Proseguiamo la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2021. Gli incontri con gli autori si terranno in diretta streaming sui canali Facebook e YouTube del Premio: domani, alle ore 17, è il turno di Lorenzo Alunni.
Quale migliore definizione può darsi della morte se non quella di un’assenza presente ai vivi?
È con questo paradosso, con un’assenza che nel suo manifestarsi si fa presenza laddove prima non lo era mai stata, che si apre il luminoso esordio narrativo di Lorenzo Alunni. Antropologo prima ancora che autore, Alunni sa offrire alla scrittura letteraria gli apporti di una disciplina che possiede gli strumenti utili per restituire una comprensione della realtà all’insegna di quei caratteri della natura umana che ne determinano la costante tensione verso il metafisico.
Uscito per il Saggiatore nel novembre del 2020, Nel nome del diavolo è il racconto del viaggio del protagonista alla ricerca di uno zio sconosciuto e improvvisamente scomparso, compiuto nel tentativo di conoscere l’identità del misterioso parente e quindi ricomporre l’inaccettabile paradosso. Ma l’assurdità della scoperta spalanca le porte all’inverosimile: la morte dello zio apre una crepa nel reale verso una dimensione nella quale le soglie fra passato e presente, vita e morte, realtà e letteratura sono valicabili in più modi e direzioni. Ha inizio così un percorso che ben presto si delinea come pellegrinaggio rituale e spirituale, di cui Lampedusa, l’isola eletta a rifugio dallo zio, segna la prima imprescindibile tappa.
L’identità dello zio però, a malapena intravista fra le mura di una spoglia stanza nel cuore dell’isola, risulta da subito sfuggente e beffarda, restia a rivelarsi se non in quell’unica caratteristica con la quale sembra volersi identificare del tutto: l’ossessione per Moby Dick, di cui numerose copie in ogni edizione costituiscono gli unici complementi d’arredo nella casa abbandonata. L’ossessione si insinua persecutoria lungo il tragitto del protagonista, esasperando la visionarietà delle esperienze che si troverà a vivere come ospite clandestino di privati spazi magico-evocatori sorti dal passato di antiche tradizioni custodite nel tempo. Una serie di sequenze rappresenta i rituali funebri in cui il giovane incappa nei diversi luoghi della penisola, scandendo la narrazione, e l’opera di Melville diventa un elemento centrale nello svolgimento dell’intreccio e nella costruzione del significato della ricerca, perché le pagine del romanzo sono l’oggetto ritualizzato in ognuna di queste cerimonie apparentemente prive di correlazione. I conturbanti episodi hanno inizio quando il protagonista, nascosto in un campo profughi lampedusano, spia la lunga funzione religiosa celebrata da un moderno sciamano per il piccolo gruppo di fedeli che lo attornia. Stordito dalla cantilena e dal fumo, il giovane scivola in un profondo stato di alterazione della coscienza nel quale immagina di rivivere il naufragio di Ismaele, mentre un vortice di immagini e suggestioni di tragedie marine si scatena nella sua mente allucinata: sullo stesso mare va alla deriva la zattera della Medusa, galleggiano senza speranza le tre scialuppe della Essex, svetta incagliata l’Amphitrite e un gommone libico traghetta settantadue anime abbandonate verso morte sicura. La scena spaventa a tal punto il protagonista da spingerlo ad abbandonare la ricerca fuggendo dallo straordinario, ma una forza lo trascina, puntellando il suo ritorno di fermate alla scoperta di altri culti nascosti – cerimonie celebrative per commemorare i defunti e conservarne il ricordo, rivendicare la loro presenza nel mondo dei vivi e infine elaborare il dolore per la loro perdita. Così il viaggio si prolunga e assume progressivamente un significato trascendente che il protagonista fa sempre più fatica ad afferrare.
