La verità non è un costrutto relativo, eppure ciascuno ne possiede una propria versione destinata a deflagrare e a mostrare in controluce le proprie ombre nel momento in cui entra in attrito con la versione dell’altro. La verità della letteratura è anch’essa una verità negoziabile, sempre elusiva e volubile. Ciò che il romanzo mutua dal reale per poi rielaborarlo, destrutturarlo, camuffarlo, diviene realtà ulteriore, realtà aumentata, bugiarda, ingannevole forse, incapsulata in un tempo fermo e narrativamente compiuto. Esercizi di fiducia, vincitore del National Book Award nel 2019 e primo libro tradotto in Italia di Susan Choi (Sur, traduzione di Isabella Zani), è un’opera trasformista, polifonica e stratificata che interroga le possibilità del romanzo di costruire una storia personale e veritiera a partire da una storia – la stessa –, ma artefatta, alterata e incompleta.

Suddiviso in tre macrosezioni che ribaltano ogni volta la prospettiva diegetica, le focalizzazioni interne, i piani temporali, rivelando le crepe nascoste, i non-detti della trama del blocco precedente, il romanzo di Choi inizia apparentemente come un teen drama narrato in terza persona, le cui dinamiche interne non sembrano essere poi così originali: un gruppo di ragazzi, tra i quattordici e i quindici anni, frequenta una scuola di arti performative in una non specificata città di media grandezza, facendo diretta esperienza di tutte le tappe più o meno obbligatorie che costituiscono l’adolescenza di ogni giovane, in particolar modo amori ruvidi, dolorosi e fugaci, moti improvvisi di ribellione, incomprensioni durature con i propri genitori, incapacità di comunicare, desiderio di isolamento, scoppi di rabbia e invidia, vendette crudeli, problemi di accettazione del proprio corpo, odi e rancori prolungati.

Il fatto che le vicende si svolgano all’interno di una scuola in cui si formano, sotto l’egida dell’istrionico e ambiguo professor Kingsley, futuri attori teatrali complica e intorbida la fisionomia dei vari personaggi. Spesso questi ultimi – specialmente Sarah, la protagonista della prima sezione – sembrano interpretare consapevolmente la parte a loro affidata dal contesto in cui sono calati piuttosto che esplicitare la loro reale indole, indossando in occasioni diverse le maschere più adatte per sembrare l’opposto di sé stessi. Come se la scuola che li ospita fosse il primo vero palcoscenico della loro vita, la realtà quotidiana dei personaggi è sovraesposta agli occhi di tutti, soprattutto le crisi esistenziali di Sarah, che si innamora follemente di David senza però essere capace di alimentare nella maniera adeguata il fuoco di un amore tossico e totalizzante, presto tramutatosi in lenta e sfibrante agonia. L’amore si palesa in forme antitetiche per David e Sarah, incapaci di adeguare le loro aspettative ai bisogni dell’altro.

Per David, l’amore era dichiarazione. Che altro, se no? Per Sarah, l’amore era un segreto condiviso. Che altro se no?

Gli esercizi a cui vengono sottoposti gli studenti, in particolare gli “esercizi di fiducia” portati avanti in maniera controversa dal professor Kingsley, sembrano assumere allora il compito catartico ma sofferto di emancipare i ragazzi dal melodramma che li vede invischiati più o meno volutamente dentro e fuori dalle aule scolastiche, per ricondurli progressivamente a riacquisire consapevolezza di sé, dell’altro e dell’universo circostante. In questo processo forzato di denudamento emotivo, che somiglia tanto a un castigo o a una persecuzione, i sentimenti reali mostrano la propria autenticità, ma vengono poi prontamente rinnegati, proprio perché l’adolescenza è l’età del travestimento, dell’imitazione, della bugia reiterata.

Ma Sarah e David sono troppo immaturi, troppo decisi a perseguire il loro melodramma privato a spese del gruppo. Non elaborano l’emozione, l’accumulano. Sembrano un disco rotto. Sono due narcisisti.

L’identità è costantemente rinegoziata, persa, reinventata, in un’altalena schizoide di introspezione ed estroversione che scandaglia i momenti salienti di crescita e maturazione. Recitare è più facile che vivere.

Che brava [Sarah], tutto a un tratto – a recitare un autentico ruolo mentre nascondeva, del tutto, un’identità reale che non le serviva a niente. […] Indifferente ai due cretini per cui interpretava la parte, indifferente all’uccello premuto contro il culo, indifferente all’affare che le ricadeva in mano, indifferente alla stanza, si concentrò su David.

