Iniziamo oggi la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2021. Gli incontri con gli autori si terranno in diretta streaming sui canali Facebook e YouTube del Premio: si comincia domani, alle ore 17, con Maria Grazia Calandrone.
Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone si apre con un inserto di giornale che campeggia a centro pagina a mo’ di epigrafe: luglio 1965, una bambina di otto mesi, Maria Grazia, abbandonata sul prato di Villa Borghese, una madre che si è tolta la vita gettandosi nel Tevere, un padre ignoto, l’adozione repentina di una coppia romana, Ione e Giacomo Calandrone. Come fossero il testamento di una realtà irriducibile, le parole del trafiletto di «Paese Sera» rappresentano un lessico da re-abitare, un lascito da rivivificare, fungendo da certificato di veridicità che inaugura la scrittura, ne benedice la nascita. La storia del dramma si fa incipit, punto di inizio di un’indagine umana e al contempo letteraria.
Sotto l’ala d’ombra dell’evento tragico prende dunque il via la narrazione, che procede per sottrazioni, incisioni, rimandi, muovendosi fisiologicamente sul terreno dissestato dell’autobiografia senza però soccombere ai limiti del genere, ma anzi utilizzando il vissuto personale come motore irradiante per la costruzione di una vicenda romanzesca che è innanzitutto un monumento contemporaneo alla lingua italiana, alle sue potenzialità intrinseche e latenti, e forse solo una poetessa di rara precisione come Maria Grazia Calandrone poteva riuscire nell’impresa di restituire a certe parole una fisionomia appropriata, un peso ben definito, semanticamente pregno. Del resto, come scrive la stessa autrice: «Le parole sono la parte più concreta della materia. La materia è uno scherzo ben riuscito. Le parole non sono mai completamente pulite. Le parole non dimenticano la materia dalla quale evaporano, ma non ne hanno alcuna nostalgia». Splendi come vita è allora un romanzo che tenta di essere se stesso e anche altro, ed è proprio in questo tendere liminare e oltrepassante che si inscrive il valore non solo letterario, ma anche esistenziale della scrittura di Calandone, permeata da un afflato poetico che propaga e accresce le qualità espressive del narrato.
Sprovvista di una massa agglutinante e vischiosa, l’opera procede invece per filogenesi di micronarrazioni, filamenti di vita e pensiero che si accostano alveolarmente intorno a un sostrato comune, l’incedere rapsodico di una memoria divenuta testo. Il procedere discontinuo e scostante del discorso è dovuto in gran parte ad epifanie sofferte di senso, che si concretizzano grumose sulla pagina in virtù di una prosa scarna eppure densa, a tratti ermetica, ma strutturalmente equilibrata, caratterizzata da un alto tasso di figuratività condensato in particolar modo nei passaggi di maggior respiro elegiaco.
«Nel Tempo Alieno della cacciata e dello scontento, la sua figura esile, spiccatasi dall’invisibile dove la mia inconscienza la riponeva, indossa la veste metafisica del Legame Primario – significando, con questa espressione, l’attaccamento che rimedia per dottrina naturale all’assenza di tutti i corpi e di tuti gli amori, perduti chi sa quando, nel rombo siderale, e tra pallide roccie».
Una figlia che interroga la madre a partire dalla frattura che per la prima volta le ha allontanate, la rivelazione di essere stata adottata: «Possiamo allora riferire il momento della rivelazione della minuscola notizia come un parto a parole, accompagnato da abbondantissimo spargimento di sangue. Madre adesso sapeva che sapevo che il suo sangue non era il mio sangue. Madre credeva che l’amore non potesse diventare sangue. Sbagliava, per insicurezza ed ecceso di logica. Ma è andata così».
Dalla conseguente caduta nel Disamore, quella che l’autrice considera una vera e propria cacciata dal Paradiso, si origina un’indagine narrativamente sulfurea, atta a problematizzare i tasselli costitutivi del proprio crescere nel mondo, da sola e insieme a lei: la vita di ogni giorno, il Papà, le vacanze, i collegi, le prime ribellioni, diventare adulti, la malattia della Madre.
Come suggeriva Benjamin nel Passagenwerk,ogni presente è sincronizzato con speciali momenti della storia passata, così come ciascun elemento della storia passata diviene realmente leggibile soltanto in un determinato presente, che ne riscopre il valore dissolvendo la mitologia che in positivo o in negativo ne sublima e trasfigura le forme iniziali. Calandrone decompone la propria epopea personale e famigliare, le rende giustizia iniettando poeticamente linfa rinnovata ad un’archeologia emozionale altrimenti condannata all’oblio del singolo, all’implosione intima. Viatico di conoscenza, l’atto rifigurativo insito nell’operazione letteraria permette infatti di istituire uno spazio di memoria ricostituita, capace di gettare luce, anche solo per frammenti, sugli snodi cruciali alla base di una costruzione dell’identità e sulle relazioni personali di cui un’identità si nutre nel suo farsi graduale e mai definitivo.
