A partire da alcuni studi recenti, è possibile tracciare il profilo d’un paradigma per i Film Studies che non metta più al centro la presunta priorità dell’immagine e della visione sul suono, ma la specificità del suono stesso, nei suoi aspetti tecnici, culturali e ideologici.
Già Christian Metz[1] aveva parlato di aural objects, ovvero d’un suono che non fosse una caratteristica delle cose – un loro possibile predicato – ma un oggetto per sé, qualcosa quindi di non subordinato alla tirannia della visione e ai possibili effetti feticistici e voyeuristici di quest’ultima. Da tale punto di vista, sono fondamentali anche le riflessioni di Michel Chion[2] sulle sound-images. Chion utilizza infatti il concetto di synchresis per indicare l’unità del suono e dell’immagine, e quindi il fatto che, da un lato, non vediamo una stessa cosa quando allo stesso tempo ascoltiamo, e che, dall’altro lato, non sentiamo un che d’identico quando siamo intenti anche a guardare. Nelle prospettive di Metz e Chion, l’attenzione verso gli aural obejects e le sound-images mette in crisi l’esasperata cultura della percezione visiva, tipica della «società dello spettacolo» (Guy Debord)[3] in cui non abbiamo smesso di vivere.
Il suono appare dunque nella sua autonomia d’oggetto quando non è di mero supporto all’immagine, ma al contrario problematizza o addirittura sovverte il registro predominante della comunicazione visuale. Per accostare il nostro tema, propongo di volgere preliminarmente l’attenzione non a un film, ma a un romanzo del 1971 e alle sue prime pagine. Mi riferisco ad Americana di Don DeLillo, il libro che avviò il suo autore alla sempre più serrata analisi della saturazione mediatica caratteristica della società americana (e non solo).
DeLillo narra le vicende di David Bell, giovane manager d’un grande network televisivo. Trattando d’una società televised, per così dire, DeLillo apre il suo romanzo con delle immagini che descrivono Manhattan nei giorni di Natale: «Le luci natalizie adornavano le vetrine dei negozi. I venditori di caldarroste spingevano i carretti fumanti. Di sera, la folla in strada era immensa […]».[4] Immediatamente, tuttavia, il paesaggio visuale familiare e rassicurante s’arricchisce di tratti disturbanti che lo rendono meno consueto. Lo strumento tecnico per ottenere questa de-familiarizzazione, è l’ekphrasis del suono, ovvero un procedimento descrittivo solitamente applicato alle opere d’arte visuale.
DeLillo estende l’uso di questa tecnica alla sfera sonora: «[…] il fragore del traffico si trasformava gradualmente in un’ondata di piena. I Babbi Natale della Quinta Avenue scampanellavano con una delicatezza strana e triste, come a spargere sale su un taglio di carne guasta […]. L’effetto sonoro in quel luogo e in quel momento era bizzarro […] e la gente sembrava infastidita».[5] Ecco come si trasforma l’immagine serena del Natale nella metropoli, se si porge l’orecchio al suono: un fragore che diviene un’incontrollabile ondata di piena, degli scampanellii delicati ma strani e tristi come del sale su una ferita aperta e, da ultimo, il fastidio.
D’altra parte, che il suono si coordini alle immagini destabilizzandole, dando a esse fastidio, è assunto esplicitamente da DeLillo come principio del ‘montaggio’ della sua scrittura, quando il narratore di Americana evoca il nome, nient’affatto casuale, di Michelangelo Antonioni («Era una di quelle feste talmente noiose che ben presto la noia diventa argomento principale di conversazione […]: “Sembra di stare in un film di Antonioni”»).[6]
In tal modo il narratore di Americana sancisce per il proprio narrare il carattere riflessivo e meta-narrativo così caratteristico del cinema del regista italiano. I lavori di quest’ultimo, infatti, raccontano sì l’incomunicabilità, ma il loro silenzio è denso di rumori, è un silenzio soundful che richiede uno sforzo supplementare d’ascolto perché non si limita a essere significativo (meaningful) in maniera tradizionale.