Da dietro le quinte l’ombra dello zio conduce i passi del nipote, ma a sospingere quest’ultimo agisce anche una forza in un certo senso artistico-letteraria, dal momento che in diversi momenti le suggestioni dalle letture e dalla musica influenzano i suoi pensieri insieme lucidi e deliranti. A convincerlo a fermarsi presso Messina è infatti la scoperta di una corrispondenza fra le vite di Melville, Verdi e Shakespeare, verificatasi quando Melville inserì la città siciliana tra le tappe del suo Grand Tour per assistere alla rappresentazione del Macbeth di Verdi. Lungo le strade della città, mentre ascolta l’opera che accompagna i suoi passi, il protagonista si imbatte nel rituale luttuoso che un gruppetto di sudamericani seduti sull’asfalto sta celebrando di fronte a un piccolo altare improvvisato. Sul tabernacolo sono sistemate a mo’ di santini le fotografie dei figli perduti, che per il breve tempo del rito restituiscono completezza alla famiglia dilaniata.
Intanto, una prospettiva che si fa onnisciente guarda alla biografia e alle opere dei tre artisti per scorgerne le ferite comuni e legarle ai motivi principali che il testo scruta tramite molteplici modalità. Fra le righe della narrazione si svolge così una riflessione sul ruolo dell’esperienza estetica nella nostra comprensione della realtà da un lato e partecipazione alla sofferenza altrui dall’altro, in virtù della sua capacità di coinvolgerci e allo stesso tempo di garantirci una distanza di sicurezza che ci protegga dalle implicazioni emotive che la vista diretta dell’orrore comporta.
Si giunge così all’ultima tappa dell’accidentato percorso, quella napoletana presso il cimitero delle Fontanelle. Questa volta il rito clandestino è l’adorazione dei teschi in cui risiedono le «capuzzelle», le anime che chiedono pace, e a celebrarlo sono alcune donne e un uomo che ne conservano la credenza. Pregano perché i morti possano avere pace e chiedono in cambio grazia e protezione, con formule che si fanno atto performativo e instaurano un legame magico tra aldilà e mondo terreno, entrambi abitati da individui che si riconoscono reciprocamente tra le due dimensioni.
Nonostante il carattere cadenzato della trama, le diverse tappe del percorso, i singoli episodi, le note erudite che si inseriscono nel ritmo della narrazione non creano effetti di frammentarietà. Tutto è ricondotto ad un nucleo originario, quello della ricerca dello zio e dell’ossessione per Moby Dick, da cui i pensieri e gli episodi conseguono con naturalezza; e la costanza di tono e prospettiva garantisce omogeneità al tessuto narrativo. Si tratta di una prospettiva fortemente connotata, quella di un narratore che interpreta in termini antropologici il proprio vissuto e la realtà intorno a sé. Perciò, la riscoperta della ritualità sul suolo italiano viene continuamente ricondotta a casi di studio dall’antropologia classica, realizzando accostamenti fra mondi all’apparenza ineludibilmente separati. Un filo rosso tiene insieme tutti gli elementi come tasselli di un mosaico che si legge nel suo complesso soltanto grazie a ogni parte, e conferisce significato a ogni parte in virtù del senso d’insieme. Solo traguardandolo da questo punto di vista è infine possibile comprendere il significato del viaggio del protagonista.
