Insieme coltiviamo valori, dalle radici. Crediamo nella crescita del territorio e nell’etica dello sviluppo. Nell’innovazione che passa attraverso la tutela dell’ambiente, il sostegno dei lavoratori e la sostenibilità delle decisioni e dei processi.
Siamo sostenibili dal punto di vista economico perché i nostri bilanci riflettono solidità e consentono progetti a lunga scadenza.
Siamo sostenibili dal punto di vista sociale perché gli effetti del nostro impegno si riverberano positivamente sull’indotto di tutta la filiera e sulla comunità che ci circonda. Siamo sostenibili dal punto di vista ambientale perché il nostro modello concreto di economia circolare determina evidenti benefici sul territorio. Abbiamo scelto e costruito un nuovo modello di impresa: il nostro obiettivo è valorizzare e preservare allo stesso tempo ogni risorsa, per garantire un futuro ecosostenibile.[1]

Questo scritto compare nella homepage del sito del Gruppo Caviro, una delle aziende leader nel settore vitivinicolo, tra le maggiori a livello internazionale, celebre per il Tavernello. Per capirci «la rivista statunitense Wine Spectator ha indicato nel 2008 Tavernello come il quinto vino più venduto al mondo con 11,4 milioni di confezioni, pari allo 0,4% del mercato vinicolo mondiale»[2]

Parliamo di un’azienda di 12.800 dipendenti con un fatturato di circa 300 milioni di euro.

Non è questo il luogo per ragionare attorno al fenomeno “Tavernello”, né per discutere sulle qualità di detto vino. Il punto che vorrei sottolineare è l’attenzione ai concetti di etica e sostenibilità. Le parole riportate sopra non si trovano in qualche anfratto oscuro del sito ma sono le prime parole che appaiono una volta cliccato. Mi sembra lapalissiano considerare le relazioni tra etica e vino centrali parlando di questo mondo. Come mi pare altrettanto scontato che ci sia confusione tra mere ragioni di marketing e scelte di vita ancor prima che commerciali.

Forse il Gruppo Caviro è davvero riuscito a dare una speranza al compianto Mario Soldati che nel 1969 scriveva:

Lo so, me ne rendo conto: il mio è il sogno di una controrivoluzione. Ma è un sogno di cui, assolutamente, non possiamo fare a meno. Forse nella stessa misura in cui riusciremo a trasformare questo sogno del vino genuino ed artigianale in una realtà, riusciremo anche ad arginare, e poi ad annullare, lo spaventoso progresso degli inquinamenti dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, dei fiumi, delle spiagge e delle campagne, tutto il veleno che minaccia di morte.[3]

Come pure potrebbe stupire Luigi Veronelli che asseriva: «il miglior vino d’industria è di gran lunga peggiore del peggior vino contadino».

L’obiettivo pare, dunque, comune se notiamo il moltiplicarsi delle iniziative che accorpano vignaioli artigianali, indipendenti o naturali sotto sigle come vini etici, vini liberi, vini vivi, vini selvaggi, vini di territorio; si vedano anche i protocolli delle fiere, come Vini Veri, Vinnatur, La Terra Trema, Teruar, Back to the Wine e via dicendo.

Prendiamo ad esempio ciò che compare nelle pagine principali di alcune delle maggiori associazioni di vini naturali:

Quanto stabilito non tratta metodi “bio” o “non bio”, ma indica semplicemente le azioni che permettono a una produzione di esprimersi pienamente e raggiungere l’obbiettivo di ottenere un vino in assenza di accelerazioni e stabilizzazioni, recuperando il miglior equilibrio tra l’azione dell’uomo ed i cicli della natura. Questa, in sintesi, la finalità per cui il Gruppo Viniveri intende lavorare.[4]

L’associazione VinNatur riunisce vignaioli da tutto il mondo che intendono difendere l’integrità del proprio territorio, rispettandone la storia, la cultura e l’arte che sono state loro tramandate nel tempo, traendo ispirazione da una forte etica ecologica.[5]

Non mi pare la distanza sia eclatante, nelle parole o comunque nella teoria. La speranza è ovviamente che l’attenzione a certi valori riesca davvero a fare breccia sia nei vignaioli artigianali come pure nei grandi gruppi industriali, ma credo sia interessante provare a scavare le molteplici vie e interpretazioni dell’etica abbinata alla viticoltura.

Prima di tentare di capire se possa esistere una definizione di vino etico, è meglio rispolverare le basi di questo concetto.

L’enciclopedia Treccani suggerisce questo:

ètica: nel linguaggio filosofico, ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso sé stessi e verso gli altri, e quali i criteri per giudicare sulla moralità delle azioni umane.

“L’etica è, quindi, sia un insieme di norme e di valori che regolano il comportamento dell’uomo in relazione agli altri, sia un criterio che permette all’uomo di giudicare i comportamenti, propri e altrui, rispetto al bene e al male.
Spesso etica e morale sono usati come sinonimi e in molti casi è un uso lecito, ma è bene precisare che una differenza esiste: la morale corrisponde all’insieme di norme e valori di un individuo o di un gruppo, mentre l’etica, oltre a condividere questo insieme, contiene anche la riflessione speculativa su norme e valori. Se la morale considera le norme e i valori come dati di fatto, condivisi da tutti, l’etica cerca di dare una spiegazione razionale e logica di essi.[6]

Questo è un concetto vasto che trova la sua ragione d’essere nelle ipotesi, nei tentativi di credere, immaginare, realizzare un mondo migliore, per tutti, supponendo sia l’aspirazione di tutti. Ovviamente le difficoltà maggiori sono teorizzare e, di fatto, assolutizzare queste tendenze, queste idee, queste emanazioni del “bene” comunemente inteso. Forse è dentro questo solco che possono nascere le prime avvisaglie di presunti cedimenti. A volte ci si potrebbe scandalizzare di come mondi distanti tra loro ricerchino le medesime tracce da seguire per lo sviluppo, per l’implementazione dell’etica nella filosofia aziendale.

Indipendentemente dal punto di partenza (industriale o artigianale) l’etica è un ideale a cui tendere. La differenziazione dei punti di vista e l’interpretazione similare ma non identica conducono a obiettivi, nella pratica, parecchio diversi. D’altronde non pare possibile ipotizzare un’unica verità, un tratto comune e univoco, un bene identico alla base dei ragionamenti attorno a questo concetto.

Roberta De Monticelli, nel suo libro La questione morale, prova a scavare dentro questa questione:

Chiedersi se è possibile una rifondazione razionale del pensiero pratico equivale a chiedersi, infine, se c’è verità e falsità nel giudizio di valore. Se la conoscenza nelle questioni di valore è possibile. Se ci può essere ricerca e scoperta, crescita di coscienza e capacità critica, per tutti.
La questione morale è – in estensione – la questione del possibile rinnovamento dei nostri mores, delle nostre abitudini quotidiane. Ma è in profondità la questione di cosa questo rinnovamento significhi, di quali siano le condizioni alle quali esso è possibile.[7]

Ci giunge in aiuto anche Norberto Bobbio che identifica quest’epoca come L’età dei diritti e parte da alcuni assunti:

Dallo scopo che la ricerca del fondamento si propone nasce l’illusione del fondamento assoluto, l’illusione cioè, che, a furia di accumulare e vagliare ragioni e argomenti, si finirà per trovare la ragione e l’argomento irresistibile cui nessuno potrà rifiutare di dare la propria adesione.

Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico.[8]

Il filo rosso riconduce al nostro tema e al nostro tempo. Roberta De Monticelli individua in una sorta di scetticismo etico una chiave di lettura:

Ancora una volta, lo scetticismo nei confronti della ragione sconta però la caratteristica tendenza all’autogol, che già Aristotele vi aveva rilevato: perché se il problema è politico, e se la politica si fa in definitiva a partire dalle adesioni ai valori, e se i valori ultimi sono “antinomici”, allora perché mai “si dovrebbe” proteggerli piuttosto che combatterli?[7]

In questa dinamica si staglia la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 che all’articolo I afferma: «Tutti gli uomini liberi nascono eguali in libertà e diritti». E Norberto Bobbio, prendendo spunto da questo, ha ribattezzato la nostra epoca come appunto l’età dei diritti in quanto:

Con questa dichiarazione un sistema di valori è (per la prima volta nella storia) universale, non in principio ma di fatto, in quanto il consenso sulla sua validità e sulla sua idoneità a reggere le sorti della comunità futura di tutti gli uomini è stato esplicitamente dichiarato.[8]

Mi rendo conto che il rischio di perdersi in questo ginepraio teorico è altissima ma proviamo a unire i punti, a tracciare lentamente un disegno che renda più chiaro da dove veniamo, come ragioniamo e come potremmo trovarci d’accordo. Perché di fatto, al di là dei migliori obiettivi dei singoli o delle esternazioni più benevole, immaginifiche, sognatrici di un mondo perfetto, bisogna fare i conti con la realtà: disgregata, dissimile, incomprensibile per alcuni versi, ondivaga. Si potrebbe dunque bypassare la discussione sulle differenze dettagliate tra bene e male, giusto e sbagliato e partire, accettandola, da una base comune, vaga ma condivisa.

I termini sono d’altronde convenzioni, compromessi per provare a capirsi l’un l’altro. Le parole crescono nella storia, si colorano negli avvicendamenti umani lungo i secoli. Ciò che era considerato giusto nel passato magari ora non lo è più. Come pure ciò che era considerato un bene. All’interno di questi assolutismi in divenire procedono alcuni ragionamenti, uno dei quali è la considerazione del bene comune. Termine dalle connotazioni più disparate, sia culturalmente, sia geograficamente. Un aspetto interessante è che questo termine evidenzia oggi una problematica diffusa (in molti campi) proprio mentre altri aspetti opposti stanno crescendo a dismisura: individualismi sia economici sia sociali sia territoriali. Il bene dell’uno e il bene dei molti, impegnati in un braccio di ferro dai risvolti emblematici.

I pensieri, le teorie e i confronti attorno a questi temi sono sempre più frequenti. Indubbiamente se ne parla di più (e questo è un bene) ma rimane da capire l’impatto nella pratica dopo tanta teoria. Per iniziare a delimitare il campo da trattare, considereremo inizialmente alcune riflessioni legate alla terra e alla natura in generale per poi concentrarci sugli aspetti legati all’agricoltura. Il cibo e il vino rappresentano bene l’evoluzione in atto attorno al tema dell’etica.

Un’interessante visione è quella prospettata da Aldo Leopord, biologo statunitense, teorizzatore dell’etica della terra (land ethic), in cui le posizioni dell’uomo e della natura sono riviste in un’altra ottica. Si tratta sostanzialmente di:

Un’etica che sposti cioè il suo baricentro dall’uomo alla terra, considerata come luogo di reciproche interazioni simbiotiche, un sistema equilibrato in cui ogni membro ha la stessa importanza funzionale di tutti gli altri.

Leopold, infatti, vede l’uomo contemporaneamente «in orizzontale» e «in verticale» rispetto alla natura. In orizzontale come membro e cittadino, non padrone e dominatore di ciò che lo circonda. In verticale, come l’unico componente a essere investito della responsabilità dell’intero sistema.[9]

Una visione, dunque, in cui l’uomo diventa centrale non solamente per la propria crescita e il proprio sviluppo ma pure ai fini della salvaguardia della terra, della natura e, per transizione, dell’etica stessa:

Da Kant a Leopold il pensiero occidentale sembra così realizzare una sorta di «rivoluzione copernicana» in etica che segna il passaggio da una concezione del rapporto uomo-natura come moralmente neutro a una concezione di questo rapporto come moralmente significativo o addirittura cruciale per il progresso etico dell’umanità.[10]

Accanto a questi sviluppi teorici circa la questione della terra, entra sempre più prepotentemente d’attualità l’etica correlata al cibo. Una questione assai ampia che abbraccia molteplici aspetti:

“La questione dell’etica del cibo abbraccia aspetti pubblici e privati: si va infatti dal comportamento individuale delle persone (quale e quanto cibo è equo consumare; come procacciarselo, come trattarlo, come cucinarlo, dove e quando e con chi mangiarlo), fino al comportamento di una buona fetta del sistema sociale ed economico (quale e quanto cibo produrre e mettere in circolazione, come gestirne le condizioni di produzione e di vendita). Senza mettere in conto il problema dello smaltimento etico dei rifiuti, organici e no, legati al cibo, ultimo anello di una catena che comprende produzione, conservazione e imballaggio.

La problematica etica del cibo è un’idea relativamente recente che coincide con lo sviluppo commerciale e industriale della sua produzione e distribuzione; nei primi decenni del ’900, quando è iniziato tale sviluppo, i consumatori erano piuttosto ignoranti intorno all’origine dei loro alimenti e, d’altro canto, non erano in grado di compiere scelte individuali e collettive su basi etiche. Fu solo nella seconda metà del secolo che si assistette a una rapida crescita della consapevolezza dell’adulterazione del cibo, grazie agli studi di Rachel Carson dei primi anni ’60 del Novecento sull’uso sconsiderato di pesticidi e le sue conseguenze sull’alimentazione.

L’etica del cibo va considerata nei termini dell’organizzazione del nostro sistema alimentare, nonché nei termini nei quali tale organizzazione definisce il nostro particolare posto all’interno di tale sistema. Il sistema alimentare globale si è trasformato a partire dalla rivoluzione industriale con l’introduzione di nuove tecnologie per la produzione, il trasporto, la lavorazione e la distribuzione del cibo. Le tecniche di refrigerazione permettono una conservazione eccezionale ma anche manipolazione e adulterazione. La Rivoluzione Verde determinata dall’uso di fertilizzanti chimici e pesticidi ha mostrato tutto il suo potenziale di riduzione della deprivazione e della fame. Abbiamo dunque l’obbligo morale di supportare queste tecniche? E lo abbiamo fino al punto di accettare e diffondere la coltivazione e il consumo di OGM (organismi geneticamente modificati) o altri metodi emergenti in agricoltura? D’altra parte l’agricoltura è sempre alterazione intenzionale di un ecosistema naturale, a partire dal disboscamento e dall’aratura del campo che causa danni alla piccola fauna che vive sul e nel terreno; ogni insetticida o funghicida uccide organismi che vivono nell’ambiente naturale. Deve tuttavia essere possibile tracciare una linea tra un impatto ambientale accettabile/sostenibile e uno non accettabile e l’etica non dovrebbe mai dimenticarlo.

Si potrebbe dire che l’accesso al cibo faccia parte di quelli che John Rawls chiama beni primari. Ma il cibo è diverso da altri beni sociali primari perché indispensabile alla sopravvivenza. Secondo le statistiche della FAO il numero di persone che soffrono di denutrizione oggi nel mondo è di poco inferiore al miliardo. La crisi dell’obesità (di cui soffrono più di un miliardo di persone al mondo) deriva dal cibo (malsano/ingiusto) in eccesso, ma siamo molto più adusi all’idea dell’etica del cibo come un problema di scarsità, ossia di deprivazione cronica di nutrimento che provano i poveri della terra. [11]

Il disegno inizia a comporsi, a interdigitarsi dentro plurimi spazi. Si potrebbe pensare che l’etica sia un grande cappello che nasconde un labirinto da cui uscire pare, oggi, quasi impossibile. Sorge spontaneo il dubbio secondo cui ci si chiede se l’etica sia da considerare un parametro fondamentale dello sviluppo o, più semplicemente, un corollario di cui tenere conto, a cui stare attenti e con cui fare il possibile, entro certi termini.

