Concludiamo oggi la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2021. Gli incontri con gli autori si terranno in diretta streaming sui canali Facebook e YouTube del Premio: domani, alle ore 17, è il turno di Mariangela Mianiti.
«Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via»
Organsa (il verri, 2021) di Mariangela Mianiti – giornalista per “il manifesto”, già autrice di un romanzo (Anche il caviale stanca, 2011) e due reportages narrativi (Una notte da entraîneuse, 2005, e La vita Viagra, 2010) – si apre con una busta piena di fotografie. In un’intervista l’autrice racconterà che l’urgenza di scrivere le è venuta proprio interrogando i dettagli di un vecchio scatto («ogni foto è un potenziale grande romanzo»):
La busta bianca è sulla scrivania nera da ieri sera. Dentro ci sono le foto di quattro generazioni, tredici persone più la bastardina Stella pigiati in quindici centimetri per dieci. […] Evito la busta per tutta la mattina. Poi mi decido. Sfilo una a una, con lentezza, trenta stampe in bianco e nero. In mezzo a un prato e sotto un pergolato di uva fragola, che qui chiamano frambò, c’è un famiglione emiliano. […] Sullo sfondo delle foto si intravede un casone quadrato. È l’osteria dove io e i miei fratelli abbiamo vissuto, studiato e litigato per anni. Quattro irrequieti fatti in modo diverso, con caratteri diversi, sogni diversi, ma un desiderio comune: volare via.
Si delinea il cronotopo: il famiglione emiliano è catturato dalle stampe in bianco e nero, siamo negli anni Cinquanta-Sessanta, davanti all’osteria di un paesino della bassa parmense, la cui calata ci pare di sentire, seppur attutita (frambò). Ma il romanzo, anche se affollato, non è corale. È un’altra, la foto che innesca la materia narrativa:
Nell’inquadratura ci sono mia nonna e mia madre, la capostipite e la sua unica figlia. […] I loro gomiti si toccano, ma in mezzo c’è una crepa. È una ferita, un solco di diffidenza. Non avevo mai viste così chiare e nette come in questa foto le loro ruggini, il loro detestarsi e l’odio che provano l’una per l’altra. […] La donna fissa l’obiettivo […] sostiene lo sguardo altrui e la situazione come una padrona consapevole, ovvero colei che ha ancora in mano il potere e il denaro e, quindi, può decidere per se stessa e per gli altri, gli eredi. […] Lo sguardo di mia madre sfugge da mia nonna e dal fotografo. […] Sembra un animale ferito e diffidente, un perdente che aspetta la rivincita, uno spirito libero ingabbiato a metà, una vittima in attesa di riscatto, un’artista tarpata ma non doma del tutto. Mia madre accanto a sua madre è un umano che sa di essere vicino al suo carnefice e sta all’erta.
Se il romanzo di Mianiti dovesse essere riassunto in poche frasi, potrebbero essere queste. Organsa narra dei rapporti di forza fra una madre e una figlia, di quella crepa, di quella sconfitta. Inizia con la visita di Aurelia, la voce narrante, alla madre anziana, la figlia della fotografia. Aurelia vive ormai lontana dal paesino e dall’osteria col pergolato di uva fragola. Porta la madre a passeggiare a Parma («Lei dice “Ai miei tempi Parma la chiamavano la piccola Parigi”»), ritrovando i luoghi dove, ventenne, passò i mesi che ricorda più felici. Appena sposata, infatti, Luisa, che aveva studiato da sarta, viveva in una soffitta con la piccola Aurelia neonata, mantenendosi col suo lavoro, per cui aveva una grande passione. Poco tempo dopo, deve lasciare tutto per raggiungere i suoi genitori e il marito, che hanno deciso di prendere in gestione l’osteria-spaccio di Campetto, un minuscolo paesino di campagna.
“Perché tu e il babbo siete venuti via da Parma se ci stavate bene?” […] “Si sono messi d’accordo tuo padre e i tuoi nonni […] Han fatto tutto loro”. “Ma perché non ti sei ribellata?” “Eh, perché, perché… Non riuscivo a pensare, c’eri tu che non mangiavi, non stavi mai bene, ero sempre stanca, avevo solo vent’anni […] e poi allora le donne mica si ribellavano ai genitori e al marito”
I chilometri che la separano dalla città sono pochi, ma il piccolo mondo antico e crudele che la accoglie non le permette di mantenere alcuna indipendenza. È un microcosmo che non ha paura della violenza (colpisce, ad esempio, la lunga descrizione del rito collettivo di macellazione del maiale o la chirurgica icastica nettezza dei gesti nella castrazione del cappone), ma teme invece il sesso, specie se il desiderio è femminile: quando un venditore di biancheria ambulante proporrà a Luisa un bebidol provocante, sarà la madre di lei a cacciarlo, per poi umiliarla (non le è concesso, infatti, agire il desiderio, può solo esserne oggetto: «Erano in fila come un plotone. Davanti all’ingresso dell’osteria […] c’erano tutti gli uomini della frazione […] Fumavano e la fissavano come volessero spogliarla»).
