A pochi mesi dai saggi raccolti in Scienza di niente (elliot, 2020), Matteo Marchesini ritorna alla narrativa – dopo il romanzo Atti mancati (Voland, 2013) e i racconti lunghi di False coscienze (Bompiani, 2017) – con i sedici racconti di Miti personali (Voland, 2020). Uno dei più attivi e intelligenti protagonisti della cultura contemporanea prosegue così la sua militanza sul triplice fronte della critica, della narrativa e della poesia (Cronaca senza storia la più recente silloge di versi, uscita per elliot nel 2016). D’altronde, più prosegue la sua carriera più risulta chiaro quanto questi àmbiti siano felicemente comunicanti. Il Marchesini poeta e narratore è infatti fedele alle sue posizioni di critico della letteratura e della cultura; di contro, quest’ultimo affida spesso le sue polemiche a forme di scrittura non saggistica – del tutto coerentemente, per chi più volte ha rivalutato il ruolo dell’apologo, dal pastichee del saggio ibrido nel dibattito culturale. I saggi di Scienza di niente, d’altronde, sono dedicati non solo a letterati, ma anche a filosofi del Novecento: e di filosofia sono impregnati molti dei nuovi racconti, senza però rinunciare al gusto della narrazione, e a un lirismo discreto e genuino, che sa colorare i testi senza ambire alla prosa poetica. Persino quando il protagonista è letteralmente un filosofo (come si vedrà), le questioni etiche e conoscitive sono problematizzate tramite l’exemplum, non sbandierate didascalicamente né tanto meno risolte con piglio definitivo.
I racconti sono divisi in due sezioni. La prima accoglie quindici testi mediamente brevi ma di estensione assai varia – dalla fulminante pagina d’apertura (“Poesia”) alle quasi trenta del virtuosistico scavo psico-metamorfico di “Mente” – che riscrivono un personaggio o un episodio del mito, inteso peraltro in senso assai vasto: il mito greco, ovviamente (Orfeo ed Euridice, Ettore e Achille, Edipo e Giocasta, Enea, Eco e Narciso, Atteone e Artemide, Odisseo, Filottete) e biblico (Giobbe, Gesù), ma anche figure ‘mitiche’ della cultura antica e moderna come Socrate, Kant e Leopardi; fino ai protagonisti degli ultimi due racconti di questa sezione, figure anonime e contemporanee che anticipano la seconda sezione. Questa coincide infatti con un solo racconto lungo, “Conoscersi”, che abbandona decisamente il territorio mitico per raccontare la nascita e la rapida crisi dell’amore tra due universitari in viaggio fra i monti dell’Italia centrale.
“Conoscersi” attesta la maestria dell’autore nel gestire i tempi narrativi, gli equilibri strutturali del racconto, e il tratteggio psicologico dei protagonisti; tematicamente, prosegue invece quell’indagine spassionata del mondo della ‘post-giovinezza’ e delle sue crudeli disillusioni, già esplorata nelle precedenti prove narrative di Marchesini. Ma è nella prima e più corposa sezione che l’idea alla base del libro riserva le più belle sorprese. Come ha osservato Michele Farina in una recente presentazione, Marchesini riesce infatti nell’impresa di rileggere il mito in una maniera che non è né didascalica né oleografica, ma risulta al tempo stesso pienamente innovativa e fedele allo spirito degli originali. Il mito, soprattutto quello greco che qui gioca la parte preponderante – a dimostrazione dell’inesausta capacità della cultura ellenica di fecondare il nostro immaginario, al di là di ogni classicismo – è tutto il contrario, giova ricordarlo, di una storia fissata per sempre. Il mito arcaico si distingue per la proliferazione di varianti, locali o personali, frutto cioè dell’immaginazione dei poeti; in una cultura senza testi sacri e senza casta sacerdotale, la nuova versione di un racconto mitico non è eresia, non è più apocrifa delle altre, ma va ad arricchire un canone polimorfo e metamorfico. A suo modo, questo fa Marchesini, mostrando il massimo rispetto per il materiale di partenza proprio nel rileggerlo alla luce della sua sensibilità e imprimendo alle storie una svolta inattesa o un punto di vista inedito.
