Al Pibe di Gianni Minà (Maradona: «Non sarò mai un uomo comune», minimum fax 2021) riesce la rara impresa di combinare – in un unico prototipo eroico – il meglio della furbizia odissiaca e dell’arroganza del Telamonio, ma evitando la shame culture. Il processo che si profila all’orizzonte non vede in palio una panoplia, né coinvolge – sorprendentemente – Leopoldo Luque e il team di medici vicini a Maradona nelle sue ultime ore: è questo il testo della serrata arringa con cui un decano del giornalismo nazionale, da sempre paladino del Diez, costruisce la difesa di un assistito mai del tutto assolto dall’accusa di straordinarietà. Per far fronte al pericolo che il lavoro possa risultare una tentata apoteosi a tavolino, l’autore non manca di rammentare al lettore il contesto (è stato davvero amico di Diego Armando Maradona) e le circostanze materiali in cui il libro è stato assemblato (l’immediato post mortem dell’umano più spesso accostato a Dio negli ultimi cinquant’anni).

Prendendo posizione, si assume comunque un rischio. La tesi che costituisce il nerbo della narrazione –  intervallata da articoli di raccordo o a suggello delle singole sezioni (Primo tempo e Secondo tempo) – è una e indiscutibile: si racconta di un atleta messo sotto scacco da una morale retriva e inadatta, al pari delle istituzioni che la rappresentano, a contemplare lo spettacolo del Sublime. L’atleta in questione va dunque sostenuto apertamente, come richiesto dalla gravità di un evento – quale un decesso – di portata definitiva, che lo pone al cospetto del giudizio della storia. E la documentazione, che il reporter fornisce per prevenire la degenerazione in Apokolokyntosis, serve in ultima analisi a provare l’allineamento di Minà – fin dagli albori – alla fazione dei più deboli.

Oltre a ciò, e proprio per questo, l’opera è rifiuto della morte, grido di mancata rassegnazione alla finitezza della condizione umana che in Maradona trova il paradigma perfetto (si veda p.es. l’uso del presente nell’Introduzione: «in poco tempo le sue capacità divennero il metro di paragone di ogni confronto calcistico, facendo di lui un fuoriclasse adolescente che, oggi come allora, si chiama [corsivo mio] Diego Armando Maradona»; cfr. anche la frase d’apertura: «questa è la storia di un uomo ritrovato che doveva essere morto e invece è rinato»). La scomparsa di un messia, specie se ne si è caldeggiata l’elezione in vita, può fare questo effetto: siamo ben oltre il culto terreno di Hailé Selassié. Maradona è qui più che altro un David – dotato di coscienza politica – alle prese con Sepp Blatter, João Havelange, Equitalia e Ferlaino.

Il Primo tempo si gioca sul nesso tra ascesa sportiva e infelicità. Dieci anni bastano a Diego per raggiungere l’acme del 1986 e “il gol del secolo”, con tanto di redenzione rispetto all’altrettanto celebre prodezza manuale (quando se ne parla, è solo una delle tante «prove malandrine»; più avanti, per l’unica altra menzione, il gesto sarà archiviato come «quello con la mano»). Per altri cinque il campione provvede a scavarsi la fossa, dalla quale l’amore di Napoli non saprà salvarlo e verso cui, anzi, lo sospingerà. Alla prima intervista un po’ più confidenziale si arriva grazie alla mediazione del giornalista Blanco, portavoce del fuoriclasse ed “esaminatore” delle credenziali di un Minà inizialmente scettico rispetto alla vulgata «velata di vittimismo» che il collega gli propone.

Il giovane Maradona, sensibile al ricordo delle proprie origini, si presenta in Italia ferito dal governo dei generali e deluso dall’accoglienza della Spagna, che immaginava più “inclusiva” sia al suo interno che verso i forestieri. Voleva emulare il Real Madrid di Di Stéfano, ma è rimasto imbrigliato (e «senza gioia») nel Barcellona da Coppa Uefa di Lattek, Romero e Menotti. Approda in Campania nel pieno di un clima calcistico-imprenditoriale di cui il Verona di Bagnoli e la Samp di Boskov costituiscono gli estremi cronologici: in tempi di Superlega, gioverà farlo presente una volta di più.