Gli Afterhours, in uno dei loro più celebri brani, cantavano:

«E la grandezza della mia morale / è proporzionale al mio successo. / Così ho rifatto il letto al meglio sai / che sembra non ci abbiam dormito mai. / Copriti bene se ti senti fredda / hai la pressione bassa nell’anima.» [12]

Quasi una condanna all’inevitabile avvitamento del progresso. Maggiore il successo, maggiore lo sviluppo, maggiore il benessere (di pochi) e di conseguenza l’impossibilità a un calore umano, immersi in un cinismo opportunistico a dare la caccia a obiettivi crescenti, nell’incapacità di godere dei punti d’arrivo.

Il cibo è e rimane centrale e delinea bene l’orizzonte Georg Simmel con queste parole:

Di tutte le cose che gli uomini condividono fra di loro, quindi, quella che li accomuna più di ogni altra è il fatto che debbano mangiare e bere. E stranamente è proprio là che troviamo anche l’elemento più egoistico, ristretto ai confini dell’individuo in maniera più incondizionata ed immediata: quello che penso lo posso comunicare agli altri; quello che vedo lo posso far vedere a loro; quello che dico lo possono sentire in centinaia – ma quello che il singolo mangia in nessuna circostanza può essere mangiato da un altro. [13]

L’egoismo è l’altra faccia della medaglia dell’etica, in ogni campo. Siamo monadi o comunità?

Non in superficie, nella macro esposizione, di fronte a tutti, ma nel profondo, nell’interpretazione del nostro ruolo. Mi pare sia grosso il rischio di parlare di temi alti e stimabili (come appunto etica e morale) non approfondendo a sufficienza, quasi esistesse una distanza invisibile che non ci permetta di avvicinarci al cuore della faccenda. Divisi tra chi sta troppo bene per vivere la realtà delle conseguenze etiche globali e chi sta troppo male per porsi la questione etica come concetto da scardinare e promuovere.

Silvia Pérez-Vitoria, nel suo Manifesto per un XXI secolo contadino, si sofferma sulla figura del consum-attore, neologismo acuto, e, a questo proposito, Paolo Gomarasca, nel suo libro Etica del cibo, sottolinea:

Così, se vogliamo evitare che la parola, prima ancora d’essere presa, risuoni già “parlata” dal ritornello capitalista, dobbiamo smontare il mito del consumatore responsabile. Molta della retorica politica di questi ultimi anni ha puntato tutto su questa figura, raccontandoci la favola che avrebbe fatto sentire la sua voce, attraverso il carrello della spesa. Ma la verità è che assomiglia di più a una simpatica marionetta, che continua a muoversi nel labirinto seduttivo del marketing, predisposto per fargli credere di essere il protagonista del cambiamento. Chi si misura con le questioni che l’etica del cibo solleva sa bene che è un po’ infantile «sperare di salvare il mondo facendo meglio lo shopping».

Si dirà che stare attenti a quel che si compra è sempre meglio del consumo acefalo di massa o dello snobismo estetico del foodie, che poi non è altro che la versione post-moderna del raffinato buongustaio borghese; meglio sicuramente dell’ossessione voyeuristica di chi gode a postare foto di cibo sessualizzato su Instagram.

Ma ancora non ci siamo, se non arriviamo a prendere la via di un’azione collettiva e coordinata, in grado di dare forma politica all’indignazione. È probabile che quella voice comunitaria stonerà: vorrà dire che sarà stata una protesta autentica. Peraltro, basterebbe prestare orecchio: i contadini, almeno loro, lo stanno urlando da un pezzo [14]

Abbiamo finora introdotto questo macro-argomento nell’emisfero culinario, ovviamente uno dei punti focali del nostro quotidiano. L’intento qui è però di sviscerare quanto l’etica sia un problema reale o marginale nel mondo del vino.

Se pensiamo brevemente all’excursus storico del vino possiamo facilmente notare come questo alimento abbia subito una vera e propria mutazione del suo essere. Dapprima bevanda quasi mistica, legata ai sacerdoti e poi bevanda status symbol per i ricchi Romani, il vino transita nei secoli fino a diventare la bevanda del popolo. Nell’ultimo secolo il cambiamento di molti lavori, le avvisaglie sulla salute se bevuto in eccesso e le restrizioni alla guida hanno portato ad un calo (in Italia) del consumo pro capite da 130 litri (negli anni Cinquanta) agli attuali 25 (circa). Nel frattempo, il vino si è rifatto il volto, è diventato un prodotto culturale e oggi una degustazione si chiama esperienza sensoriale. Dal punto di vista produttivo convivono sia il vino di pessima qualità, che ha visto le uve con il binocolo, sia il vino di eccelsa qualità di cui i viticoltori, come monaci amanuensi, curano ogni dettaglio. Una prima domanda che sorge spontanea è se un vino degno sia un bene di lusso o un bene per pochi. Iniziale riflessione dai risvolti etici. La realtà è però assai composita e gli argomenti in ballo hanno a che fare con diversi scenari.

Lorenzo Tablino coglie, secondo me, un aspetto importante che attesta uno spostamento di interesse dall’attenzione per l’ambiente, più facilmente delineabile in alcune pratiche concrete, all’attenzione verso l’etica, nel suo inglobare molti più aspetti, magari meno definibili univocamente :

“Sta emergendo, nello scenario mondiale del vino, un nuovo concetto correlato alla qualità del prodotto che si potrebbe definire certificazione etica. Negli ultimi anni c’è stato un forte interesse verso la certificazione ambientale, correlata alle scelte che si effettuano nel vigneto e in cantina per garantire il rispetto dell’ambiente. Oggi, però, sembra aver perso importanza. Tutti la mettono in pratica, quasi fosse routine, e perde interesse. Inoltre, non è facilmente controllabile la sua reale applicazione. Si parte con slogan di alto profilo, ma realizzarli è tutt’altra cosa.
Oggi, il mondo del vino si sta orientando alla certificazione etica. Sono due gli aspetti principali. Il primo riguarda la correttezza dell’azione imprenditoriale: rifiuto del lavoro minorile e di quello irregolare, correttezza verso i dipendenti, scelta dei fornitori o dei mercati (off-limits quelli di Paesi con regimi dittatoriali). Scelte alle quali i consumatori prestano attenzione. L’altra riguarda il giusto prezzo del prodotto. La tendenza è di avere vini di qualità assoluta, chiamata oggi “totale” (obiettivo ormai raggiunto da moltissime cantine), ma a un prezzo accettabile. Cifre esagerate, correlate a elementi effimeri, a personaggi per nulla carismatici, a zone di recente – e magari discutibile – vocazione, sono giudicati un controsenso da parte di molti consumatori. [15]

Quando emergono crescenti pressioni sulla necessità di certificare una modalità, un comportamento, un protocollo allora è chiaro come il livello di attenzione stia evolvendo. Le ovvie conseguenze sono la creazione di spazi, di mercati, di nicchie riconoscibili che possano spostare il commercio, generando fatturati nuovi e generando un’immensa mole di marketing orientata a valorizzare quanto certificato. Una sorta di economia circolare opposta a quella di una semplice azienda agricola. Oggigiorno siamo già immersi in questo flusso di informazioni, in equilibrio precario nelle sabbie mobili della comunicazione. La richiesta di vino “etico” è argomento alla luce del giorno.

Personalmente, da amante e sostenitore dei vini naturali, pensavo che l’etica fosse uno dei fiori all’occhiello di questi vignaioli. Etica intesa come una forma indefinita di attenzione ad alcune pratiche e modalità di crescita intrinseca al loro fare. Ed è proprio questa precarietà di definizione che potrebbe indebolire (agli occhi della massa) il proprio impegno. Si tratta infatti di modalità di agricoltura e vinificazione non codificate con esattezza (seppur ben conosciute dagli addetti ai lavori) e non elevate con messaggi di marketing verso una platea estesa. Di segno opposto l’indole prospettica e conoscitiva operata da molte grandi aziende vinicole.