Come osserva Antonella Sisto (Film Sound in Italy, 2014),[7] Antonioni capovolge a vantaggio d’un nuovo cinema il carattere solitamente ancillare del suono. Questo gesto innovativo è però reso possibile dal fatto che, osserva Sisto, Antonioni fa propria – sovvertendone il senso in maniera sperimentale – una tecnica di post-produzione, con cui il cinema italiano tramite il doppiaggioaveva consuetudine sin dagli esordi del film sonoro. Il fatto sorprendente messo in luce da Sisto, è che l’introduzione del sonoro nel cinema, in Italia, avvenne non solo in coincidenza con la diffusione del doppiaggio (sì che non ci fu voce, italiana o straniera, che non fosse dubbed), ma anche e soprattutto con l’imporsi a livello nazionale d’un potere e d’una ideologia ben precisa, quella fascista. Il fascismo, in altre parole, diede fin da subito al doppiaggio il significato politico dell’appropriazione e dell’addomesticamento del linguaggio dell’altro, incluso quello dei films stranieri (in particolare di Hollywood).[8]
Da un lato, l’indagine di Sisto allunga pertanto l’ombra del fascismo anche sul cinema post-fascista, comprendendo inevitabilmente l’attuale cinema italiano, che del doppiaggio e della sua pratica di normalizzazione della diversità non ha mai smesso di fare uso. Si pensi anche, però, a un caposaldo del cinema cosiddetto neorealista come Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), che pur facendo ricorso ad attori non professionisti e a riprese al di fuori dell’ambiente artificiale degli studios cinematografici, non rinunciava alla superimposizione di voci differenti da quelle originali. In tal modo, suggerisce Sisto, il cinema neorealista aveva un rapporto molto meno immediato di quel che pretendeva con la realtà, data per esso l’importanza della lettura d’uno script.[9]
Dall’altro lato, la prospettiva della studiosa consente d’aprire uno spazio di possibilità, che annettendo al cinema una peculiare «schizofonia»[10] – la condizione tecnica di separazione del suono dalla sua origine – può sottrarre la riflessione sul cinema a un’ideologia speculare rispetto a quella fascista, cioè all’ideologia della presa diretta.
Qui risiede forse la principale differenza tra il cinema italiano e buona parte di quello francese, il quale con Jean Renoir (ma non con Jean Luc Godard) adottava una «religione» del lavoro cinematografico che «non dà credito alle possibilità e ai risultati creativi emergenti dal cinema italiano proprio attraverso l’uso delle tecnologie per la post-sincronizzazione».[11] Da questo punto di vista, la religione del realismo di Renoir appare oggi tanto essenzialista quanto quella del cinema italiano sotto il fascismo: un essenzialismo della realtà anziché della nazione, ma egualmente normalizzante.
Centrale, a questo proposito, è la già ricordata figura di Antonioni. Questi, come ha scritto Roland Barthes, ha al contrario lavorato con costanza allo «scioglimento, al disturbo e all’esaurimento del fanatismo nei confronti del significato [meaning]» (Caro Antonioni, 1980).[12]
Si pensi, ad esempio, a un film come Deserto rosso (1964) e alla scena in cui Ugo e Corrado sono fuori dalla fabbrica, senza che lo spettatore possa cogliere – a causa del rumore sovrastante – quel che essi si dicono, così che l’intelligibilità stessa del film è messa a rischio. Si tratta d’uno stilema a cui Antonioni ricorreva ripetutamente anche ne La notte (1961), destabilizzando l’audience e alludendo a un’interiorità dei personaggi che non può essere tradotta linearmente in parole significanti, proprio perché tra l’emissione sonora dei significati e quel che si ode vi sono elementi di disturbo, che danno fastidio. Questi ultimi sospendono e differiscono indefinitamente – con la complicazione post-sincronizzata del soundscape – la piena comprensione dei dialoghi, che quindi diviene una questione d’impegno riflessivo e critico, e non di una ricezione passiva che è facile preda della propaganda politica.
