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Maledetta fabbrica! Tommaso Di Ciaula e le alterne fortune della letteratura operaia

“Maledetta fabbrica! Eppure l’avevo tanto sognata. Il primo giorno di lavoro pensavo a tutti i lavori fatti fino al giorno prima, lavori faticosi ed ingrati: tagliare la legna, cogliere le cipolle, governare le bestie, raccogliere i piselli… Pensavo a queste cose e ridevo.” (Tommaso Di Ciaula, Tuta blu, Feltrinelli 1978, p. 52)


Scomparso il 12 gennaio scorso a Bitetto, distante pochi chilometri da dove era nato nel 1941, Tommaso Di Ciaula era un poeta e scrittore operaio pugliese la cui voce ha saputo farsi sentire ben oltre i confini regionali e nazionali. Lo dimostra il fatto che l’imprecazione su riportata ha ispirato il titolo del primo diario di fabbrica dello scrittore operaio francese Jean-Pierre Levaray, (Putain d’usine!, l’Insomniaque 2002, trad. it. Maledetta fabbrica, Stampa alternativa/Nuovi Equilibri 2010) il quale ha poi citato esplicitamente Di Ciaula come modello di riferimento per la propria scrittura in un’altra sua opera (Une année ordinaire. Journal d’un prolo, Éd. Libertaires 2005).

Tale fortuna si deve alla particolare congiuntura che negli anni Settanta del Novecento ha portato Di Ciaula, già poeta in proprio, a trovare un’attenzione editoriale in virtù del suo farsi narratore del mondo operaio. È infatti soprattutto merito di Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud, edito da Feltrinelli nel1978 con la prefazione autorevoledi Paolo Volponi, se il suo nome è circolato dall’URSS al Messico, dalla Spagna alla Germania e alla Francia, dove quel libro è stato tradotto e ristampato anche di recente (l’ultima edizione francese, da Actes Sud, è del 2014). Per non dire delle numerose riduzioni teatrali e del film Tommaso Blu (1987) diretto dal tedesco Florian Furtwängler con protagonista Alessandro Haber, alla cui sceneggiatura lo scrittore fu chiamato a collaborare con l’insigne sociologo Peter Kammerer (che con Furtwängler lavorò anche a un documentario sull’emigrazione operaia tra Puglia e Germania), avventura produttiva che da sola meriterebbe un romanzo come ha raccontato il regista Nico Cirasola in questo articolo.

Eppure, per comprendere meglio sia il percorso di Di Ciaula sia come nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta la rappresentazione letteraria del lavoro sia venuta a coincidere con quella della fabbrica, è bene ribadire che Di Ciaula è stato innanzi tutto poeta e ha ritratto con tale sensibilità una secolare civiltà contadina che si andava disgregando nella fabbrica e a causa di essa, testimoniando anche l’abbandono dei vecchi mestieri artigiani di cui si legge nella sua seconda uscita di rilievo nazionale, Prima l’amaro, poi il dolce. Amori e altri mestieri (Feltrinelli 1981).

Rimane comunque indicativo che i due titoli pubblicati da Di Ciaula con Feltrinelli appartenessero entrambi alla collezione dei “Franchi Narratori” (1970-1983, per un totale di trentasei volumi), creata da Nanni Balestrini e Aldo Tagliaferri per proporre testi di quella letteratura che veniva detta “spontaneista” o “selvaggia”. Dal risvolto di quarta dei volumi stessi: 

La collana dei Franchi Narratori raccoglie quei testi, “irregolari” rispetto ai parametri sia della letteratura “pura” sia del semplice documentarismo, in cui si raccontano esperienze direttamente vissute dagli autori stessi, e che rappresentano “spaccati” di problematiche profondamente vincolate alla realtà storico-sociale della situazione culturale di oggi; testi quindi esemplari, che spesso costituiscono, in senso lato, delle testimonianze di una antropologia “in fieri”, di una realtà troppo viva, attuale, complessa, per essere ingabbiata in già scontati moduli editoriali.

