In una pagina dell’Ospite ingrato secondo, Franco Fortini racconta di «come arrossì fino alle tempie la giovane bibliotecaria» della Leninka di Mosca quando, anni addietro, lo scrittore aveva tentato di chiedere in lettura un volume di Tročkij: 

Quegli scritti tuttora interdetti testimoniano però che in Urss il rapporto tra parola e azione continua a essere più rischioso e autentico che da noi. […] Quando gli scritti di Tročkij saranno in edizione economica nelle edicole sovietiche, vorrà dire che avranno subito la stessa riduzione a “cultura” che, nelle nostre, hanno subito Nietzsche, Lenin, i documenti di Auschwitz e il diario di Guevara. Per agire, la verità si cercherà allora altre vie.
(Il prezzo [1973], in L’ospite ingrato primo e secondo, Marietti, 1985, p. 134)

Quanto può apparire inattuale, a cinquant’anni di distanza, la ricerca di Fortini di una stilla di verità nell’abisso dell’errore; e quanto oscura quell’espressione, «riduzione a ‘cultura’», ormai quasi inconcepibile nel suo significato letterale. Eppure, non vuol dire altro che disinnescare uno scritto, un evento, un periodo, e predicarne la ‘citabilità’ come momento pacificato di una storia collettiva. Basta pensare al divario tra l’interpretazione comunemente accettata del 1968 e alcune delle finalità, potenzialità e delle aspirazioni che non si sono concluse in quello che storicamente è stato.

Tuttavia, è con ogni evidenza palese la persistente impossibilità (benefica o venefica) da parte della cultura di ‘ridurre’ a sé alcuni dei più significativi rivolgimenti dell’ultimo cinquantennio. Le recenti notizie di cronaca giudiziaria – e in particolare la vicenda attorno all’Operazione «Ombre rosse» – sono un esempio lampante in questo senso. 

Messa di fronte a ciò che ancora muove a ridiscuterla o a negarla, questa non può rispondere se non nel suo linguaggio essenziale, spogliato di ogni ipocrisia: che è il linguaggio del discredito, della spoliazione e della vendetta. Al contempo, il sapere giuridico e statale si istituisce come ‘seconda natura’ dietro lo schermo di un’obiettività scientifica e veritativa; ma non è ancora riuscito ad oscurare completamente la zona d’ombra sulla quale ha fondato i suoi criteri di interpretazione del mondo. Ossia il sopruso e la guerra civile

È precisamente a questa zona d’ombra che si consacra Campi di battaglia (Sensibili alle foglie, 2021), libro d’esordio di Jessy Simonini. A riprova, sembra ora importante riportare per esteso il componimento intitolato, autoesplicativamente, Via Fracchia

Sempre che sia possibile stabilire
con certezza cartesiana i nomi
degli scherani, sempre che i colpevoli
esistano e non si tratti forse
dell’ennesimo discorso di vendetta:

non credo alla giustizia borghese
ma nemmeno al guidrigildo,
assegnare una colpa significa
adeguarsi ai riti lordati degli altri
alle delazioni alle trappole
al ritmo delle loro procedure

invece noi siamo come le irriducibili
ogni giorno ci trucchiamo
mettiamo cura quando è sera
nel disfare ogni nodo con la spazzola
e il sabato c’è tempo per lo smalto

siamo belle signore, ma di contatti
ne abbiamo sempre meno con chi
suo malgrado ancora rappresenta
lo stesso stato imperialista delle multinazionali

meglio sarebbe silenziarci
addossarci tutto il peso di un anniversario
muti davanti ai compagni morti

quarant’anni sono un tempo conveniente
per capire cosa è inacidito, cosa non si butta,
cosa si è perso o disperso fra le poche macerie
oneste di noi, di chi vivrà in noi, con noi
e spargerà le nostre ceneri in mare
o le lascerà su una lapide grigia
alla Certosa o al Monumentale.

Le poesie di Simonini testimoniano del dissidio che lega e insieme separa poeta e linguaggio poetico, ben espresso grazie a una dolcezza del dettato sempre sul punto di disconoscersi nel suo rovescio necessario, prosaico e anzi in prosa (che difatti spesso si accompagna ai versi). Da una parte la necessità della collera, «il solo sentimento da salvare» (p. 20); dall’altra, l’esigenza di «dare al disprezzo una scrittura» (p. 24). Se non altro perché il nemico, sotto la «prosa arida delle procedure», non ha mai smesso di covare a sua volta un «disprezzo come schema | politico e disciplina poetica, ferina | dichiarazione in una lingua ostile» (p. 88).