All’interno di questo speculare perimetro l’unica voce narrante a tratti si sdoppia, parla per sé e per sua madre, plasmando una polifonia in grado di dialettizzare internamente lo scheletro precipuo della lingua: «Maria Grazia, non sta bene fissare le persone che mangiano, le costringi a offrirti qualcosa. (Lo so!) Maria Grazia, guarda fuori. È sempre lo stesso panorama, preferisco leggere. Questa risposta verrà assunta, più avanti, come prova del mio scarso interesse per il mondo». La geometria turbata del sentimento che l’opera va tracciando fa perno non su parole semplici, ma su veri e propri emblemi – Madre, Mamma Vera, Disamore, Tempo, Fantasma –, simboli universali che eccedono la contingenza del vissuto raccontato sino a divenire archetipi assoluti e inafferrabili.
Costantamente solcato da ipotesi, suggestioni e incertezze, il racconto non è mai lineare e univoco. La memoria della voce narrante si fa spesso interprete della memoria della madre entro le spire di un’orchestrazione anamnestica che non può comporsi in quadri solidi perché troppe sono le mancanze o le eccedenze. Viene dunque a crearsi in tal modo un dialogo sotterraneo, polarizzato, che alimenta il flusso centrale della narrazione, ne devia il corso, tentando di mettere in forma le assenze e le aporie di una vicenda esistenziale segnata sin dai suoi albori.
Splendi come vita è un’opera che nel suo dipanarsi continua a interrogare incessantemente sé stessa e il lettore: cosa definisce i legami di sangue e i legami d’amore? Cosa divide effettivamente un prima da un dopo? Come si nomina l’affetto, la simbiosi di due corpi diversi, altèri, biologicamente sconosciuti? Quanto si deve togliere, tacere, silenziare, affinché dalla vita rinasca una vita che sia al contempo letteratura? Si scrive o si è scritti? Nel raccontare un rapporto filiale ambiguo e scostante, oscillante schizofrenicamente tra avvicinamento e repulsione, Calandrone non tenta di fornire risposte, ma opta con passo funambolico per uno sdoppiamento continuo tra realtà della scrittura e memoria, che prova a sintetizzare mediante l’esorcismo attuato dalle parole.
Nell’economia dell’opera, inframmezzata da rapsodiche incursioni liriche capaci di propagare una forza aurorale e sorgiva, acquista poi una certa valenza l’alone fiabesco promanato dagli effetti quasi ipnotici, di sospesa ripetitività, del fraseggio dell’autrice, caratterizzato da forme semanticamente e sintatticamente reiterate, a volte accostabili alla cantilena o alla litania («Due bambine non si parlano più. Due foglie accartocciate per ripararsi dal vento. Due bocche che parlano da piani spaziotemporali incomunicanti. Come morti con vivi. Come in un film di fantascienza. Come nella realtà»). Sfasando volontariamente le cronologie di un amore alternativamente promesso, difeso e demonizzato, dissociando gli eventi e le conseguenze come dentro un caleidoscopio, la scrittura di Calandrone si fa dispositivo ermeneutico che corteggia il fuoco dell’esperienza, ne circumnaviga le fiamme più acuminate ed enigmatiche, quelle destinate a sopravvivere al giogo della dimenticanza.
Scene di vita rubata, istantanee di uno sguardo, epicentri del dolore, bozzetti dal tono espressionista che punteggiano il discorso complessivo in questo libro sempre solo presagito, la costruzione episodica elementare tipica di Splendi come vita permette paradossalmente di deromanzizzare il racconto, di farlo sussistere solamente attraverso i lampi, i bagliori fugaci che ne illuminano la struttura sottostante, una struttura mancante, spettrale. Attraverso le asperità oracolari di questa autobiografia, l’identità narrativa si costituisce per spinte centrifughe, mediante il costante tentativo di accogliere l’Altro – quella Madre che tutto sottende e trascende –, nel proprio orizzonte prospettico, affinché essa diventi tramite privilegiato per affacciarsi sul mondo, prendere contatto con i fenomeni del circostante e ricostituire le fratture della propria crescita.
Accogliere il diverso da sé, accogliere l’amore anche quando l’amore provoca esplosioni, vuol dire innanzitutto immergersi nelle profondità dell’umano, e poi anche re-incantare l’esistente, farsene portavoce per mezzo di un linguaggio recuperato, non solo strumento verbale, bensì intermittenza dell’anima, cartina di tornasole dell’invisibile («Quando Mamma gioca con me, sedute in fondo accanto alla ringhiera, la città è ai nostri piedi e noi siamo più grandi della notte stellata che ci contiene. Un bastimento carico di eternità. Siamo alle fondamenta del mondo»). Splendi come vita, sostanziandosi più suoi vuoti che i suoi pieni della narrazione, sul bisogno dilaniante di dirsi attraverso gli altri e attraverso il tempo, è un romanzo che combatte contro la falsa e apparente normatività dell’amore, contro l’estraneità della lingua, contro il nostro cocente bisogno di anestetizzarla per non rimanerne succubi.
Maria Grazia Calandrone, Splendi come vita, Ponte alle Grazie, Milano 2021, 224 pp. 15,50€