Va pertanto dato atto a Di Ciaula d’avere smentito la constatazione dello stesso Tagliaferri secondo cui era “il destino di un franco narratore quello di essere autore di un solo libro” (Quando la penna esplode di vita, in “Oblique Studio”, dicembre 2010, p. 15) e, coerentemente, d’essersi sempre dichiarato insofferente verso quella e altre etichette dell’epoca. Così si pronunciò in un’intervista del 1984 che si può leggere negli atti di un noto convegno su Letteratura e industria (Olschki 1997, p. 1010):

Era una maniera per ghettizzarci… selvaggi, franchi narratori… quante ce ne hanno dette! Scrittori naïf, ruspanti… avevano paura di noi, i grandi scrittori! Perché noi del popolo le cose le sappiamo scrivere, e anche bene! Con i nostri libri nessuno si è mai annoiato! Scriviamo fra lacrime, polvere, sperma, sangue, sofferenze, gioie timide.

Nelle opere di Di Ciaula, il tono spavaldo esibito in questa dichiarazione si alterna costantemente a una vena ben più meditativa e malinconica, già presente nel suo primo volume di poesie Chiodi e rose, stampato all’inizio degli anni Settanta a proprie spese e inviato poi a diversi editori e intellettuali con le seguenti parole di accompagnamento: “sono poesie nate per caso nel fuoco dell’officina; le ROSE durano al massimo una giornata; mentre i CHIODI rimangono e più diventano vecchi, diventano arrugginiti, letali, dolorosi”. In risposta, Calvino notò che: “l’ultima parte, in cui Lei tenta una lirica operaia di fabbrica, è la meno riuscita. Non basta che questa sia la Sua vita ed esperienza per fare una poesia più vera: direi che la tematica della fabbrica resta esterna al Suo modo naturale di vedere e di esprimere”. Leonardo Sciascia ne scrisse sul “Corriere della Sera” del 4 novembre 1971 rilevando nella raccolta “una poesia che ha ancora radici contadine, che ancora ‘legge’ il mondo attraverso quel sentire, quei concetti, quelle immagini, che ancora istituisce con il mondo un rapporto magico”. Anche Volponi, nella prefazione al suo primo romanzo, asseriva: “Come naturalmente Di Ciaula è nato contadino così è cresciuto e diventato poeta filtrando in poesia il meglio della cultura contadina davanti agli spettacoli naturali, alla fatica, ai rapporti sociali e familiari”; “la natura contadina di Di Ciaula sfrigge ancora di più a contatto con la lama rovente che è la condizione dell’operaio secondo gli attuali rapporti di produzione” (p. 6). Inutile dire che l’autore di Memoriale, di tale figura se ne intendeva.

Figlio di un carabiniere, ma cresciuto nella campagna dei nonni e poi costretto a lavorare in fabbrica, al termine del “lungo ’68” Di Ciaula finì quindi per trovare considerazione da parte della Feltrinelli proprio in quanto operaio e grazie al modo in cui dai suoi testi emergevano due insiemi di contraddizioni. Il primo riguarda per l’appunto lo sviluppo forzato del Meridione e l’ingresso nelle officine di anziani e giovani con tutt’altre attitudini, vittime di una transizione alla modernità a lungo rimandata e arrivata infine coi connotati dell’alienazione e del cemento dilagante nei campi e lungo la costa barese. Un esempio, sempre da Tuta blu:

Ho visto che un anziano operaio di Gravina di Puglia, considerato uomo rozzo perché fino a quindici anni prima faceva il contadino e il pecoraio, intrecciava rami di olmo e di ulivo dando forma a una grossa cesta. Sono rimasto sbalordito: altro che cozzato e rozzo, quello era un dio! Mi sono avvicinato per guardare estasiato le sue mani, che erano diventate quelle di un maestro e agilissime facevano crescere la cesta a vista d’occhio. Me ne sono tornato in reparto solo dopo avergli strappato la promessa che mi avrebbe insegnato quell’arte. Così l’ultimo uomo della fabbrica diventa il primo, il più poetico, il più capace. (p. 27)