In particolare a me ha colpito un articolo che riportava i vincitori del premio Gavi La buona Italia:

Per l’edizione 2018, il Laboratorio Gavi ha scelto di puntare sulla responsabilità sociale, indagando sulla capacità delle aziende di conciliare, con azioni concrete, gli obiettivi economici con quelli ambientali e legati al rapporto con la loro community. Dieci le cantine finaliste 2018, appena selezionate dopo attenta analisi di una lunga lista di candidate: Bortolomiol (di cui spicca il progetto Green mark), Arnaldo Caprai (in evidenza soprattutto per il progetto New green revolution), Castello Banfi (autrice di un report di sostenibilità a 360°), Frescobaldi (per le iniziative su molti fronti, fra cui il rimboschimento e il lavoro con i detenuti del carcere di Gorgona), La Raia (per le attività sul welfare aziendale e di promozione dell’arte e del territorio, attraverso la sua fondazione), Mezzacorona (con un progetto completo di sostenibilità certificata Sqnpi), Tasca d’Almerita (capofila del progetto SOStain), ai quali vanno aggiunti il Consorzio della Franciacorta e il Consorzio di tutela vini della Valpolicella (entrambi per le iniziative di valorizzazione del territorio).

La premiazione si svolgerà a Gavi il 25 maggio. In quell’occasione sarà messa a punto una Carta del vino responsabile che, traendo spunti dalle buone pratiche dei finalisti, prenderà in considerazione l’impatto economico, sociale e ambientale dell’attività vitivinicola, compresi il welfare per i dipendenti, il ricorso a fonti rinnovabili, l’analisi dell’impatto ambientale, l’uso di materiali riciclati e packaging ecosostenibili, l’adozione di certificazioni e di reportistica di sostenibilità, la valorizzazione del territorio anche mediante progetti artistici, culturali e di accoglienza integrata. [16]

L’industria ha già codificato e elevato ciò che gli agricoltori di aziende artigianali hanno in dote ma non hanno la forza e la coordinazione per promuovere con uguale vigore.

A me pare di essere all’interno di un paradosso. E il problema di fondo risiede nella comunicazione. Aziende vitivinicole che gestiscono fatturati di milioni di euro hanno ovviamente le potenzialità per impiegare alcune risorse per comunicare al meglio la propria visione, la propria filosofia, il modus operandi o, più semplicemente, sanno intercettare l’evolversi delle mode, degli interessi commerciali, l’evoluzione dei gusti. Chi nel suo organico ha persone dedicate a gestire il marketing aziendale riesce a costruire un immaginario nel consumatore e, soprattutto, riesce a comunicare in maniera efficace qualsivoglia messaggio. Aziende più piccole, artigianali, magari focalizzate su pratiche biologiche e/o biodinamiche, equivalgono spesso ad un produttore factotum che si avvale di pochissimi collaboratori, spesso saltuari. Il lavoro in vigna, nei casi di agricoltura sana e pulita, non è paragonabile al lavoro di aziende che utilizzano pesticidi, diserbanti, pratiche molto invasive. E le pratiche burocratiche legate alle certificazioni rubano anch’esse molto tempo. Spesso si fatica a trovare il tempo per completare ogni azione necessaria. In questi casi non ci sono proprio le risorse umane per imbastire una comunicazione degna, continuativa e strutturata per traghettare la propria visione aziendale.

Una delle poche scelte possibili è dunque unirsi a qualche associazione o presenziare alle molte fiere che ormai brulicano. Queste risorse rischiano di diventare problematiche in quanto le associazioni, invece che trovare punti di accordo e unire le forze, tendono a battibeccarsi e le fiere si moltiplicano senza sosta, rischiando di calamitare meno l’attenzione su ognuna (almeno come messaggio). La conclusione di questa impasse comunicativa sovverte i caratteri dei protagonisti in gioco. Senza demonizzare nessuno, le grandi aziende accalappiano più facilmente il consumatore superficiale o poco interessato ad approfondire alcuni temi nel loro vortice concettuale sicuro e pragmatico, mentre le piccole aziende raccolgono le briciole, sull’onda dell’entusiasmo di pochi, rischiando di non venire comprese nella loro essenza e nei loro valori.

In sintesi, per le grandi aziende, si tratta di seguire il trend dei mercati, colorando la propria immagine di connotati riconoscibili e capaci di influenzare l’opinione diffusa:

le aziende sembrano aver compreso che aderire ai principi della responsabilità sociale d’impresa e comunicarlo ai consumatori può avere un’influenza positiva sia sull’immagine dell’impresa che sulle vendite dei prodotti. Come è noto, alcuni autori (Keller, 2003) affermano che in anni recenti le funzioni della marca si sono estese: originariamente considerata semplice trade mark, la marca è diventata dapprima garante della qualità dei prodotti, poi depositaria di uno o più benefit esclusivi, mantenendosi sempre in sintonia con l’ambiente e con i consumatori, quindi ha sviluppato un alto contenuto relazionale capace di creare un senso di comunità, per giungere infine a farsi portatrice di valori etici e responsabili. In questo senso la marca, che rappresenta la parte più visibile dell’azienda, diventa sempre più una sorta di sigillo di una nuova relazione tra il consumatore e l’impresa[17]

La carenza comunicativa non è solamente una prerogativa italiana come pure l’attenzione mondiale verso i temi dell’etica, come si evince dalle parole di un articolo di Fabio Piccoli, che mostrano quanto l’attenzione a questo argomento sia globale e maggiore in alcune aree e per alcune fasce d’età:

In Italia non è arrivato l’eco del documentario del giornalista danese Tom Heinemann dal titolo “Bitter grapes” Slavery in the vineyards (“Uva amara” La schiavitù in vigna), andato in onda nell’ottobre scorso in diversi canali tv di Danimarca, Svezia e Norvegia.
Il documentario – come riportato recentemente nell’articolo di Arabella Mileham su The Drink Business ” evidenziava il “lato oscuro” della produzione di vino in Sud Africa. Mostrava palesi violazioni da parte di alcune aziende produttrici sudafricane dei più elementari diritti dei lavoratori costretti all’esposizione a pesticidi pericolosi senza nessuna protezione, a vivere in condizioni squallide in una sorta di apartheid illegale e con pagamenti addirittura in alcol.
Il documentario ha sensibilizzato ulteriormente i consumatori dei Paesi nordici che storicamente sono i più attenti anche agli aspetti etici di qualsiasi tipologia di prodotti, compresi i vini.
Tanto che lo stesso documentario ha spinto una importante catena distributiva danese, la Dragrofa, ad eliminare dal proprio assortimento un’azienda coinvolta nell’indagine giornalistica di Heinemann. Senza contare che lo stesso monopolio svedese Systembolaget, secondo quanto riportato dal sito The Zimbabwean, ha inviato una specifica richiesta di chiarimenti su 5 aziende vitivinicole sudafricane al Dipartimento del lavoro di Western Cape.
Su questo fronte è particolarmente attiva Fairtrade International, la più grande organizzazione mondiale nel settore del commercio etico che opera anche una specifica certificazione per rilasciare uno specifico “Fairtrade brand” a quei prodotti che accettano di rientrare in un determinato protocollo produttivo.
Ed è proprio questa organizzazione che fornisce dati importanti rispetto all’evoluzione anche del mercato dei vini etici (Fairtrade Wine) che nel 2015 ha raggiunto i 24,7 milioni di litri, oltre 2,7 milioni di litri in più rispetto al 2014.
I mercati maggiormente interessati a questa tipologia di vini sono, oltre ai già citati Paesi nordici, anche il Regno Unito, la Germania, l’Olanda, il Belgio e il Canada, ma anche gli Usa stanno manifestando una domanda crescente e le prospettive sono di ulteriore notevole evoluzione su questo mercato.
L’aspetto più interessante ” ben riportato nell’articolo della Mileham ” è che questa evoluzione della domanda di vini “etici” è fortemente guidata dai Millennials che stanno manifestando una sensibilità molto più elevata rispetto alle generazioni precedenti su tematiche come la salute, l’ambiente ma anche il rispetto dei diritti dei lavoratori e della qualità della vita in generale.[18]

La chiusura di questo articolo parrebbe presupporre che il futuro possa essere roseo e sicuramente i passi in avanti sono eclatanti e da non discriminare. Io credo però che quest’attenzione crescente verso l’etica sia  solo la genesi di un problema potenziale che potrebbe rovinare tanta bellezza teorica. Per due motivi sostanzialmente. Da un lato le probabili proliferazioni di cantine e vini “etici” che possano saturare la domanda ma, soprattutto, creare confusione attorno a questa idea ancora troppo vaga e melliflua di etica applicata alla viticoltura. Da un altro lato la necessità crescente di sottoporsi a certificazioni che nel loro inglobare un vasto numero di produttori finiscano per allargare le maglie della presunta etica abbracciando tutto e il contrario di tutto.

