra conoscenza e amore. Questi ambagi definiscono il perimetro di un libro-labirinto che non vuole essere tanto la storia di un concetto, quanto un denso saggio filosofico sulla vita della materia.
Nel corso di quest’itinerario, l’ombra del panteismo si rivela «molto più reale del corpo che la proiettava» (p. 13): vale a dire che il discorso filosofico-teologico, che, in prima istanza, sembrerebbe aver creato il panteismo come la proiezione delle proprie angosce, si rivela, esso stesso, il prodotto di quest’ultimo, una reazione di fronte alla minaccia che le tesi panteistiche hanno sempre rappresentato. Ciò significa che il panteismo non è una dottrina compiuta, un sistema organico che è possibile rinvenire di volta in volta in determinati autori eterodossi. Esso è piuttosto, spiega Dattilo, «un’idea, che riluce nella diversità dei fenomeni» (p. 14) che, nel corso della storia, gli hanno dato corpo, una tentazione in agguato all’interno di ciascuna riflessione autenticamente filosofica. Per questo, lo studio non si limita agli autori tradizionalmente annoverati tra i panteisti – come Bruno, Spinoza o Schelling –, ma comprende anche figure come Giovanni Scoto Eriugena e Tommaso Campanella, e tocca, addirittura, la letteratura patristica e quella giudaica.
A questa, in particolare, sono dedicate alcune pagine di grande interesse e profondità. Dallo Shi‘ur qomah, un testo misterioso in cui si analizzano gli organi, dai nomi impronunciabili, del gigantesco corpaccione divino, alla dottrina cabbalistica che identifica Dio in qualità di En-sof (senza fine) con quel nulla da cui derivano tutte le cose, fino all’idea luriana secondo cui l’universo nasce dall’autocontrazione (tzimtzum) di Dio, il gesto con cui egli fa spazio al mondo all’interno di sé, Dattilo mostra come la tradizione ebraica, che si è soliti associare al pensiero dell’assoluta trascendenza divina, cela «un pericoloso germe panteistico» (p. 158).
Tuttavia, i veri protagonisti del libro sono David di Dinant e Amalrico di Bène, due oscuri teologi medievali, le cui opere furono condannate come eretiche nel concilio di Parigi del 1210. Si tratta, come Dattilo spiega bene, di due personalità diversissime tra loro: con David, come ci dimostrano i suoi Quaternuli e in particolare il frammento rinominato dagli editori Mens Hyle Deus, «siamo davanti a una fonte senza tradizione e a una tradizione senza fonte» (p. 37), a un pensatore unico e isolato che, partendo dal De anima di Aristotele, arriva a sostenere l’identità della materia e di quella mente che è Dio stesso; con Amalrico, cui gli avversari attribuiscono formule rivoluzionarie come quella secondo cui «Dio si [è] espresso in Ovidio come in Agostino», abbiamo, invece, a che fare con un riformatore religioso, che forza dall’interno il linguaggio teologico tradizionale, seguito da uno stuolo di allievi. Tuttavia, di David e Amalrico si potrebbe dire che, come i teologi dell’omonimo racconto di Borges, essi sono, nella mente divina, una sola persona. Sebbene David la sviluppi in senso speculativo e Amalrico in direzione etico-politica, una stessa intuizione presiede, infatti, ai loro rispettivi sistemi di pensiero: Dio è il luogo in cui, da sempre, già ci troviamo.
