In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà venerdì 18 giugno alle ore 17 in Piazza Vecchia (qui le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Nel quinto e ultimo appuntamento, parliamo con Sergio La Chiusa, in cinquina con i Pellicani. Cronaca di un’emancipazione (Miraggi, 2020).
[Qui si possono leggere le interviste a Calandrone, Franchini, Alunni e Mariangela Mianiti]
Prima di approdare al romanzo, lei ha scritto prevalentemente poesia. Che relazione c’è tra le due scritture? C’è una comune ricerca stilistica alla base di entrambe le forme letterarie? Nel costruire il ritmo, i suoni e la sintassi dei Pellicani ha tenuto a mente una cadenza poetica?
Non c’è un prima della poesia e un dopo del romanzo: prove poetiche e narrative sono state portate avanti in parallelo per molti anni, come in due stanze comunicanti, temi e ossessioni passavano da una stanza all’altra, sottoposti a trattamenti diversi, prevalentemente per sottrazione e sintesi nella stanza della poesia, per accumulazione e analisi nell’altra. Intorno al 2008 chiusi il laboratorio poetico, perché mi pareva che la narrativa, che consideravo il centro della mia ricerca, esigesse un’immersione totale. I Pellicani si presenta ai lettori come romanzo d’esordio, ma è in verità l’ultimo risultato di un lungo percorso.
Penso che la poesia sia stata importante per il mio lavoro sul romanzo, soprattutto perché mi ha sollecitato a pretendere anche dalla prosa l’intensità ritmica e sonora, la temperatura stilistica, la polisemia, la spregiudicatezza di una scrittura libera da condizionamenti commerciali.
Il protagonista Pellicani nel corso del romanzo sembra operare in più direzioni per smantellare i presupposti ideologici ed economici del mondo in cui vive, soprattutto predicando il disattivismo e la passività. Sebbene fallimentare, si può leggere quella di Pellicani come una forma di resistenza al potere? Questa resistenza si può trovare anche nella lingua che parla il protagonista-narratore, o invece questa ha completamente assimilato il discorso del potere?
Quella di Pellicani è a mio avviso la parodia di una resistenza al potere, che peraltro allude alle forme sostanzialmente sterili che la critica del capitalismo tende ad assumere nella società contemporanea, nella quale siamo tutti tanto inestricabilmente legati e compromessi da trovarci sempre ad agire all’interno di una contraddizione. Pellicani è un vinto, una scoria della società dei consumi, e mette in scena la sua rivolta sul palcoscenico della coscienza proprio in quanto scoria. La sua è insomma la protesta di chi non è riuscito a tenere il passo dei tempi. Lo rivela anche la sua lingua, che, sebbene sottoposta a spinte contrarie, tra le quali quella di una voce interna, insubordinata e polemica, che porta un contenuto residuale di ribellione, ha inconsciamente assimilato il discorso del potere, che parla attraverso il suo corpo con l’invasività arrogante del ventriloquo.
Se quella di Pellicani è solo la parodia di una resistenza ai presupposti ideologici del mondo in cui vive, la lingua del romanzo, che non si limita a essere la lingua di un personaggio con le sue caratterizzazioni psicologiche e sociali, mi pare invece “resistente”, perché esibisce un sistema complesso di prospettive sulla realtà e di registri, tra i quali risultano particolarmente evidenti certi modi del discorso mediatico che ironicamente alludono alla natura scivolosa, ambigua e ipocrita della lingua dominante.
C’è nel romanzo una progressiva sovrapposizione delle figure del padre e del figlio, che finiscono per assomigliarsi nei vestiti, nei comportamenti, nel fisico. Possiamo pensare al vecchio Pellicani come a un doppio perturbante del figlio?
Si tratta di due personaggi distinti, ma mi pare lecito pensare il vecchio anche come un doppio perturbante del giovane, uno specchio che produce allucinazioni nella mente disturbata del protagonista e ne amplifica le paure. Nell’ipotetico padre rimbambito e paralizzato, l’ipotetico figlio vede un’immagine plausibile di se stesso proiettata nell’avvenire: il padre è insomma la personificazione della malattia e della vecchiaia incombente verso cui inevitabilmente scivola il figlio. E infatti, nonostante prenda a più riprese le distanze dal padre, Pellicani tende a somigliargli sempre di più, nell’aspetto e nella posizione che occupa nel mondo, fino al punto di prenderne letteralmente il posto, allungato sul suo letto matrimoniale e vestito con il suo vecchio abito di nozze. E nel lettore può legittimamente insinuarsi il sospetto che i due Pellicani siano in fondo due versioni della medesima persona.