Consideriamo l’universo dei vignaioli artigianali, soprattutto di area “naturale”. Categoria non scevra da comportamenti equivoci ma, nell’immaginario globale, maggiormente attenta a una serie di pratiche di gestione delle vigne e dell’azienda. Un articolo comparso su slowfood.it riepilogava alcune impressioni di una recente tavola rotonda il cui titolo era titolo: I vignaioli parlano al consumatore. Sul tema autocertificazione, etichette e controetichette, legislazione e nuove idee: in un mondo del vino sempre più intricato, come far capire con chiarezza a chi acquista il vino che cosa c’è nella bottiglia.

Prima di tutto è emersa con forza l’esigenza dei vignaioli di distinguere il proprio lavoro da quello dell’industria del vino. In questo senso l’etichetta e la controetichetta di un vino non sono sufficienti a un consumatore per capire la differenza tra un prodotto di agricoltura e uno industriale.

Proprio la legislazione europea sembra alimentare questa confusione andando incontro alle esigenze dei grandi produttori. Le istituzioni costituiscono un argomento sul quale la sensibilità contadina trova un primo sostanziale accordo: impossibile fidarsi di chi amministra o delle denominazioni così come sono, meglio organizzarsi per conto proprio. Questo è il secondo punto emerso: la necessità di autocertificazione per promuovere e far conoscere la bontà del proprio lavoro agricolo. Molti di loro sostengono che l’etichetta con l’indicazione “contiene solfiti” (dicitura obbligatoria dal 2004) senza specificarne la quantità e l’origine, sia un’ulteriore prova della capziosità legislativa. Ma come organizzare una autocertificazione è ancora un punto di discussione tra di loro.

A volte sembra però che i vignaioli si perdano in discussioni infinite sulla loro metodologia lavorativa per cercare di farla risaltare in etichetta: impresa difficile data l’impossibilità di ridurre a pochi millimetri di carta, la passione, la fatica, lo studio dietro alla genesi di una bottiglia.

Eugenio Rosi, uno di loro, sembra soffrire di questa interpretazione del concetto culturale del vino. «Non si può scomporre un vino naturale con delle analisi chimiche – sostiene il viticultore trentino – il concetto è più ampio e riguarda l’agricoltura. Il vino naturale può essere fatto solo da contadini ed è su di loro che va spostata l’attenzione».

La capacità di questi produttori è di realizzare vini non omologabili, espressione verace del rapporto uomo e territorio. Il terroir così espresso ha davvero poco a che spartire con un concetto industriale di agricoltura. Tutto ciò a nostro giudizio può avere un valore educativo verso le nuove generazioni di palati. Il gusto è la grande sfida di chi lavora in modo non industriale. Quante persone sanno riconoscere un pollo ruspante da un pollo da batteria? Promuovere l’educazione al gusto, permettere a ognuno di essere padrone del proprio palato, coinvolgendo anche, perché no, le istituzioni potrebbe essere l’obiettivo di questi vignaioli. Trovare un pubblico predisposto alla diversità, capace di riconoscere la qualità può aprire nuovi sbocchi comunicativi e finalmente segnare il confine tra chi fa agricoltura e chi ne trae solo profitto. [19]

Ciò che emerge in primis è l’attenzione che deve avere il consumatore. Affidarsi solo a sigle, etichette o certificazioni rischia di essere l’ennesima semplificazione per la nostra vita che però porti a disamine superficiali e informazioni grossolane. La realtà è che quanto, per ora, è possibile scrivere in etichetta può essere limitante anziché chiarificatore. Al centro della questione sicuramente le divergenze di opinione delle persone coinvolte che faticano a trovare la quadra, un terreno comune che soddisfi tutti. Come pure emblematico è il braccio di ferro tra le istituzioni e chi in vigna fatica veramente (solitamente i vignaioli di piccole aziende, non particolarmente strutturati con personale specializzato che possa dedicare molto tempo alle vicende burocratiche).

L’etica di fatto è ormai la stella sul petto che tutti vorrebbero avere. Lo scudo per difendersi dagli attacchi, per trincerarsi dietro le proprie convinzioni, il lasciapassare per uscire indenni dalle critiche. È pur vero che il mondo del vino, probabilmente per le sue potenzialità di espressione, è diventato una centrifuga di teorie, protocolli, nuove linee guida, spunti per nuove tecniche produttive. Un coacervo di dettagli e specifiche assai raro se paragonato a molti altri cibi o bevande. A questo proposito mi ritrovo abbastanza nelle parole di Antonello Biancalana:

Rilevo spesso che per il vino, molto più che per altre produzioni attinenti all’agricoltura, si tende ad essere più rigorosi ed esigenti, perfino più intransigenti e integralisti. Si esprimono considerazioni piuttosto rigide e si pretendono “condotte morali” ineccepibili, sia dal punto di vista ambientale, sia da quello tecnico, qualcosa che difficilmente si verifica in altri ambiti. Si pretende che il vino sia rispettoso per la salute e l’ambiente, che segua delle pratiche viticolturali ed enologiche rigorose, si creano vere e proprie fazioni che ripudiano tutto il resto, spesso considerato poco salutare e perfino dannoso. Al vino si chiede, praticamente senza eccezione, di rappresentare la tradizione di una cultura e di un territorio: l’innovazione è spesso vista come una sofisticazione lesiva per la tradizione di altri tempi, piuttosto che elemento migliorativo.

Il vino subisce spesso il peso della tradizione, una zavorra che lo mantiene fermo a un tempo che non esiste più ma che, per semplici motivi nostalgici, ci fa piacere rievocare. Dovremmo ricordare che una tradizione è semplicemente un’innovazione che ha avuto successo e che, a suo tempo, è riuscita a modificare un’altra tradizione. Si chiama progresso ed è quello che ci ha permesso di arrivare fino a qui ed è la ragione per la quale il vino di oggi non è come quello che producevano gli antichi romani. Anche sui trattamenti fitosanitari in vigna vige, più o meno, lo stesso atteggiamento. Secondo la tradizione, il trattamento operato con zolfo e solfato di rame costituisce il fondamento per la viticoltura sana e rispettosa per la salute e l’ambiente. Eppure, il rame è un metallo pesante e non è esattamente così semplice da smaltire una volta assorbito dal suolo. Più di una volta mi è stato offerto questo spunto di riflessione: chi inquina più, quello che fa dieci trattamenti di zolfo e solfato di rame, oppure quello che ne fa uno solo ma usando altri prodotti fitosanitari?