Proprio quando il flusso della narrazione sembra dirigersi molto convenzionalmente verso il canonico racconto di formazione, proseguendo nella descrizione di storie che appaiono troppo grandi, violente e pregnanti per i personaggi che si trovano a interpretarle, la storia si interrompe e avviene un brusco salto diegetico che rivela retrospettivamente la natura metanarrativa della prima sezione, consistente in un “romanzo di secondo grado” racchiuso quindi nel più ampio contenitore romanzesco. Inaugurando il secondo blocco narrativo, il romanzo denuncia la matrice fittizia che caratterizza al fondo la sua prima parte, riconfigurando la geometria emozionale di un racconto delineatosi fino a quel momento in maniera apparentemente lineare, semplice, illuminato in ogni sua svolta.

Il lettore è indotto a riconsiderare quanto letto nelle pagine antecedenti e a ritrattare le convinzioni che aveva progressivamente maturato. I tratti e le sembianze dei personaggi che avevamo imparato a conoscere subiscono un processo di rapida demistificazione e l’intera storia fin qui narrata viene posta sotto una prospettiva differente, non solo in virtù della cesura temporale (sono passati circa dodici anni dal periodo in cui sono narrati i fatti della prima sezione), ma anche di un netto cambiamento di registro e focalizzazione. Se infatti la protagonista della sezione iniziale era Sarah, al centro del racconto c’è ora Karen, sino a questo momento personaggio minore; il narratore onnisciente le lascia spesso la parola, permettendo quindi alla prima persona di sconfinare e accorciare la distanza tra racconto e voce narrante. La dialettica che si sviluppa tra prima e terza persona innesca una tensione costruttiva che permette al racconto di progredire con ritmo accelerato, assecondando l’urgenza di integrare, rettificare, correggere tutte le falle, le incongruenze e le controversie emerse all’interno del romanzo-nel-romanzo che costituisce la prima sezione, la cui autrice, si viene subito a scoprire, è proprio la stessa Sarah che vi campeggiava al centro come protagonista indiscutibile.

«Karen» era ferma davanti alla libreria Skylight di Los Angeles ad aspettare l’autrice, sua vecchia amica. L’autrice, sua ex compagna di scuola. Dire «amica» era presumere troppo? Dire «Karen» era concederle troppo? «Karen» non si chiamava «Karen», ma «Karen» aveva capito, quando aveva letto il nome «Karen», che era di lei che si parlava.

Entro l’intelaiatura di questo nuovo livello diegetico, il cui grado di verità si avvicina maggiormente alla realtà dei fatti vissuti (una realtà sempre romanzesca ovviamente), le dinamiche centrali della sezione precedente vengono in parte sbugiardate, in parte arricchite, in parte esplicate in virtù della nuova angolatura enunciativa. Nella seconda sezione Karen, o meglio «Karen» (i nomi sfalsati segnalano che non ci sarà mai piena coincidenza tra dati reali e dati letterari), assume il rilievo e lo spessore che le è ingiustamente stato negato da Sarah (almeno a parer suo) nel romanzo da lei scritto. Il processo di svelamento graduale e contrastivo permette di gettare una luce nuova e trasfigurante sulle ellissi del primo racconto, di esplicitare verità allora omesse e rimosse, di ridefinire i momenti decisivi e il loro valore intrinseco.

La diversa celebrità di David e Sarah era l’indizio rivelatore di un qualche universo alternativo dove tutto era ribaltato, e al posto della scoperta, dell’amore e del successo vigevano la distorsione, il distacco e il fallimento. Quello era lo spettacolo di cui erano protagonisti. Gli esercizi che Kingsley li costringeva a fare, ho capito solo molti anni dopo, erano una forma di pornografia.

È all’interno di questo complesso ribaltamento narrativo che l’opera di Choi trova la sua ragion d’essere, rivelando le sfasature forzose che si sono venute a creare nel momento in cui la realtà è fatta oggetto di rappresentazione senza piena aderenza ai fatti. Rimuovendo la patina romanticheggiante e generazionale che contornava le vicende narrate nella prima sezione, i fatti si mostrano ora nella loro veritiera e triste prosasticità, e i dolori giovanili accennati e sfumati, tratteggiati in precedenza in maniera relativamente convenzionale, esibiscono la loro natura di traumi segnanti e laceranti, capaci di condizionare negativamente un’intera vita. La prospettiva deformata della prima sezione emerge dunque per contrasto graduale con le verità svelate nel racconto di Karen, capace di riposizionare in maniera corretta (nell’ottica della fiducia potenziale accordata dal lettore al personaggio-Karen) le tessere di un mosaico apparentemente decostruito e distorto dalla finzione romanzesca tessuta da Sarah.