In tale prospettiva, i films di Antonioni, più che segnalare l’alienazione del moderno, possono essere visti/ascoltati come «generosi tentativi di rappresentare e scoprire l’irraccontabile circa la fragilità della condizione esistenziale e la crisi dell’identità delle donne e degli uomini moderni, una crisi nella quale la fragilità umana esige un ethos che sospenda l’esteriorità del giudizio, e ascolti apertamente quale che v’è d’inesplicabile e imprevedibile nella vita».[13]
Per ‘aprire’ l’ascolto, sostiene Sisto, Antonioni traduceva in termini cinematografici una tecnica propria della teoria letteraria, quel discorso indiretto libero sul quale Pier Paolo Pasolini ha soffermato l’attenzione del lettore in uno dei saggi (Intervento sul discorso libero indiretto), raccolti in Empirismo eretico (1972).[14] Infatti, col rinunciare alla presa diretta sulla realtà, l’indiretto libero rende possibile ciò che in un altro dei saggi di Empirismo eretico – Cinema di poesia (1965) – Pasolini ha considerato l’emersione d’una prospettiva inedita sul cinema, quella del punto di vista del regista che «sfuma» nel punto di vista del «personaggio».[15] Si dischiude così, in un’opera di Pasolini come Il fiore delle Mille e una notte (1974), uno spazio per l’ascolto riflessivo dell’interiorità, a partire dal quale è forse possibile decifrare alcune delle grandi contraddizioni del cinema dello stesso Pasolini: ad esempio, la contraddizione tra la firma da lui apposta nel 1968 al Manifesto di Amalfi contro il doppiaggio e la ‘scandalosa’ risoluzione, l’anno dopo, di doppiare Medea, inclusa la voce di Maria Callas.
Il film sound, pertanto, si rivela un oggetto anomalo, sfuggente, ricco di contraddizioni e complessità che ne possono fare un ambito di studi sinora poco indagato dai Film Studies, per ragioni di consuetudine culturale con il predominio delle immagini. Questo fatto, per dirla nel vocabolario d’una comprensione dialettica del reale, mette in luce che il suono – al pari del linguaggio verbale analizzato da Georg W. F. Hegel negli anni dell’insegnamento a Jena (1801-1807) – «non si fissa, ma immediatamente cessa di essere proprio mentre è».[16]
Col suo essere mentre non è, il suono mette in crisi, se vogliamo sviluppare gli argomenti di Sisto, anche la sua possibile ma affrettata identificazione con la phoné su cui insisteva Jacques Derrida in Della grammatologia (1967).[17] Proprio perché differisce da sé stesso, il suono – e ancor più marcatamente il film sound con le tecniche di post-sincronizzazione – si sottrae al comando di significare qualcosa di garantito, codificato e prevedibile, si sottrare cioè a quella che per Derrida era la metafisica della presenza. Da qui discende per i Film Studies l’opportunità di svolgere una sorte di rivoluzione copernicana intorno allo schermo – uno schermo non solo da guardare ma a cui prestare dunque un ascolto critico.
[1] Christian Metz, «Aural Objects», Yale French Studies, n. 60, 1980, pp. 24-32.
[2] Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema [1990], Lindau, Torino, 2017.
[3] Guy Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008.
[4] Don DeLillo, Americana [1971], Einaudi, Torino, 2008, 5.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 6.
[7] Antonella Sisto, Film Sound in Italy: Listening to the Screen, Palgrave McMillan, New York, 2014.
[8] Ivi, pp. 17-39.
[9] Ivi, pp. 79-111.
[10] Raymond Murray Schafer, The New Soundscape: A Handbook for the Modern Music Teacher, Berandol Music Limited and Associated Music Publishers, Scarborough (Ontario) and New York, 1969.
[11] Sisto, Film Sound in Italy, p. 11.
[12] Citato in ivi, p. 142.
[13] Ivi, p. 122.
[14] Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 2015.
[15] Sisto, Film Sound in Italy, p. 128.
[16] Georg W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 25.
[17] Jacques Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 2020.