Uno tra i temi dominanti del libro è la preoccupazione per l’inquinamento ambientale, oltre che per la salute di chi lavora dentro a un “mostro di ruggine e di fumo, di puzza e di rumore” (p. 31) in condizioni igieniche pressoché inesistenti, a repentaglio continuo di infortuni. Se Di Ciaula rischiò conseguenze gravi per l’esposizione all’amianto subita presso la Pignone Sud di Bari-Modugno, che in Tuta blu è detta “Catena-Sud”, nel suo libro si fa anche cenno al disastro di Seveso, si raccontano diversi incidenti sul lavoro e come lo stesso autore si tagliò con una fresa la falange di un mignolo.

Il secondo insieme di contraddizioni riguarda quelle del movimento operaio che al termine di un decennio di lotte si stava sfrangiando, come si dice in vari passi di Tuta blu. Si veda l’ironico racconto di una manifestazione a Napoli: “Molti mancano al corteo. Alcuni si sono infilati nelle viuzze puzzolenti di Napoli, in cerca di occasioni di contrabbando: un accendino, un filmetto porno, una pelliccia, una macchina fotografica, qualche altro per farsi una bella mangiata di frutti di mare” (p. 89); o il sarcastico elogio della classe operaia la cui immagine viene di volta in volta dipinta dai padroni o dai sindacati in modo manicheo: “È buona la classe operaia, cazzo quanto è buona: ubbidisce spesso, tiene i servizi d’ordine, batte le mani, paga la tessera, fischia nei fischietti, ascolta con la bocca aperta, perché più aperta è la bocca più vuol dire che la persona che ascolta capisce. È buona la classe operaia, è buona, come la cioccolata” (p. 62).

Con l’umorismo e una lingua che sa farsi fulmineamente anche “bassa” e violenta, gli scrittori operai degli anni Settanta come Vincenzo Guerrazzi o Alfonso Natella (per tramite di Balestrini e in proprio) ma anche, ognuno a suo modo, poeti come Francesco Currà o Luigi Di Ruscio, rivendicavano una propria autonomia e specificità rispetto alle convenzioni della lingua letteraria e dell’italiano colto. La loro stagione si esaurì però rapidamente, con il “riflusso” degli anni Ottanta, e non tutti sono stati riscoperti a cavallo del nuovo millennio quando il lavoro (con le sue crisi) è tornato al centro di una cospicua serie di opere narrative che, per restare in ambito pugliese, hanno raccontato l’agonia dell’Ilva di Taranto o le condizioni nuove ma non migliori delle tute blu a tempo determinato cui ha dato voce Francesco Dezio in Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004, TerraRossa 2017).

Alla fine del 1980 i curatori della storica rivista “Abiti-Lavoro” scrivevano nella presentazione del numero zero, cui contribuì anche Di Ciaula, che “la storia del movimento operaio è piena di frammenti, ballate, canti di lotta, scritti, ricordi, tramandati coi gesti e con le parole, spesso ignorati, dimenticati o vilipesi”, ma che solo dopo il 1968 in Italia è sembrata “nascere una figura emblematica nuova: l’operaio scrittore, l’operaio poeta”. Nel nostro paese più che altrove, i lavoratori che scrivono, per arrivare a essere letti, hanno dovuto sottostare ai condizionamenti del mondo editoriale vivendo alterne fortune, esaltazioni e rimozioni giunte spesso a prescindere dai loro meriti o demeriti. Ciò è accaduto anche a Di Ciaula che molti ricordano per un solo libro ma che ne ha invece scritti molti e per tutta la vita, basti pensare alla notevole raccolta Acque sante, acque marce (Sellerio 1997). Dispiace dunque, anche se non stupisce più di tanto, che nessuna testata nazionale abbia dedicato uno spazio adeguato alla notizia della sua scomparsa.