Quella di Karen è un’altra versione della storia, che sembra contenere in sé il maggior numero di verità possibili. Acquisita consapevolezza di sé e della propria storia, della propria identità ferita e traviata, Karen riconosce il contorno adesso evidente del suo passato ed è in grado di padroneggiare le potenzialità falsificatorie del teatro a suo piacimento, senza rimanerne irretita come accadeva invece durante la sua adolescenza, quando i confini labili della volontà cedevano sotto il peso delle meschinità spacciate per affetto illusorio, delle promesse ingannevoli e dei raggiri abilmente organizzati. La realtà funesta del dramma vince sulle sue proiezioni romanzesche, suggerendo velatamente che dietro ai moti di fascinazione e vagheggiamento così canonici nella fenomenologia relazionale sviluppatasi a scuola tra gli studenti, i maestri e gli artisti arrivati in visita dall’estero c’era ben altro, un ambiguo meccanismo che mescolava consenso, fiducia, ammirazione e manipolazione sino a trascinare tutti gli attori in gioco in un limbo pericoloso su cui si dipanava l’ombra aguzza dell’abuso fisico e mentale.

Nella terza sezione assistiamo a un ulteriore radicale mutamento della messinscena romanzesca. Si verifica non solo una ulteriore cesura temporale rispetto agli avvenimenti raccontati nella seconda sezione, ma un altro cambiamento dell’angolatura narrativa, per cui adesso la focalizzazione del narratore onnisciente passa attraverso la figlia di Karen, Claire.  Questo terzo e ultimo spaccato narrativo permette di illuminare con maggior forza alcuni aspetti della storia rimasti enigmatici e lacunosi, in special modo la natura camaleontica di alcuni personaggi particolarmente ambigui. Si tratta, tuttavia, di un’illuminazione irregolare, che genera una asimmetria dal retrogusto amaro tra la prospettiva interna al mondo narrativo e quella del lettore. Alla fine di un’orbita circolare che chiude il romanzo esattamente nel luogo topico in cui ha preso avvio, infatti, i tentativi da parte di Claire di arrivare a conoscere pienamente il proprio passato sono destinati a fallire, ed è solo al lettore che è concesso rimettere insieme tutte le componenti di questa articolata costruzione romanzesca, rintracciare e riconnettere i fili mancanti, riempire retrospettivamente i vuoti narrativi.

Dalla deflagrazione che si innesca tra i tre blocchi narrativi emerge per gradi la fisionomia di una storia reale (un “reale” sempre romanzesco), le cui ombre e le cui epifanie si alternano in un paradossale processo di demistificazione della verità interamente giocato attraverso la dialettica interna alle componenti narrative del romanzo. I diversi livelli di lettura che vengono a crearsi tramite la segmentazione triadica non tendono a una sintesi conclusiva, bensì sono destinati a collidere, a mostrare la corda. L’impressione è che il fulcro del racconto sia talmente gravoso e sfaccettato da dover essere svelato per gradi, per sviamenti, per accostamenti reticenti e ondivaghi. Rappresentare la realtà non vuol dire necessariamente rappresentarne la verità, tanto può essere lasciato fuori, tralasciato, ingigantito, minimizzato. Si produce sempre uno scarto, uno slittamento verso  i due poli del discorso – pare voglia suggerirci Choi – per cui diventa arduo stilare gerarchie e decidere da quale parte posizionarsi.

Nella dialettica che scaturisce tra rappresentazione del reale e verità l’elemento soggettivo si tramuta in pietra angolare, elemento irriducibile che condiziona alla base la prospettiva dei fatti e la ricezione degli stessi da parte dei lettori. In questo romanzo vi è allora in fondo un’unica grande storia che, come fosse al centro di un fenomeno di dispersione ottica, viene filtrata attraverso il prisma autoriale, dando vita a tre diverse onde, tre diverse diramazioni, nessuna più autorevole dell’altra, ma tutte in grado di arricchire, sfumare e ispessire i contorni delle vicende narrate, di rivelarne la fisionomia nascosta.

Gestendo con padronanza l’architettura tripartita di questo romanzo metanarrativo e stilisticamente eterogeneo, Susan Choi riesce a veicolare con grande forza espressiva e formale, anche in virtù di una prosa che poco o nulla lascia all’immaginazione, una storia di fragilità latenti e inconsapevoli, in cui la verità di un trauma mai del tutto svelato assurge a elemento catalizzatore dell’intero arco narrativo, irradiando a cascata gli anfratti oscuri e celati che si sviluppano ai suoi lati, cresciuti sul terreno opaco di una realtà contraffatta e amputata.


Susan Choi, Esercizi di fiducia (trad. it. Isabella Zani), Roma, Sur, pp. 320, €18.