In una società arcaica in cui la fatica è quotidiana e inevitabile, il nucleo degli affetti si rivela, piuttosto apertamente, luogo non di consolazione, ma di segregazione: «l’osteria aveva fatto una prigioniera» o anche «quando costringi qualcuno a vivere dove non vuole e a fare quello che non vuole, […] la famiglia diventa una gabbia, un carcere, una caienna, un manicomio, un nido di serpi, un allevamento di depressi, un reparto psichiatrico, un luogo di repressione e di paura, una fabbrica di rancori».
Luisa e Aurelia cercheranno di sopravvivere alla durezza della quotidianità creandosi, e tentando di preservare con fatica, ciascuna la sua “ora d’aria”. Aurelia lo farà cucendo, difendendo il suo talento anche quando sarà costretta a diventare «sarta a intermittenza», per barcamenarsi fra faccende domestiche e gestione del locale. E in una delle sue conversazioni con una cliente, troviamo l’organsa del titolo: «“Luisa g’ho da andare a un matrimonio. Ci ho portato questa organsa qui che mi piace abòta il colore. Guardi guardi che bel rosso”. “Ma Gemma, l’organza rossa allarga molto”. “E va ben, mo a me mi piase dli stesso”».
La Gemma tiene in mano il disegno di un modello pensato per un figurino alto e slanciato, ma lei è piccola, ha la sesta di seno e i fianchi abbondanti. Luisa prova a “ridimensionare” i suoi desideri, a suggerirle linee o colori, come il nero, che smagriscano e nascondano le sue curve. Ma la Gemma con l’organsa rossa e una gala enorme sulle tette enormi vuole andarci a ballare.
Capirò il Gemma-pensiero molti anni dopo quando, per guadagnare due lire, un’estate raccoglierò pomodori. Stare otto ore accovacciata sotto il sole […] ti fa venire la pelle come carta vetrata, la schiena piegata in avanti, i muscoli corti. […] O ti deprimi e ti pieghi sempre di più, o ti ribelli e reagisci andando a ballare. Ho imparato lì che la terra non perdona e rispetta solo i più forti e affamati di vita, come la Gemma.
L’organsa, allora, diventa una bandiera (rossa!) per quella fame di vita che la Gemma non è disposta a lasciar ridurre, cui non vuole rinunciare. Il pendant narrativo di questo episodio c’entra sempre con una stoffa preziosa, un raffinatissimo crème marocain con cui Luisa si cuce un abito magnifico, per il matrimonio della cugina. La nonna lo distruggerà con un coltello, sotto gli occhi sconvolti di Aurelia: «guardo i tagli che lo hanno ucciso. Non perde sangue, ma brandelli di stoffa che cadono come morti da tutte le parti»: come a ribadire che non tutte le organse ce la fanno.
Aurelia si affiderà, invece, a un altro duttile strumento: «le parole sono una materia bellissima con la quale puoi fare di tutto, se vuoi, come fa mia madre con i tessuti». Racconta della sua insegnante elementare e delle trasmissioni di alfabetizzazione che segue alla sera in tv:
Il maestro Manzi e la signorina Siponi mi aprono un mondo, quello della grammatica, dell’ortografia, della sintassi, della corretta pronuncia e dei tempi verbali. […] Capisco che mi è rimasta solo un’alleata, la scuola. Decido che parlare italiano correttamente sarà la mia sfida maestra. Capisco, anche se molto alla larga, che senza quello non potrò mai scollarmi da Campetto e andare dove il desiderio mi chiama.
Il desiderio, la fame di vita (fuggire, in questo caso) viene inseguita staccandosi prima dalla lingua del luogo, il dialetto, cercando lingue che dicano altri luoghi (emblematica l’amicizia fugace con una compagna di classe toscana, che porta con sé la fascinazione di cadenze diverse, aliene).