Se la teologia, attraverso il modello creazionista, ha per secoli pensato il mondo come un’opera e un prodotto e Dio come l’essere che, non risolvendosi mai del tutto nelle sue azioni, lo domina mediante il pensiero e la volontà, il panteismo consente di distruggere ogni distinzione tra causa e causato, tra essere e agire, tra soggetto che domina e oggetto che è dominato:
L’idea di creazione è il tentativo di rimuovere la causalità materiale da Dio. […] L’idea panteistica rivendica, invece, proprio questa causa materiale, contro la causa efficiente. […] Nella materia non si danno produzione, sovranità, libertà, creazione, ma eterna potenza e nascimento di cose, insieme sensibili e intellegibili: per questo la causalità materiale – se ancora vogliamo chiamarla causa – è la causalità della natura. (p. 167)
Ma, rispetto al creazionismo, il panteismo sottintende anche un altro, fondamentale, rovesciamento: quello che porta ad abbandonare la speranza («una passione triste», p. 103), in favore della gioia. Non solo, infatti, da Amalrico a Spinoza, il pensiero dell’immanenza di Dio è considerato una fonte di riso e letizia, ma, come afferma Campanella, lo stesso divenire infinito della materia va inteso come «gaudio dell’empire il vacuo», un espandersi gioioso dell’universo.
Gianni Carchia, riecheggiando Wittgenstein, ha scritto che alla storia della filosofia e alle sue vicende bisognerebbe approcciarsi «con la consapevolezza che tali racconti sono, come in ogni itinerario iniziatico, solo una scala […] che si deve gettare via nel momento in cui il pensiero sia capace di rivendicare un’attenzione assoluta a se stesso» (Il pensiero e la sua ombra. La storia della filosofia come mitologia, in Id., L’amore del pensiero, Quodlibet, Macerata 2000, p. 54). Del Dio sensibile, tuttavia, possiamo dire che riesce in un più spettacolare gioco di prestigio: una volta gettata, la scala resta, magicamente, sospesa in aria, insieme a colui che l’ha percorsa. Fuor di metafora: i nomi e i brani richiamati non sono meri pretesti; il pensiero di Dattilo, che pure emerge a partire dal confronto con essi, non se ne serve in maniera strumentale. Questo, piuttosto, si incarna di volta in volta, senza confondervisi, in ciascuno degli autori nominati; o, viceversa, questi parlano attraverso la sua penna.
Per scansare gli effetti sconcertanti di simili operazioni negromantiche – nonché le fatiche e i rischi che esse comportano –, gli imbalsamatori e impagliatori seriali di filosofi sono soliti parlare del rispetto che si deve ai morti e del modo in cui se ne dovrebbero riprodurre fedelmente i tratti, celandosi dietro la distinzione, tutto sommato artificiosa, tra una filosofia, che appunto potrebbe servirsi della storia a suo piacimento, e una storia della filosofia, cui sarebbe invece interdetto pensare. Eppure, non solo i “teoreti”, ma chiunque veda lo stravolgimento che cela questa imitazione pedissequa – mascherata da reverenza – del pensiero altrui, dovrebbe essere grato a Dattilo.
In un momento in cui la produzione culturale italiana, fatte le debite eccezioni, è schizofrenicamente scissa tra una letteratura accademica di vedute sempre più anguste, alla ricerca costante della postilla inedita dell’autore minore – territorio vergine su cui costruire, al riparo da incursioni nemiche, chilometrici curricula a prova di ANVUR –, e soprattutto incapace di evadere dagli algidi stilemi della fascia A, e, dall’altra parte, una saggistica, covata sui blog culturali e approdata alle case editrici indipendenti, che spesso resta impaniata negli aneddoti personali – quanto più intimi tanto più, apparentemente, in grado di sostituirsi all’argomentazione – e che, nel tentativo di épater l’académicien, alterna, secondo moduli ormai collaudati, le citazioni ‘alte’ ai riferimenti pop – quanto meno canonici tanto più brillanti –, il saggio di Dattilo indica una possibile, luminosissima, terza via. Il senso di questa operazione – che è potenzialmente anche un programma per ricerche future – è racchiuso in una delle splendide citazioni poste in esergo, tratta dagli Aforismi sulla filosofia della natura di Schelling: «La filosofia è anche poesia. Ma che non sia una poesia sfacciata, echeggiante solo il soggetto, bensì una poesia interna, radicata nell’oggetto, come la musica delle sfere. Che sia poetica la cosa, prima ancora che la parola».
Emanuele Dattilo, Il dio sensibile. Saggio sul panteismo, Neri Pozza, Vicenza 2021, 384 pp., € 22,00.