Alcuni romanzi hanno il grande merito di indirizzare la riflessione collettiva su temi che non possono essere più rimandati, parlando al lettore con disarmante tempismo. La donna gelata di Annie Ernaux, pubblicato da L’Orma editore nel febbraio 2021, è uno di questi libri. Uscito nella traduzione italiana di Lorenzo Flabbi a un anno esatto dallo scoppio della pandemia, questa storia è un’analisi lucida e brutalmente onesta del ruolo della donna all’interno dell’istituzione familiare borghese prima dei movimenti femministi della seconda ondata, negli anni sessanta e settanta. La donna gelata è un titolo-denuncia che descrive un’idea di donna rimasta ancorata a una distribuzione tradizionale dei ruoli attraverso il tempo (e nonostante il tempo). Tradurre questo romanzo in questo preciso momento storico, come anche leggerlo, consigliarlo, recensirlo, parlarne, è un atto politico importante che mette in luce quanto, nonostante tutti i traguardi raggiunti in passato, si sia ancora molto lontani da una società in cui la donna riesce a collocarsi come soggetto.
Nella maggior parte dei libri di Annie Ernaux, il microcosmo autobiografico si apre a una riflessione universale su temi specifici. In romanzi come Il posto (2014), Memorie di ragazza (2016), La vergogna (2018), L’evento (2019) la scrittrice rinunciava a creare qualsiasi tipo di sospensione narrativa introducendo fin da subito il nucleo della storia: rispettivamente la morte del proprio padre, la prima esperienza sessuale, una scena di violenza domestica, un aborto. La donna gelata rompe questo schema dal particolare all’universale presentandosi come una ricerca in via di svolgimento sul tema dei ruoli di genere.
Dove collocare il momento in cui la diseguaglianza si viene a imporre sui due sessi? Il motore della narrazione parte da questa domanda non pronunciata. «Sto cercando il legame tra la me ragazza e la donna», dichiara la voce narrante, «e so che c’è almeno un’ombra che non si è mai affacciata sulla mia infanzia: l’idea che le bambine siano creature tenere e deboli, inferiori ai maschi. Che ci siano differenze nei ruoli».
Virilità e femminilità sono due parole vuote che una giovanissima Ernaux non riesce a collocare se non molto tardi, solo una volta uscita fuori da un contesto familiare che lei stessa definisce «senza rispetto per i ruoli tradizionali». In effetti, tra il bar e la drogheria i genitori si distribuiscono il tempo produttivo e quello della cura, e se da un lato la madre lavora in negozio, dall’altro il padre si dedica alla cucina e ad altri lavori domestici. L’infanzia è un luogo in cui i giochi e gli atteggiamenti si confondono senza conoscere binarismo di genere. L’educazione anomala ricevuta viene presto spiegata dall’ambizione parentale al salto di classe: grazie all’istruzione la bambina avrebbe potuto emanciparsi diventando «qualcuno», uno status che secondo la famiglia di Ernaux «non aveva sesso».
Il romanzo si articola in una rievocazione di eventi e riflessioni che sembrano dividersi in due parti: da un lato ci sono l’infanzia e la prima giovinezza, luogo delle aspettative e della prima formazione, senza distinzione di ruoli né generi, vissute quasi in una bolla a sé stante rispetto alla società tutta; dall’altro c’è la cronaca della vita matrimoniale. In questa seconda parte, la scrittrice distrugge uno dei punti fermi su cui la madre aveva sempre insistito, ovvero la convinzione che la cultura avrebbe avuto il potere di proteggerla da ogni cosa, «incluso il potere degli uomini».
L’educazione in collegio e l’amicizia con Brigitte anticipano l’introduzione della giovane protagonista a quei valori sociali borghesi che Ernaux non aveva mai conosciuto in famiglia, a partire dalla divisione del lavoro domestico come elemento fondante di una specifica idea di femminilità. Il matrimonio viene additato in queste pagine, senza mezzi termini, come l’istituzione sociale responsabile dell’oppressione della donna. Il contrasto tra l’idillio del fidanzamento e la claustrofobica gabbia sociale in cui la ragazza viene ricollocata in quanto moglie è netto e disperato; il cibo, che prima era fonte di gioia e di cura, diventa il simbolo stesso della prigionia, con quel suo scandire ossessivo del tempo domestico:
Trecentosessantacinque pasti moltiplicati per due, novecento volte la padella, la pentola sul fuoco, migliaia di uova da rompere, di fettine di carne da girare, di cartoni del latte da svuotare. Il lavoro naturale delle donne, tutte le donne. Avere una professione, come lui, presto, non mi salverà dal giogo dei pranzetti. Qual è l’incombenza che un uomo è costretto a sobbarcarsi, tutti i giorni, due volte al giorno, semplicemente in quanto uomo?
Quando al piccolo nucleo si aggiunge il primo figlio, il divario nella distribuzione di ruoli in famiglia si fa ancora più incolmabile, ed è qui che il discorso di Ernaux diventa brutale, cinico e terribilmente onesto nello sfatare i miti romantici sulla maternità, o nel riportare il suo risentimento nei confronti del tempo libero di suo marito, durante i primi mesi di vita del bambino. Il romanzo diventa nell’ultima parte quasi una telecamera nascosta nell’appartamento di una donna sola, illuminando quella zona grigia che molti uomini non vedono in quanto assorbiti dalle attività del tempo produttivo; c’è qui una riflessione importante sul rapporto tra tempo produttivo e tempo riproduttivo, che invece è affidato alla donna («mi pende ventiquattr’ore al giorno sulla testa, e soltanto sulla mia, per forza, perché ormai il carico del bambino ce l’ho tutto io»). Emblematiche in tal senso sono le pagine che commentano il libro Cresco mio figlio, «la bibbia delle madri moderne», che la narratrice riceve in regalo dal marito:
[…] Cresco mio figlio, al singolare, con un io, un me, la madre, ovviamente. […] “papà è il capo, l’eroe, è lui che comanda, papà è il più grande, il più forte, è lui che guida la macchina a tutta velocità. Mamma è la fatina, quella che culla, consola, sorride, quella che dà da mangiare e da bere. E che è sempre lì, quando c’è bisogno di lei”, pagina quattrocentoventicinque. Una voce capace di dire cose terribili […].
Riprendendo posizioni proprie del pensiero femminista di orientamento marxista, con La donna gelata Ernaux rilegge la sua esperienza come quella di un individuo sempre più alienato a cui è negata perfino la possibilità di coltivare una rete sociale al di fuori della casa, come invece può fare il marito lavorando in ufficio.
Il tema della distribuzione dei ruoli all’interno della coppia e, di conseguenza, quello della cura dei figli, è riemerso con prepotenza nel corso dei mesi della pandemia. Come ha ricordato Jennifer Guerra nel saggio Il capitale amoroso (Bompiani, 2021), complice anche la disparità di genere in ambito salariale, molte più donne che uomini hanno dovuto rinunciare al proprio lavoro per far fronte all’organizzazione domestica del nucleo familiare; per coloro che invece sono riuscite a mantenere le proprie posizioni lavorative, con lo stesso tempo a disposizione, il carico di cura è raddoppiato. Ripercorrere i ricordi di Annie Ernaux su questo tema attraverso le pagine del suo ultimo romanzo è un’esperienza molto forte per il modo in cui possiamo riconoscerla vicina. La parità dei diritti non basta, ci ricorda la scrittrice francese, è adesso più che mai necessario ripensare a un’organizzazione diversa della famiglia nucleare puntando all’estensione del dominio della cura.
Annie Ernaux, La donna gelata, Roma, L’orma editore, 2021