Già sento molti replicare sul fatto che i prodotti fitosanitari moderni sono espressione della chimica e certamente nocivi per la nostra salute. Può anche essere – del resto, io non ho competenza per affermare il contrario – tuttavia, non mi risulta che lo zolfo e il rame siano salutari per l’organismo. C’è una cosa che, in ogni caso, ho potuto percepire dalle parole dei produttori e dei tecnici con i quali ho il piacere di scambiare opinioni sul vino: tutti hanno il rispetto del proprio territorio, della vite e dell’ambiente. Sono tutti consapevoli della responsabilità di offrire ai propri clienti un prodotto sano e di qualità, rispettando, prima di tutto, il proprio vigneto, visto che è da lì che si genera il loro lavoro. Poi, ognuno ha le proprie visioni su come raggiungere questo obiettivo, sia di ordine etico sia tecnico, ma tutti riconoscono priorità assoluta e indiscussa alla vigna e al territorio, come conservarlo e rispettarlo nel migliore dei modi. E di tutte le cose frivole che vedo intorno al mondo del vino, questa, probabilmente, mi pare quella più concreta e sostenibile.[20]

Questo è uno snodo fondamentale. L’intransigenza e la brama di ogni dettaglio conducono ad un incrocio di incoerenze, come se si chiedesse al vino di essere anfitrione per ogni battaglia dei giusti sulla terra. Sulla carta o a voce si pretendono condotte morali, etiche e tecniche, di precisione e coerenza assoluta. Se solo arriva la soffiata secondo cui un produttore non adotta alcune pratiche o trova qualche compromesso, si grida allo scandalo. Un po’ come accade per il calcio quando un rigore o un fallo della domenica divengono questione di stato e ognuno diventa giudice divino in grado di regalare attendibilità e conoscenza. Pretendere una verità così definita da non riuscire nemmeno a comprenderla. Accettare una sorta di autenticità nozionistica a discapito di un discorso più ampio. Similmente all’incoerenza di chi fa la spesa solo al supermercato (magari stando attento ai prodotti bio ma economici), non leggendo minimamente ingredienti, paesi di produzione e di coltivazione, non stando attento al confezionamento, salvo poi pretendere in altri ambiti l’assoluto rispetto del terreno, dell’uomo, del valore del suo lavoro.  

Mi piace poi rimarcare le parole sulle tradizioni e sul loro valore intrinseco. Certamente ci sono aspetti da considerare centrali, come alcune pratiche decadute solo per lasciare spazio all’ottimizzazione industriale o l’abbandono di alcune coltivazioni a favore delle uve più resistenti o generose. Ma non è tutto oro quello che luccicava. Se rame e zolfo rimangono tra le modalità di intervento meno invasive certamente non sono la panacea di tutti i mali. Come non ha nemmeno senso replicare un gesto o una modalità solo perché in voga nel passato. Torna così alla mente quello scetticismo etico accennato all’inizio dell’articolo e la necessità di non affidarsi a semplificazioni argomentative per accettare ciò che è (o sembra) giusto o sbagliato.

Non ci ha pensato troppo Slowfood che ha preparato un vero e proprio manifesto per il vino buono, pulito e giusto.

Ne ha parlato Roberta Ragni in un recente articolo che riassume questa sorta di decalogo:

Un documento fondativo di una comunità che unisce tutti gli amanti del vino: quelli che lo fanno e chi, apprezzando questi vini, valorizza e ripaga le loro fatiche quotidiane. E che prende in considerazione tutto il complesso di relazioni che genera il lavoro del vignaiolo.
Nel decalogo, infatti, non si parla soltanto delle uve che finiscono in bottiglia e delle modalità di produzione, ma anche di come integrare le costruzioni nel paesaggio, di come rispettare il lavoro di collaboratori e dipendenti, dell’importanza di condividere le conoscenze con gli altri viticoltori del territorio.
«Il Manifesto Slow Food per il vino buono, pulito e giusto contiene tutti valori fondanti dell’approccio biologico – ha dichiarato Maria Grazia Mammuccini, vignaiola e presidente di FederBio. In questo senso sono certa che l’esperienza accumulata negli anni dal bio e dal biodinamico possa essere particolarmente utile ai produttori che vogliono aderire a questo documento il cui punto di forza è certamente la centralità del viticoltore, anche dal punto di vista etico».
Alla base del decalogo, naturalmente, il concetto di viticoltura sostenibile:
«Significa conservare le risorse – suolo, aria, acqua – affinché non ne siano private le generazioni future, senza trascurare la sostenibilità economica, né quella etico-sociale. Non è sostenibile un’azienda certificata biologica che rispetta i protocolli colturali ma sfrutta il caporalato o non paga i fornitori. Non c’è sostenibilità senza etica», spiega Maurizio Gily, agronomo, giornalista e già direttore di Millevigne, il periodico dei viticoltori italiani.
Ecco, allora, il Manifesto Slow Food del vino buono, pulito e giusto:
•            Le cantine devono coltivare direttamente almeno il 70% delle uve utilizzate per la produzione dei vini (con deroghe per alcune zone che per tradizione hanno un ampio commercio di uve, tipo Madeira, Napa Valley, Spagna del Sud, ecc…).
•            Le cantine non devono usare concimi, diserbanti e antibotritici provenienti dalla chimica di sintesi.
•            L’uso delle risorse ambientali per la produzione di vino deve essere cosciente e sostenibile. Il ricorso a sistemi d’irrigazione deve essere limitato il più possibile e finalizzato a evitare casi di stress idrico severo.
•            Gli edifici aziendali, se da costruire, devono rispettare il paesaggio. Qualora le costruzioni siano già esistenti, la loro eventuale ristrutturazione e conduzione deve tenere conto della sostenibilità ambientale.
•            Le cantine non devono utilizzare l’osmosi inversa e metodi fisici di concentrazione del mosto. Inoltre, se non per gli spumanti o i vini che lo prevedano per tradizione, non deve essere impiegato MCR (mosto concentrato rettificato) o zucchero (a seconda dei Paesi dove si opera). Non è previsto l’uso di trucioli per aromatizzare i vini.
•            La quantità di solforosa nel vino non deve oltrepassare i limiti indicati nella certificazione del vino biologico dell’Unione Europea.
•            I vini devono essere specchio del terroir di provenienza, per questo motivo vediamo con favore l’utilizzo di lieviti indigeni così come la ricerca scientifica tesa a isolare lieviti autoctoni che poi possono essere replicati e utilizzati dall’azienda oppure da più vignaioli della stessa zona e denominazione.
•            I vini devono essere privi dei principali difetti enologici, perché questi tendono a rendere omogenei i vini e appiattire le differenze territoriali.
•            È auspicabile che la cantina collabori attivamente con l’intera comunità agricola ai fini di valorizzare il sistema agricolo dell’area territoriale dove opera. A questo proposito è assolutamente necessario che la cantina mantenga un rapporto virtuoso con i propri collaboratori e i propri dipendenti, incoraggiandone la crescita personale e professionale, ed è altrettanto necessario che la cantina collabori e condivida conoscenze con gli altri viticoltori del territorio, evitando azioni di concorrenza sleale.
•            Il vignaiolo sostenibile incoraggia la biodiversità attraverso pratiche quali: l’alternanza del vigneto con siepi e aree boscate; una gestione del suolo che preveda inerbimenti e sovesci e che escluda, in ogni caso, il suolo nudo, se non per brevi periodi stagionali; la tutela degli insetti pronubi e della fauna utile utilizzando di preferenza insetticidi ammessi in agricoltura biologica qualora tali interventi si rendano necessari, e comunque evitando di utilizzarli durante la fioritura della vite e di altre specie erbacee presenti nel vigneto; l’allevamento di animali nel rispetto del loro benessere e la produzione in azienda di letame; la produzione aziendale di compost da residui di potatura e altri materiali organici.[21]

Quanto sopra potrebbe essere considerato un lieto fine. E vissero tutti etici e contenti. Ma tra il dire e il fare ci sono, come abbiamo cercato di capire, interi universi da colmare. Non è un decalogo scontato né di facile applicazione su larga scala. Probabilmente anche con punti non totalmente condivisibili da qualcuno. Ma è pur sempre una traccia. Una dichiarazione universale per una sorta di vino genuino. Perfettibile ma ammirevole.

Ritengo fondamentale però l’approccio. La modalità di avvicinamento a questa lista di principi giusti e sacrosanti. Non credo sia una lista della spesa da imparare a memoria e applicare senza convinzione. Credo piuttosto che l’etica debba nascere ed essere una forma primigenia di riflessione sulla vita e non una bieca accettazione. Credo che possa esistere un vignaiolo veramente naturale se questi principi siano l’istintiva conseguenza del suo ideale. Credo che l’etica applicata non sia altro che una figlia di un’etica madre che nessuna scuola o nessuna legislazione possano inculcare.