I Pellicani è costruito come un lungo e incessante monologo del protagonista, solo raramente interrotto dagli altri personaggi che entrano in scena nell’appartamento. Quanto possiamo credere a quello che racconta Pellicani, visto che disponiamo soltanto della sua prospettiva sulla realtà?
Pellicani è un narratore inattendibile. Si presenta come un investigatore impegnato a smascherare la realtà, ma risulta subito chiaro che si tratta invece di un impostore che cerca in tutti i modi di travestirla, la realtà, sicché il monologo scivola incessantemente dall’investigazione alla messinscena e viceversa, e alle serie assillanti di domande da pedante inquisitore seguono altrettanto assillanti serie di ipotesi e contro-ipotesi spesso strampalate, una vera e propria opera di mistificazione. Bisogna dunque sottoporre le parole di Pellicani allo stesso dubbio sistematico cui egli sottopone la realtà.
Naturalmente, tra le maglie del suo racconto tendenzioso si aprono continui squarci di verità che mettono in crisi la recita dall’interno, la complicano, la negano, sbugiardano il narratore e turbano l’ordine arbitrario che egli tenta vanamente d’imporre alle cose, esattamente come il discorso menzognero del potere lascia intravedere, tra le sue falle logiche, le verità che tenta d’occultare.
I Pellicani è un romanzo decisamente comico e grottesco, con parecchie gag memorabili: una su tutte, il peto con cui il vecchio infermo risponde alla domanda dei due “competenti” di firmare la cessione dell’appartamento. L’origine di questa comicità risiede soprattutto nel cibo, nel corpo, nei suoi umori e nel suo decadimento. Qual è la sua idea di comico e quali sono i modelli comici letterari (e, se ci sono, extraletterari) del romanzo?
Il comico, nelle sue versioni migliori, è l’irrisione del potere, il ballo sgangherato tra le macerie, l’intruso che rutta nel pieno di una cerimonia ufficiale, il capovolgimento delle idee e dei valori cristallizzati, l’anarchia, il sabotaggio, la messa in crisi delle gerarchie e dei rapporti ordinari tra le cose. Un allegro rimescolamento delle carte che ha dato vita all’arte del romanzo europeo moderno, basti pensare a Rabelais e a Cervantes.
Il cibo, il corpo, i suoi umori e il suo decadimento, che lei vede all’origine della comicità del mio romanzo, sono a mio avviso solo materiali tra i tanti su cui si applicano i procedimenti comici. A suscitare il riso sono l’incongruenza tra il racconto del protagonista e la realtà, il capovolgimento delle proporzioni e delle prospettive, la presenza di dettagli incongrui, la disarmonia tra soggetto e spazio, il modo in cui i personaggi circolano insensati sulla scena del romanzo come su un palcoscenico angusto e ingombro d’inciampi, oggetti-trappola che stanno dove non dovrebbero stare, come, per esempio, i mutandoni del vecchio appesi in soggiorno nei quali resta invischiato il giovane Pellicani – mutandoni che rappresentano a un tempo la buccia di banana su cui scivola l’attore e l’innesco allegorico.
Certe scene comiche possono ricordare il cinema muto. Charlot, in particolare, ha anche lasciato in eredità alcuni suoi tratti estetici al mio Pellicani, come l’abito da manager sudicio e la valigetta-protesi, prolungamento del corpo e parodia di status symbol, omaggi all’abito rattoppato del vagabondo e al suo inseparabile bastone da passeggio. Ma il mondo di Chaplin condivide dei tratti con il più perturbante mondo di Kafka, e, soprattutto, ha lasciato un segno nei reietti di Beckett, i Molloy e i Malone che con la loro irresistibile attitudine auto-affabulatoria mi sembrano tra i progenitori più prossimi del mio Pellicani, loro indegno discendente. Penso infatti che nel mio romanzo gli effetti comici dipendano in buona parte dalla lingua del protagonista, dai continui slittamenti di registro e repentini cambi di prospettiva, e dall’incongruenza tra i registri adoperati e le vicende narrate.
Un’ultima domanda, leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio: qual è la qualità o il carattere che possono far vincere questo libro?
Pellicani è un perdente, e mi parrebbe strano vederlo ritirare un Premio con il suo abito sudicio e la sua valigetta piena di Simmenthal… A ogni modo, per stare al gioco, direi: la vivacità dell’immaginazione.