La raccolta, tripartita nelle sezioni intitolate ‘Il catalogo della Gioia Tauro’, ‘Albumi di famiglia’ e ‘Campi e campetti’, si apre dinanzi alla «miseria incontenibile» del comune calabrese, scandita dal «profilo delle case abbandonate, le insegne luminose dei discount, delle banche, delle sedi sindacali» (p. 17); e si chiude sull’esperienza irriducibile del «primo contatto col lacrimogeno, | con l’odore acre del loro | maledetto monopolio» (p. 91). A ricucire questi estremi, una precisa volontà: «una rivoluzione violenta e definitiva» (p. 17), e un’«organizzazione popolare» dai «ritmi rapidi illegali» (p. 91) mai vinta per sempre. 

L’io che in Via Fracchia si dissolve nel noi legandosi alle ‘irriducibili’ detenute da trent’anni nel carcere di Latina è in effetti il paradigma di un atteggiamento più generale in Simonini – sempre sospeso tra l’espressione e l’azione, tra la parola e il gesto, ma anche tra una dolorosa individualità e ciò che non meno dolorosamente la travalica in diacronia e in sincronia. 

Una dichiarata ‘condizione di figlio’ – sospesa tra una ‘tradizione dei vinti’ e una degli ‘oppressi’ – si mescola infatti (e in fitte intersezioni) ai ‘campi’ che lo attraversano e lo ricongiungono a diverse collettività «non conformi»; due forme della costrizione che, unite, contengono in sé un afflato potenzialmente liberatore.

Mettere cura sulla questione del corpo, delle identità, degli orientamenti, dei gesti al femminile «espunti dalla storia» (p. 61) è impensabile senza un legame con le lotte di ieri; rivendicare un anticapitalismo senza assumere le istanze del femminismo intersezionale rischia di tingersi di rossobruno. Per quanto la fune sia sottile, e ogni movimento di liberazione sia sempre sul crinale tra la potenza rivoluzionaria e la produzione di un’ideologia della separatezza e della frammentazione.

Così l’alluvione emiliana del 1966 – dietro la quale si staglia, inesorabile, il destino alternativo di un «campo enorme», «distrutto | poi ricucito col cemento» (p. 56) – si riflette nella determinazione con cui «una bracciante coperta dagli stracci», colta nell’atto di ammazzare una gallina a mani nude mentre «a tre ore di aereo | Althusser spiega il Capitale», «non studia la lotta di classe | la mette in atto» (p. 57). 

Così basta un trafiletto di giornale – «Più della metà degli elettori dell’estrema destra non va oltre la terza media» – per ricordare che il poeta è «figlio di chi non va oltre la terza media», ma anche di chi «quest’inverno | senza tema ha presidiato | gli incroci e le rotonde» (pp. 19-20), con un chiaro riferimento ai Gilets Jaunes.

Così, la liberazione sessuale sfiora solo marginalmente la sfera della copula – con imperativi precisi e «duri per noi figli della pornografia», come «fateci godere senza l’uccello» (p. 79) – e riguardano più in generale la liberazione dei corpi dal maschile e dai suoi gesti: il «solcare» e il «difendere» (p. 61), il «rompere» e il «penetrare» (p. 80)  che accomunano chiunque li compia alla stessa brama per gli «spazi di potere | sempre maschio e bianco pure | quando a esercitarlo è una femmina | o un frocio» (p. 82). 

Simonini ambisce a far trapelare dagli interstizi della ‘cultura’ quanto del passato permane invisibilizzato nel presente; e quanto delle condizioni e convinzioni personali si trasfigura in una collettività esemplare e cristallizzata a momenti diversi del tempo. Si intuisce una galleria di modelli spesso esecrati o reietti entro cui, nel confuso della vita quotidiana, il poeta ricerca lezioni meno sterili di quelle che si trova lanciate addosso dalla ‘cultura dei vincitori’: il bolscevismo degli sconfitti (Lenin, Luxemburg, Collontaj), il comunismo eretico (Rossanda), le anime ribelli dai saperi contadini e proletari (Maria Margotti), l’oscura coerenza dei brigatisti (Prospero Gallinari).

Questi nomi alludono ad altrettante forme della collera implacata che alimenta queste pagine; che cioè trova altra espressione nei modi della poesia. Una collera ragionante, dunque, di cui potrebbe dirsi quanto Thomas Mann auspicava dalla psicanalisi: «la forma dell’irrazionalismo moderno che si oppone a ogni abuso reazionario». A testimonianza di questa doppia tensione, i testi risultano racchiusi entro una prefazione ‘politica’ e una postfazione ‘letteraria’ (firmate rispettivamente da Pina Piccolo e Maria Luisa Vezzali), come il momento che rifugge in definitiva entrambe. 