Spesso il racconto è giocato su un ribaltamento ironico e beffardo rispetto alla versione consacrata: Euridice che precede Orfeo all’uscita dall’Ade, ma gli sbarra poi per sempre le porte di casa; Enea che si ribella al suo destino di fondatore di Roma e stabilisce una nuova civiltà sulle ceneri di Troia; Giocasta che, anziché uccidersi e lasciare Edipo alla sua dolorosa espiazione, si chiude di nuovo con lui in un morboso idillio, mentre la peste continua a falcidiare Tebe… Altre volte, l’autore immagina il ‘dopo’: Giobbe ha riottenuto raddoppiate le sue ricchezze, ma è divorato da un senso d’irrealtà; Filottete è stato riaccolto nell’esercito acheo, ma vorrebbe essere un arciere qualunque, mentre su di lui pesano le aspettative deluse e i sospetti ‘complottisti’ del popolo. Delizioso capolavoro d’ambiguità è l’Odisseo tornato a Itaca, che nonostante il riconoscimento ufficiale da parte di Penelope parrebbe proprio essere un impostore plebeo (forse lo stesso Tersite?) – o si tratta dell’ennesima astuzia?… In altri casi, la storia resta nelle sue linee essenziali quella ‘ufficiale’, ma rivista con occhio nuovo: così il Socrate morente che riflette sul tradimento di Platone, o il Gesù che pure nell’attimo estremo ricorda il tradimento inflitto ai suoi genitori, umiliandoli dodicenne davanti ai dottori; così le storie di Atteone e di Narciso, raccontate come fiabe moderniste.
Non di rado, anche quella consacrata dalla grande letteratura classica come versione canonica di un mito era a sua volta la trovata innovativa di un singolo autore. Così, ad esempio, l’Edipo re sofocleo si distaccava dalla versione nota al poeta dell’Odissea, in cui Edipo continua a regnare dopo il suicidio di Epicasta-Giocasta, e ancor più da altre (come quella seguìta, forse, dal lirico Stesicoro) in cui Giocasta non solo non si uccide, ma sopravvive al figlio-marito. Immaginando che i due proseguano la loro vita coniugale, dunque, Marchesini si discosta dalle versioni più antiche del mito meno di quanto facesse lo stesso Sofocle.
Il ventaglio di registri e soluzioni stilistiche impiegate nei sedici racconti (dalla fiaba al racconto psicologico, dalla parodia all’apologo) dimostra una consumata abilità nel variare sottilmente approccio, scongiurando il tedio che potrebbe nascere dalla ripetizione. D’altronde, Marchesini non si limita a trasformare i racconti mitici, ma mette in mostra un virtuosismo davvero ‘ovidiano’ nella descrizione di letterali metamorfosi, sia quelle previste dal canovaccio mitologico (Atteone → cervo), sia quelle di sua invenzione. Due in particolare si segnalano: la trovata surreale e ironica di Ettore che, inseguito da Achille, si muta in tartaruga, facendo bisticciare la scena iliadica col paradosso di Zenone; e un pezzo di bravura, non meno profondo che brillante, sostenuto lungo l’intero arco del racconto: Kant che scivola nella demenza, perdendo inesorabilmente la salda presa mentale sul mondo, tornando a sciogliersi in una comunione prerazionale col tutto, si trasforma in Nietzsche (il Nietzsche folle di Torino), con tanto di baffoni. In un certo senso, anche questo racconto è una variazione geniale su un tema: gli ultimi giorni del filosofo regiomontano hanno spesso affascinato i moderni, da De Quincey a Manlio Sgalambro.
Paradossalmente, lavorare su personaggi già archetipici, sia pure con la rispettosa disinvoltura che si è detta, libera Marchesini da certa tendenza, riscontrabile nelle sue precedenti prove narrative, a costruire personaggi e situazioni un po’ ‘a tesi’, utili a illustrare o satireggiare certi tipi e tendenze. L’acume antropologico per ambienti e circoli sociali, quello psicologico per gli smottamenti dell’anima, l’orecchio per dialoghi realistici, né troppo letterari né caricaturalmente colloquiali – tutto ciò era già molto apprezzabile nella narrativa di Marchesini. Piuttosto ad essa mancava proprio quella zampata di gratuità, d’irrazionalità, d’audacia e anche d’asimmetria dell’artista ‘puro’, chiaramente molto più difficile da ottenere per un artista che sia al contempo critico, e non schizofrenico, ma cerchi anzi di mantenere un coerente e verificabile legame fra le due attività. Si sentiva allora a tratti che in quei contesti ricostruiti con tanta cura e osservazione diretta, senza appoggiarsi a facili stereotipi (e trattandosi spesso di contesti bolognesi e peri- o para-accademici, chi scrive può certificarlo) era tutto un po’ troppo coscienziosamente costruito. Personaggi indimenticabili (ma il discorso si può naturalmente estendere anche ad altri) come B. Lojacono dell’omonimo racconto (in False coscienze), o come i due antitetici modelli d’intellettuali e maestri incarnati dal Bernardo Pagi di Atti mancati e dall’Astolfo Bordiga del già citato racconto, erano assemblati e tratteggiati con grande perizia; al tempo stesso si sospettava lo sforzo eccessivo di esprimere una intera e articolata visione critica tramite le pagine di un romanzo o una novella, gravando così di eccessive responsabilità ogni battuta o tic di un personaggio. Di modo che, poi, certe violente svolte narrative parevano a loro volta un po’ troppo meccanicamente congegnate a correzione di questa stasi, per far precipitare il racconto verso il suo scioglimento; portando – osservava Andrea Volpe – a “finali un poco forzati” e paradossalmente troppo romanzeschi.
