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Nomadland e la fine del viaggio

Quando il cinema si smarrisce, spesso ha bisogno di un lungo viaggio per ritrovarsi. Nomadland di Chloé Zhao è il road movie che ha stravinto alle premiazioni degli Oscar ed ora è in proiezione nelle sale come primo grande evento da poter vedere sul grande schermo. La speranza è che sia questo nuovo capitolo sul mito della strada a riportare il pubblico al cinema e i primi risultati al botteghino sono più che promettenti. Di certo la presenza nel cast di Frances McDormand pone il marchio di qualità a un’opera che affronta il tema della wilderness e del nomadismo attraverso la lente di una crisi senza precedenti, sia economica che spirituale. Se infatti il cinema ci ha spesso mostrato il carattere libertario e pittoresco di tramper e girovaghi, qui si mette in luce soprattutto l’umanità di una comunità fragile e al contempo solidale. Francis McDormand interpreta il ruolo di Fern, ex insegnante, che, alla morte del marito, decide di abbandonare una vita standard nella middle class americana per vivere su un furgone, in viaggio attraverso il paese, tra lavori stagionali e momenti di raduno con altri nomadi. Dopo aver raccontato la vita in una riserva di nativi americani (Song My Brother Taught Me, disponibile su Mubi) e averci regalo lo struggente ritratto di un moderno cowboy (The Rider), Chloé Zhao, in questo suo terzo lavoro sembra voler proseguire la sua personale reinterpretazione delle narrazioni fondanti la cultura americana, affrontando il tema forse più controverso: quello della libertà. Altri grandi autori si sono cimentati nell’impresa di rappresentare la vita ai confini della società, di chi salta fuori dal meccanismo del sistema per perdersi nell’orizzonte di un paesaggio sconfinato. Subito viene alle mente il capolavoro di Dennis Hopper, Easy Rider (disponibile su Netflix), il primo vero film indie che apre la stagione della cosiddetta New Hollywood nel 1969. Due giovani spendono parte dei soldi ottenuti dalla vendita di una partita di cocaina per acquistare due motociclette e raggiungere la Louisiana per il Mardi Gras. In un linguaggio visivo del tutto nuovo per quegli anni, dove per la prima volta si utilizza una colonna sonora non originale composta dal miglior rock dell’epoca e si abbandona la sceneggiatura per lasciare che dialoghi e paesaggi mozzafiato si fondino, un giovane Hopper regalava uno dei primi manifesti del nomadismo al cinema. Seguiranno altri capolavori come Badlands del 1973, opera prima di Terrence Malick, con protagonisti una coppia di giovani innamorati, in fuga in auto tra le terre selvagge, attraverso tutto il Paese, dopo aver commesso un efferato omicidio. Le badlands, appunto, le terre cattive che per definizione sono luoghi inospitali, che in seguito a forti erosioni assumono forme tormentate e instabili, accoglie i giovani nel loro viaggio senza speranza, fuori dalla società, in quelle strade di nessuno dove poter seguire le proprie regole. Stessi luoghi lunari e stesse tematiche erano state al centro del film di Antonioni, Zabriskie Point, uscito qualche anno prima, in cui due giovani incrociano le loro strade in mezzo al deserto e vivranno un’incantata sospensione dal mondo, prima di dividersi nuovamente e scegliere il loro destino. Arriviamo poi agli anni duemila e all’instant cult di Into The Wild diretto da Sean Pean, storia di un ragazzo appena laureato che decide di far perdere le proprie tracce per intraprendere un lungo viaggio in solitaria verso l’Alaska e la wilderness più profonda. Fin qui le storie on the road hanno avuto come protagonisti giovani outsiders, ribelli che ritrovano nella strada che si srotola all’infinito la loro smarrita purezza e libertà. Ciò che Nomadland ci mostra è invece una strada che si fa purgatorio, anestetico per anime ammaccate. Come quella della protagonista Fern, interpretata da McDormand, donna schiva e all’apparenza ruvida, che vediamo all’inizio del film depositare un mucchio di scatoloni in un garage e lasciarle in custodia a un amico che non vedrà per un bel pezzo. Fern non è una ribelle e nemmeno un’idealista come l’Alexander Supertramp di Into the Wild: è solo una donna che non vuole più appartenere a niente. La regista Zhao ci mostra Fern nel suo quotidiano, dal prepararsi il cibo al defecare in una pentola, e la segue mentre svolge i suoi lavori stagionali, da quello nel centro impacchettamento Amazon in Nevada a quello più a sud, membro nello staff che gestisce un’area di sosta per campeggiatori. A tratti il film assume le caratteristiche di un documentario, in questo suo procedere per quadri, senza un vero e proprio plot, alternando la recitazione impeccabile di McDormand a quella di veri nomadi. I volti e le storie che Fern attraversa raccontano un’America spaurita, che si stringe attorno al fuoco condividendo i propri incubi per esorcizzarli. Ma non c’è patetismo nella descrizione di quest’umanità dolente, bensì la volontà di registrare la consapevolezza che il sogno è finito, qualunque esso fosse. Emblematica la scena in cui Fern torna nella casa in cui ha vissuto per anni con il marito defunto, la tipica villetta a schiera nell’anonima periferia americana, e ora le appare come un guscio vuoto, dalla cui porta del retro spalancata si intravede lo spazio infinito di una terra incolta: è lì che Fern vuole tornare. Fin dal suo primo film Songs my brother taught me, Zhao affida ai paesaggi un ruolo fondamentale nella veicolazione del messaggio, e Nomadland non fa eccezione. La natura dei vasti spazi americani viene fotografata con immensa grazia sia nei suoi aspetti più crudi che in quelli più sublimi, quasi fosse in muta conversazione con la protagonista e ne seguisse gli stati d’animo. Per questo e altri motivi Nomadland è di certo un bel pretesto per ritornare finalmente nelle sale cinematografiche, non solo per poter apprezzare la magnificenza delle immagini, ma per il valore di un’opera che in fondo ha meritato l’Oscar, anche se probabilmente non nell’anno più competitivo della storia delle statuette. I difetti, certo, non mancano, a partire da una colonna sonora di Einaudi fin troppo manierata e inserita furbescamente in momenti di estremo pathos e da una trama esilissima che si regge – fin troppo – sul talento di McDormand, stralunato Buster Keaton tra le rovine della terra dell’abbondanza.