«Oggi scrivo su un foglio | fra il latte e il lievito da comprare stamattina | tutti i nomi dei responsabili» (p. 48). Questo gesto semplice ed essenziale, che insieme nega, allude e spiega, racchiude in sé il dissidio tra la dimensione personale e una collettività non sempre ‘comune’, tra questo ‘mondo’ e altri ‘modi’ della vita. «La legittimità della poesia come anticipazione e “affermazione dell’assente” e la sua denuncia come orpello di una società delenda»: sono parole, ancora, di Fortini (da Verifica dei poteri, 1965); ma ben si adattano anche quelle di Vezzali, che si rifà al Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971): «accettazione totale della letteratura | rifiuto totale della letteratura».

Dalla lezione poetica di Rich e Anedda, si capisce che per Simonini è essenziale indicare l’abominio concentrandosi sul suo dettaglio minimo e più sofferente. Aspetti come il gusto spesso parodiante per la rima (sempre tendente al calco e allo slogan), il termine desueto, la ‘prosa’ e il ‘prosaico’ che si fanno più o meno evidenti nelle forme della testualità contribuiscono – uniti alle torsioni ipotattiche di molti componimenti, all’afflato lirico dei vocativi, agli a capo profondi come «falde» (p. 53) – a verificare un discorso che vuole fingersi in versi, e che fingendosi allude a un suo inverarsi nelle pratiche

Tuttavia, Simonini non vuole «manomettere la casa dei morti», bensì «capovolgere la lezione stabilita | dai vivi» (p. 40). Ha appreso dalle tesi benjaminiane Sul concetto di storia (1940) che «nemmeno i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince»; e che nel gesto «mimetico» di chi deturpa un monumento ai caduti «c’è un senso di sconfitta | ma anche un respiro finalmente vivo e grande» perché (con lo Zanzotto del Galateo in bosco, 1978), «Hanno come un fervore di fabbrica gli ossari. | Vi si ricevono ordini, ordinazioni interne. Vi si smista». 

Recuperare l’autenticità del conflitto significa allora muovere oltre o a lato del dissidio individuo-società; e mettere a fuoco lo spaventoso rimosso che fissa entrambi i termini entro un’eternante normatività. Significa – per usare un’espressione quanto mai calzante – raggiungere o sostare tra i «chiari | del bosco» (p. 45). E, se nessuna traccia resta nella sua poesia di qualsivoglia «diritto alla diversità» individuale, ciò avviene precisamente come forma della delegittimazione della società presente, e della facoltà che si riserva di includere e di escludere. 

Vero e proprio non-luogo a comunicare in un contesto che ancora nel 2021 riesce a comminare una sorveglianza speciale adducendo tra i capi d’accusa alcuni stralci dalla copertina di un libro, l’essenziale di Campi di battaglia deve farsi strada in altri modi. Il metodo è quello, sempre valido, della Parafrasi (p. 35): dove il poeta, esponendo le marche che insieme censurano e proteggono il suo testo da ritorsioni giuridiche (le iniziali di noti volti politici, i calembour che mimano slogan ‘impronunciabili’), sfida chiunque a non riconoscere quanto si tace: «mentre si muore nelle strade e sul lavoro | è irrilevante se a morire | tocca a un altro dei loro» (p. 35).

Anche quando non riesce ad abbandonare le spoglie della poesia ideologica e farsi poesia dell’ideologia – quando cioè non riesce a guadagnare un’autentica asimmetricità rispetto a ciò che muove a contestare e a negare –, Campi di battaglia di Simonini si rivela un libro essenziale per pensare un conflitto che non rinuncia alla cura, un’altra umanità che non dissimula dietro belle parole ciò che occorre per farla; e una poesia che finalmente smette di ricercare le proprie ragioni e le proprie finalità nel mondo così com’è. 

Anche i distici più scabri, anche le affermazioni più esplicitamente volontaristiche valgono più del più bel verso apologetico; perché diventano stampelle necessarie a comprendere quanto ancora manca da fare, e perché compensano con la loro spinta etica ogni formalizzazione estetica.

D’altronde, in un panorama poetico spesso paralizzato dall’indicibilità che lo sovrasta, e che viene perciò spinto verso l’esasperazione di una tecnica di osservazione che finisce col mettere a fuoco nitidamente solo l’impotenza da cui sgorga e a cui ritorna, «Oxa dall’Ottanta canta canzoni | migliori dei nostri inediti | da poeti borghesi» (p. 25). 


Jessy Simonini, Campi di Battaglia, Roma, Sensibili alle foglie, 2021, 103 pp., €13.