Nei nuovi racconti, invece, questa prosa pulita e precisa, densa, versatile senza esibizionismi, ritrova forse la sua dimensione ideale, che è quella della concisione ficcante, da epigramma disteso; e non dovendo sforzarsi a costruire ex novo figure e trame, può sbizzarrirsi con felice fantasia a ridar colore a canovacci già generalmente noti al lettore di media cultura. Lo fa gettando il protagonista fuori equilibrio, cogliendolo sull’orlo dell’attimo cruciale che lo fisserà nel mito, o dopo che questo si è ormai compiuto spalancando scenari imprevisti; oppure lo sorprende a dibattersi contro quell’unicità che è insieme elezione e condanna. In genere, comunque, in una situazione d’impostura e di vergogna, di tradimento fatto o subìto, che lo pone davanti ai suoi limiti. Con questa strategia, senza astrarli pretestuosamente dai loro contesti come farebbe un postmodernista, Marchesini fa sì che gli eroi non siano più idoli araldici o astratte funzioni narrative, ma uomini in carne ed ossa. Si capisce che un autore debba avere personalmente attraversato certi sentimenti per descriverli in modo tanto convincente. E non è un caso che alla vergogna in letteratura Marchesini abbia dedicato un lungo saggio in Casa di carte (Il Saggiatore, 2019), giustificando la scelta del tema col suo cogliere “un’ossessione personale”. Quella cavalcata tematica, che fra gli altri episodi toccava anche la fuga di Ettore nel libro XXII dell’Iliade, si concludeva proprio sulla vicenda di Filottete, grande esempio – secondo la celebre lettura di Edmund Wilson – di piaga umiliante che è il risvolto inscindibile di un dono sovrumano. In quella riflessione saggistica, datata 2016, si legge insomma già lo spunto svolto in “Come tutti”. E Marchesini chiudeva ricordando, con Camus, che “i miti sono forme cave fatte per colarci dentro ogni volta un significato urgente”: in pratica, il programma del nuovo libro.
In che senso, allora, sono personali questi miti? L’aggettivazione, in sé, è chiaramente ossimorica: il mito è tale in quanto pubblico, condiviso. Marchesini ci ha abituati, soprattutto nelle sue opere narrative, a titoli secchi e asciutti (formalmente, sintagmi aggettivali ‘SOST. + AGG.’), a un primo sguardo piattamente referenziali, che in realtà ci costringono a rileggere una locuzione logora, trovandone la motivazione nell’opera. Atti mancati non alludeva in modo orecchiante alla teoria freudiana, ma proprio su specifici atti mancati costruisce la sua trama; False coscienze ce ne esibisce tre, tutte diversamente esemplari; e questi Miti sono personali non solo e non tanto perché riletti originalmente dall’autore, ma perché ripristinano l’umanità di ciascun protagonista, e consentono dunque al lettore di ritrovarci un’età o un momento della propria vita. Per dirla con una battuta: in un’epoca in cui il verbo condividere richiama ormai come oggetto una storia su Instagram piuttosto che, ad esempio, dei valori fondanti, Marchesini capisce che per ritrovare la valenza interpersonale del mito non si può più assumerne a priori la rilevanza collettiva, ma bisogna passare per un’agnizione individuale. Quella da cui i suoi racconti probabilmente nascono, e che riescono benissimo a far scattare.
Matteo Marchesini, Miti personali. Sedici racconti, Roma, Voland, 2021, 144 pp., €13,00.