Alcuni di queste riflessioni le ritrovo in un’intervista a Jonathan Nossiter, regista e scrittore, da anni impegnato nella valorizzazione del mondo del vino naturale, presente nel libro a cura di Officina Enoica, Guida al vino critico. Storie di vignaioli artigiani in Italia:

Il movimento dei vignaioli naturali può essere una fonte di speranza e di ispirazione: dalla metà degni anni Duemila si è imposto per la sua libertà politica, sociale ed estetica, grazie al loro spirito ferocemente individualizzato e ferocemente collettivo. Quello che distingue il vino naturale da quello convenzionale è che non ci sono regole. L’unica regola è questa. Ma esistono un’etica condivisa e alcune pratiche che da essa derivano.

Il “movimento” è etico e civile, è impegno politico nell’unico senso possibile. Ma ha ancora una “purezza”. Non conosco un’altra situazione in cui ci sia una ricerca estetica che non sia vuota, ovvero una ricerca di “bellezza” nel senso civico del termine. […] Credo che oggi dedicare la propria vita a far mangiare agli altri il frutto del proprio lavoro sia politico, nel senso di libertà politica. Il movimento dei vignaioli – in sintesi – è una speranza, ma in un mondo così duro mi viene da dire che non basta.” [22]

Ridurre tutto all’etica potrebbe essere una battuta d’arresto. O l’ennesima argomentazione per perorare una o l’altra causa. Potrebbe, dunque, essere un enorme e bellissimo recinto che conduca all’oblio delle certezze, dimenticando concetti più vasti come civiltà, purezza e libertà.

Che forse non siano da riprendere in mano alcune parole di George Edward Moore e dei suoi Principia Etica (1903)?

Sostenere che una cosa è buona, perché è naturale, o cattiva, perché è contro natura, in questi sensi comuni del termine, è quindi certamente fallace; e tuttavia tali argomenti sono usati molto frequentemente. Ma comunemente non pretendono di dare una teoria sistematica dell’Etica. Tra i tentativi di sistematizzare un appello alla natura, quello che oggi prevale maggiormente si trova nell’applicazione alle questioni etiche del termine Evoluzione, nelle dottrine etiche che sono state chiamate evoluzionistiche.

Propongo di limitare il termine Etica Evoluzionistica alla visione che dobbiamo solo considerare la tendenza dell’evoluzione per scoprire la direzione in cui dovremmo andare.[23]

Che l’etica possa pertanto rappresentare solo una tensione, una parte dell’orizzonte, una forma di comprensione della nostra evoluzione.

Che l’etica non sia solo la banalità di una definizione in cui tutti possano ritrovarsi, una speranza sfinita, la salvezza condivisa.

Un dettaglio, probabilmente banale, che mi preme sottolineare ruota attorno alla necessità di un consumatore etico che si rapporti ad aziende/realtà etiche. Non per moda ma per convinzione e coscienza. Al di là di un auto compiacimento nel fare qualcosa che pare giusto. Oltre la realizzazione personale, edonistica e antropocentrica. E forse uno degli scogli più temibili è proprio questa responsabilità indotta dal perbenismo di facciata più che intrisa di una spontaneità. Una sorta di educazione all’etica per emulazione.

Ritornano alla mente alcune poesie di Umberto Fiori che tanto ha scritto sull’omologazione e sulla indistinzione dei pensieri. Quasi come ad un certo punto della vita si bramasse un’appartenenza, una forma inclusiva al di là delle proprie convinzioni.

Tutti

Cercavo il muro, nel muro che a una svolta
si illuminava.

Ascoltavo – lontano, dietro i pensieri –
la voce della mia voce.

Speravo, un giorno, di vedere quello
che vedono sempre tutti.[24]

O un’altra poesia, che in poche righe, esemplifica cosa un nome possa comportare. E per trapasso una definizione, inetta nel suo sporgersi, che rischi di soffocare, di rimproverare invece che insegnare. Così da essere seguita invece che compresa.

Chiamare

Sul controviale in ombra, dove la benna
graffia l’asfalto, nel traffico
che a passo d’uomo si muove
verso la piazza,
un motorino s’impenna.

Ogni cosa sta in pace nel suo nome.
Soltanto il mio
– di là, nell’altra stanza –
cade nel vuoto, lo scuote
come un rimprovero.[24]

E, nuovamente, ancora la poesia che in poco riesce a intuire la fragilità del limite lessicale come pure la vacuità delle abitudini, dei comportamenti automatici, dell’uniformità dei gesti.

Io spero sempre di imparare
tutto, da voi.

Perché voi siete grandi.

Voi sapete. Vi guardo
intascare l’assegno, chiedere
un caffè lungo, due campari.

Vi guardo scambiarvi le biglie,
i bottoni, le bambole,
bisbigliarvi all’orecchio un altro segreto.[25]

Sarà che nella poesia spesso trovo domande anziché risposte. Sarà che in poesia si accenna a ciò che sfugge, ricercando nelle parole qualcosa oltre il mero significato. Sarà appunto questa metodologia del pensiero ma l’impressione è che pure l’argomento di oggi, l’etica, non sia il paradiso. Non tanto dal punto di vista concettuale, che rappresenta il lato su cui si concentrano la maggior parte dei ragionamenti su di essa, quanto sul suo prima e il suo dopo. Dunque, sulla sua nascita, innanzitutto, figlia illegittima del bisogno di ricercare compromessi, limiti, schemi comportamentali, atteggiamenti programmatici; e non figlia genuina di una purezza d’intenti, di una bontà senza ansia di compiacere, di un’apertura che sfugga all’interesse. E poi sulla sua applicazione, che corre il rischio di diventare una prassi a cui sottostare invece che una convinzione da preservare.

La speranza rimane che quest’etica sulla bocca di tutti non sia l’ennesimo segreto di pulcinella, l’ennesima definizione spenta, l’ennesima parvenza di quel bene assoluto a cui l’uomo tende nell’impossibilità di raggiungerlo.

Certamente tortuoso, questo percorso concettuale è irto di difficoltà, di presagi deludenti come pure di sogni realizzabili. Mi permetto di riepilogare i passi tracciati. La disamina di etica e ragione ci ha condotti ai (nuovi) diritti universali speranzosi di combattere un fondato scetticismo etico moderno. Di fronte alla difficoltà di termini e opinioni assolutistiche considerare i beni comuni non è questione semplice. L’uomo rimane al centro, fintamente onnipotente, mentre cresce l’interesse attorno all’etica, sia della terra, sia in agricoltura, sia, in ultima istanza, nel cibo e nel vino. Abbiamo visto come quest’attenzione potrebbe essere di facciata, legata a logiche di marketing e comunicazione, spostando il centro dalla certificazione ambientale (ardua) a quella etica (più eterea e applicabile sotto diverse forme). Il passaggio da bene di tutti a bene di lusso, sia di molta parte del cibo, sia del vino, travasa l’interesse nel commercio che si nutre di espedienti e luoghi comuni. L’etica, in questo, è un magnifico abbraccio che coinvolge più aspetti: rispetto del territorio, dei lavoratori, delle tradizioni, dell’ambiente, del futuro, della salute, del gusto. Aspetti che rischiano di essere giustificazioni, motti, protocolli di comodo, accorpamenti superficiali. Non tutto è perduto e azioni interessanti (vedi il decalogo di Slowfood sul vino) esistono. Ma vorrei sottolineare come questa sia la parte emersa, certamente onorevole; senza le fondamenta questo circo rischia però di crollare. Il decalogo deve essere l’emanazione sincera di un credo e non un insieme di regole, altrimenti il portato dell’intera faccenda si scioglie al sole. L’evoluzione diverrebbe stantia, nata stanca, solo per aderire ad una appartenenza condivisa, per non sentirsi soli, né esistenzialmente né economicamente. Perché l’etica sia davvero qualcosa di fondante serve una rivoluzione nel pensiero prima che nella pratica dell’agire.