Il padre, quasi analfabeta, le chiede un giorno di insegnare anche a lui, propone di pagarle le lezioni. Aurelia prova, ma insegnare è difficile: lei si stanca, lui si stanca, ci vuole un tempo lunghissimo per leggere tre parole soltanto. Non riproveranno. A lei resterà il senso di colpa, negli anni. («Il veleno che scorre nella mia famiglia sta infettando anche me. Nessuno è più capace di dire una cosa gentile. […] Nessuno sa pensare alle cose senza dar loro un prezzo in denaro»).
E il dialetto del padre e del paesino filtra ogni tanto nell’italiano della voce narrante. Mianiti, nell’intervista citata, spiega che «il dialetto della bassa ha molto a che fare col francese, scriverlo filologicamente sarebbe stato una punizione per il lettore: ingombrando il testo di diacritici fino a renderlo incomprensibile» perciò ha inventato «una lingua a metà strada». Il padre, quando la mamma se ne innamora è «trido» (distrutto) «come l’Albania»; le camere sono un «rebelotto di letti e armadi», cioè un caos; i vestiti «s’impadellano», cioè si macchiano… E spesso, il tentativo dei dialettofoni, sarà inseguire per tentativi, “a orecchio” l’italiano:
La prima volta che lo sentimmo dire “Tira zò la veneranda veh che c’è un’afta…” restammo un poco interdetti. Veneranda? Afta? Era estate. Guardai verso il balcone e colsi il collegamento […] Il suo tentativo di darsi autorevolezza con un italiano inventando lì per lì naufragava contro infiniti storpiati, aggettivi percossi, sostantivi fantasiosi […] Era una battaglia, una fiera, un libero scorrazzare […] Con il tempo, l’italiano transgenico di mio padre ha creato una sorta di meta comunicazione familiare che capiamo, e usiamo, solo noi e fra noi. Ancora oggi, quando ci ritroviamo immersi nella bagna incombente della Bassa, diciamo, un po’ ridendo e un po’ ricordando, “Senti che afta. Senti che stofego. Mo tira zò la veneranda veh”.
Leggendo questo passo non si può non sentir riecheggiare dentro la voce di un’altra «meta comunicazione familiare»:
Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone.
Ma a questo Lessico famigliare contadino, così più crudele e ristretto, mancano certe fulminanti ellissi proprie invece di Ginzburg («Ci sposammo, Leone ed io; e andammo a vivere nella casa di via Pallamaglio»). Come si può notare da alcune citazioni proposte, l’enunciazione di Mianiti rischia di essere a tratti quasi didascalica, calcando più volte, ribattendo, quanto emerge già chiaro dai fatti narrati.
Seguendo l’autrice nella sua suggestione fotografica, viene da pensare all’idea che questa sia la riproduzione più ingannevole, con la sua illusione di estrema fedeltà, perché tanto rimane fuori dall’inquadratura. I personaggi di Organsa rischiano di parerci in qualche modo inchiodati a quell’unica espressione nel fotogramma (i nonni sempre crudeli, senza una dolcezza o un pentimento, la madre sempre sconfitta, sopraffatta anche se forte). Ci si dimentica quasi che il tempo passa – ce lo ricordano le “storie a margine”, qualcuno muore tragicamente, compare Lascia o raddoppia, il boom economico, coi forestieri della domenica verso la riviera.
Ma la ferita di quella foto forse può essere sanata, in qualche modo, interrompendo la linea del danno. Come ha dichiarato la stessa Mianiti:
Il padre della bambina narrante, Aurelia, appartiene a quella generazione di italiani che hanno avuto un padre/padrone. Prova a essere un genitore diverso, e per molti aspetti ci riesce quando, per esempio, si ammazza di lavoro per permettere ai figli di studiare, cosa che a lui è stata negata. Però quella ferita originaria ha lasciato il segno e torna evidente nel modo a volte inclemente con cui tratta il proprio figlio maschio. È come una linea del danno che si ripercuote di padre in figlio, di generazione in generazione.
E forse questa è la vera sfida di Organsa, la sfida di Aurelia non più bambina: «La catena si spezza quando la voce narrante racconta tutto, svela quello che ha visto. […] Il non detto provoca danni enormi. Il prendere parola è il primo atto di guarigione». Forse perciò tutto va detto e ridetto, per spezzare quei meccanismi tanto radicati da parere ineluttabili e far sì che la lingua riesca davvero a portare Aurelia lontana da Campetto e dalle sue mortificazioni: per chiedere al racconto riparazione.
Mariangela Mianiti, Organsa, il verri edizioni, Milano 2021.