In quest’ottica il personaggio dello zio risulta fondamentale: una presenza-assenza che assume un ruolo tanto più importante nel meccanismo dell’intreccio proprio in virtù di questa sua natura ambivalente. È lui a trascinare il nipote attraverso quello che a tutti gli effetti risulta un rito di passaggio che si realizza nell’attraversamento di una «soglia dell’inconoscibilità». Come lo zio in vita aveva deciso di compiere un atto di sottrazione con il quale «era sfuggito e insieme aveva abbracciato la vulnerabilità degli altri», così il protagonista scopre «la precarietà come unica forma di vita possibile», riesce a evadere da quella chiusura nella propria individualità dalla quale gli improvvisati rituali quotidiani non lo avevano salvato e finalmente comprende la necessità di riconoscersi in rapporto agli altri e nell’esposizione a essi. Se dapprima sembrava sempre estraneo a ogni gruppo di individui e rimaneva costantemente escluso da una certa omertosa solidarietà o comunicazione silenziosa, grazie all’esperienza di condivisione della ritualizzazione del dolore riesce a riconoscersi all’interno di una condizione di umanità comune. Trova così un proprio posto nel mondo radicandosi al suo interno, evadendo da quello «stato di sospensione» individualizzante nel quale precedentemente si trovava. D’altronde, la scomparsa di una persona cara svolge sempre la funzione di riassegnare ai superstiti un nuovo posto nel mondo. Nel restituire i pensieri del protagonista mentre si interroga sull’investitura ricevuta da parte del fantasma dello zio, la narrazione si fa riflessione intorno al valore del lutto e riconoscimento del ruolo dell’empatia nella vita sociale dell’uomo, indagando le modalità grazie alle quali l’uomo tenta di sopportare, comprendere e attribuire significato alla morte e all’assenza degli altri. In questo contesto il rito si rivela lo strumento elettivo per conferire e approfondire significati, e le credenze magiche o religiose acquistano un valore e una forza innegabili. È la dimensione priva di rapporti spaziotemporali obbligati e di certezze empiriche a rivelarsi la più ospitale per l’instaurarsi di una solidarietà fra gli uomini che permetta loro di comprendere empaticamente le tragedie accadute agli altri e la vulnerabilità che ci accomuna tutti.
Così, sul treno di ritorno verso casa in un ultimo stato di trance allucinatoria si conclude il rituale di passaggio. La narrazione riporta circolarmente alla prima visione onirica per concluderla e offrire l’appiglio della salvezza al ragazzo, che può riemergere dalle acque del surreale:
«[…] confuso e allo stremo e ancora nel pieno dello spavento eppure così felice di unirmi a loro, salvato come loro e salvato da loro, nella ricerca dei suoi figli perduti trovò subito un altro orfano, ormai sono quasi arrivato, mi manca un ultimo sforzo e sono sul pontile anch’io, con loro, salvo, salvo da chissà cosa ma salvo, diretto chissà dove ma che importa, che importa…» (223)
Suggerendo in controluce la possibilità che l’opera melvilliana continui a esercitare il suo potere magico-evocatorio e che il rito di passaggio possa ripetersi, il romanzo si conclude suggestivamente. Ma è soffermandosi sul polo della ricezione che si può riconoscere il maggior valore del libro, in quanto veicolo evocativo capace di far partecipare lo stesso lettore all’esperienza rituale: la narrazione non stila soltanto il resoconto degli eventi, né riporta semplicemente i pensieri del protagonista, ma sfrutta espedienti narrativi e retorici affinché anche il lettore si senta ipnoticamente coinvolto nello stato di trance rappresentato nella diegesi. L’insistenza sulla descrizione degli aspetti sonori e musicali, la presenza cospicua di ripetizioni che riportano le parole degli sciamani, dei versi di Verdi, delle righe di Moby Dick, ricreano la litania cantilenante che veicola i sensi verso uno stato di incantamento.
Del resto, per il lettore l’esperienza rituale si sdoppia, rifrangendosi proprio in virtù della natura dell’opera letteraria. I personaggi romanzeschi infatti non sono altro che fantasmi – fittizi nella loro natura di struttura semantica e concretamente referenziali nel loro valore tipico e simbolico – la cui presenza, per dirlo con Ricoeur, è determinata dall’azione raccontata dal narratore “in un’evocazione quasi sciamanica”. La letteratura stessa inoltre è un rituale tramite il quale da sempre tentiamo di soddisfare un bisogno costitutivo della natura umana, quello di comprendere e di attribuire un significato a ciò che sembra non averlo. La ricezione letteraria ci consente, come insegnava già Aristotele, di vivere un’esperienza intellettuale e insieme emozionale di condivisione di una condizione umana, oltrepassando i limiti spaziotemporali dell’individualità e scongiurando gli effetti nefasti della violenza. Questa è innanzitutto la possibilità che il romanzo di Alunni ci offre di cogliere al massimo grado, in un tempo in cui la globalizzazione e la popolarità della rappresentazione mediatica ne determinano più che mai l’esigenza.
Lorenzo Alunni, Nel nome del diavolo, Il Saggiatore, 2020, pp. 256, € 22,00.