Chiudo ricordando nuovamente Jonathan Nossiter che, si diceva, è anche documentarista e uno dei suoi lavori più noti è Resistenza naturale. Film documentario che ha per protagonisti alcuni produttori italiani, tra i primi a credere, in maniera forte e determinata, nei vini naturali.

Mi sembra giusto concludere con qualche parola su due vini di due produttori inclusi in questo film:

Pacina – Chianti Colli Senesi 2005: Pacina è un convento del 900 che si estende per circa cinquanta ettari nei colli senesi. Gli ettari vitati sono circa dieci e la famiglia Tiezzi se ne prende cura da parecchi anni, cercando di non accettare compromessi con la moderna tecnologia enologica. Pacina di fatto è una realtà più che consolidata nell’ambito dei vini naturali tant’è che è stata anche protagonista del documentario di Nossiter sul tema.

La voglia qui era di vedere come se la passava questo Chianti di quindici anni. All’inizio si è mostrato reticente, chiuso, non subito in vena di confidenze. Una selva che non si lasciava scoprire. Ma è bastato aspettare, portare pazienza ed ecco more e ciliegie affacciarsi, ammantate dalla liquirizia. E poi muschio, un’aria umida, intensa. E le bacche di ginepro. Il giorno seguente mi ha accolto con una freschezza ritrovata ma con un frutto più in disparte, schivo mentre la componente balsamica diventava preponderante. La menta in primis, avvolgente, fasciante. Una brezza in testa. Ottimo vino, una conferma anche nella tenuta degli anni.

Per la cronaca siamo a Castelnuovo Berardenga, nei colli senesi e questo Chianti è frutto dell’unione di Sangiovese (95/97%) e Canaiolo/Ciliegiolo (3/5%). I suoli sono composti da tufo e le vigne hanno tra i 10 e i 38 anni. La fermentazione avviene con i soli lieviti indigeni. La macerazione è di circa sei settimane in vasche di cemento. Nei sei mesi seguenti avviene la fermentazione malolattica nelle stesse vasche. Infine il vino affina in fusti da 500 litri e botti da 17/25 hl di rovere per 14 mesi. Il tutto si conclude con un ulteriore affinamento in bottiglie di altri 12 mesi.


La Distesa – Meticcio 2019: ci sono vini che raccontano storie più grandi di un calice. Vini che potrebbero essere apprezzati per quanto sanno dare, in termini di gusto, ma che sono anche il pretesto per aprire, sbirciare una visione più ampia. Corrado Dottori, insieme alla moglie Valeria, sono la mente dietro il progetto de La Distesa. Sono passati circa vent’anni dalla sua nascita e qualche libro (oltre ai vini ovviamente). Si, perché Corrado Dottori si è imposto all’attenzione degli appassionati anche per le sue posizioni ben argomentate. Non è il vino dell’enologo era il titolo del suo primo libro. Una laurea alla Bocconi, una carriera nella finanza e poi il cambio di vita. Radicale. E una visione che va componendosi e ampliandosi negli anni. Convinzioni che cadono e rinascono. Il vino, la terra, l’agricoltura: strumenti, pretesti, situazioni per parlare del proprio posto nel mondo contemporaneo.

Basti leggere il retro dell’etichetta nella foto. La fotografia della realtà quotidiana che si interroga sui temi della purezza, dell’appartenenza e dell’identità. E dunque questo Meticcio, nome assai azzeccato ed esplicativo. Nato da un incrocio e in grado di dare parola ad un concetto tramite una modalità di vinificazione.

No, non mi pare sia solo una questione di cosa ci sia nel calice. E diciamolo: l’entità di questo vino va di pari passo con l’idea che porta in dote. All’apertura tira fuori un carattere forte, un piglio deciso, rimane sul chi va là ma giusto il tempo di ambientarsi. Poi scorre più placido, rimanendo saldo, non accomodante, comunque sicuro dei suoi mezzi. Il suo universo comprende amarene sotto spirito, ginger, radice di liquirizia, arancia amara candita. Non un vino da mezze misure, un po’ fernet branca e un po’ liquore alla ciliegia. E spunta qualche visione chissà da cosa influenzata: bacche di ginepro, rododendro, fili di rame, una rosa bagnata dalla pioggia. Per chi ha bisogno di un solo aggettivo: buonissimo!

Qualcuno dirà che si spendono troppe parole, persi tra descrizioni organolettiche e storie di vita. O che ha senso solo che un vino sia buono o cattivo, che è pur sempre una bevanda, nulla più, che questo è marketing o storytelling di facciata. Io invece penso che il bello di alcuni vini artigianali, di piccole realtà, non si esaurisca nel bicchiere. Oltre le gambe (o gli steli) c’è di più.

Per la cronaca siamo nelle Marche, dalle parti di Cupramontana. Questo mix di uve bianche e rosse dovrebbe comprendere Verdicchio, Trebbiano, Sangiovese e Montepulciano. Uva nata nei vigneti a San Michele su un terreno argilloso fortemente calcareo. Le vigne sorgono sui 350 metri s.l.m. Rese sui 40 q/ha. Questo rosato non si ottiene per pressatura soffice di sole uve rosse, né per salasso, bensì è un vino che nasce dalla raccolta contemporanea delle nostre uve a bacca bianca e rossa che vengono pressate insieme, e fermentano naturalmente, con i soli lieviti indigeni, in una mescolanza di bucce, pelli e colori. La vinificazione avviene in acciaio. Non avviene nessuna stabilizzazione né chiarifica. Filtraggio leggero a cartoni. Solforosa, se serve, solo in minima aggiunta in fase di imbottigliamento. 2000 bottiglie prodotte.


[1] https://www.caviro.com/

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Caviro

[3] Mario Soldati da Vino al vino: alla ricerca dei vini genuini (Mondadori, 1969)

[4] https://www.viniveri.net/

[5] https://www.vinnatur.org/perche/statuto/

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Etica#:~:text=Spesso%20etica%20e%20morale%20sono,riflessione%20speculativa%20su%20norme%20e

[7] Roberta De Monticelli da La questione morale (Raffaello Cortina Editore, 2010)

[8] Norberto Bobbio da L’età dei diritti (Einaudi, 1990)

[9] Serenella Iovino da Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2004)

[10] Sergio Bartolommei da Etica e natura (Laterza, 1995)

[11] Fancesca Rigotti, Etica del cibo, https://www.eticaeconomia.it/etica-del-cibo/

[12] Afterhours da Hai paura del buio? (Mescal, 1997)

[13] Georg Simmel da Sociologia del pasto in Estetica e Sociologia. Lo stile della vita moderna, a cura di V. Mele (Armando, 2006)

[14] Paolo Gomarasca da Etica del cibo (Morcelliana, 2021)

[15] https://www.gazzettadalba.it/2018/06/quando-il-vino-diventa-etico/

[16] https://www.ilsole24ore.com/art/la-carta-vino-etico-nasce-10-buone-pratiche-AEjAVrZE?refresh_ce=1

[17] http://archives.marketing-trends-congress.com/2007/Materiali/Paper/It/Mortara.pdf

[18] https://winemeridian.com/news_it/nel_mondo_sempre_pi_voglia_di_vino_etico.html

[19] https://www.slowfood.it/slowine/etica-ed-etichette/

[20] http://www.diwinetaste.com/dwt/it2015041.php

[21] https://www.greenme.it/mangiare/altri-alimenti/manifesto-vino-slow-food/

[22] Officina Enoica – Guida al vino critico. Storie di vignaioli artigiani in Italia (Altraeconomia Edizioni, 2016)

[23] George Edward Moor – Principia Etica (1903)

[24] Umberto Fiori da Tutti (Marcos y Marcos, 1998)

[25] Umberto Fiori da Voi (Mondadori, 2009)