La squadra, mediocre e quasi in zona retrocessione, diverrà una corazzata mai fuori dalle prime tre; suggestivo, nell’intreccio di memorie e risultati, l’incastro con la Fiorentina di Bersellini, che ha in rosa Ramón Díaz, i giovani Baggio e Nicola Berti, i veterani Oriali, Gentile e Antognoni. Maradona mette in piedi un anti-Milan, coerentemente con il disprezzo esternato verso i ricchi del pallone e l’America dello show. Il suo è piuttosto un circo dove tutto è «irripetibile», come la grande festa di Napoli che lo stesso Minà e Lina Sastri celebrarono da “presentatori” in occasione del primo scudetto. Analoga la vittoria in Europa, unicum nella storia della società, arrivata dopo un cammino piuttosto tradizionale: molta fatica al debutto (durissima con il Paok) e massima scioltezza alla fine, per la delusione dello Stoccarda di Klinsmann.

Ma il filo del discorso non segue – per scelta – un andamento lineare e si ricollega molto presto ai momenti di grande buio maradoniano: dal fallaccio di Goikoetxea del Bilbao – che riemerge regolarmente, come segnale corporeo, per ricordare al calciatore i suoi limiti – al rapporto con Ottavio Bianchi (delatore per conto di Ferlaino), dalla reazione «alla Zidane» contro Criscimanni (centrocampista dell’Udinese) fino alla conoscenza della droga. A questo punto Minà compie una scrematura, facendo risaltare – nella cronaca di un dissidio interiore già in atto, ma che in molti «non stavano capendo» – le amicizie migliori (Bagni, Pecci, Giordano e Ferrara) e i personaggi di sport più stimati dal Diez (tra cui i cubani Sotomayor, Teófilo Stevenson e Alberto Juantorena).

Il quadro si completa con l’ampio spazio dedicato ai dualismi: non possono ovviamente mancare Pelé (il «prigioniero del tempo»: si resiste senza nominarlo fino a p. 56) e Messi, primo tra i contemporanei all’interno di una classifica in cui, al quarto posto, Maradona collocava addirittura Balotelli (era il 2013). Se meno prevedibili sono le contrapposizioni con Beckenbauer e Falcão, tirati in ballo da Minà per i figli avuti fuori dal matrimonio, attorno alla figura di Platini si sintetizza il divario tra Nord e Sud del mondo, servilismo e rivolta, potere temporale e anarchia.

L’ingresso nella crisi è sancito da Italia ’90, a cui l’albiceleste partecipa per difendere il titolo: lì, dove Maradona divide il pubblico e la stampa tutta come emulo di Sivori, «suo predecessore in magie», si consuma la vendetta di «imbecilli» i quali – chiosa il cronista nel suo Caro Michele – hanno «goduto per il tuo pianto finale di rabbia». È il mondiale di Omam-Biyik (che sarà il vero ispiratore di Santa Maradona di Marco Ponti e su cui si ha il solo refuso del libro: a p. 111 la svista «Oman»), di un’Argentina che porta al suo sèguito i giovani Sensini e Balbo e, soprattutto, del rigore «inesistente» di Brehme, miracolo ad hoc per il CT Beckenbauer.

Il Secondo tempo non si distacca troppo nettamente dal primo, di cui ripropone periodizzazione e temi portanti. Con l’idea che il calcio abbia salvato Maradona non meno di quanto sia vero il contrario, il resoconto si riallaccia alla stagione 1990-’91, caratterizzata da un controllo antidoping “mirato” per Napoli-Bari – in cui il numero 10 non fu sorteggiato ma scelto d’ufficio – e dalla fuga del campione in patria, figlia di «quella parola non mantenuta da Ferlaino», che non cedette il giocatore quando ne avrebbe avuto modo (il più insistente fu, al tempo, il Marsiglia di Tapie).

Quanto all’arresto avvenuto in Argentina dopo una notte di stravizi, è significativo che a tale proposito compaia la sola nota a piè pagina del volume (p. 129): è una postilla dell’autore sulla cocaina mai trovata, nonostante gli operatori di un’emittente cercassero di dimostrare come la sostanza fosse stata fatta sparire da un balcone. Da privilegiato osservatore degli eventi salienti della vita di Diego, Minà è sempre presente con una troupe (fosse anche di un singolo cameraman): dunque non stupisce che lo si ritrovi anche a Siviglia, dopo l’anno e mezzo di squalifica, per il ritorno all’attività agonistica. E mentre l’annata andalusa regala a Maradona l’ultimo sprazzo di gloria europea – da antologia il tandem composto assieme a Davor Šuker –, Ferlaino trova il tempo di reclamare soldi dal suo ex-capitano, dal quale pretende un risarcimento per stipendi già percepiti e per la lesa immagine del club. Ciò fa infuriare Minà, che si spinge a chiedere – prima volta in carriera – uno spazio a «Il Mattino» per la pubblicazione di una lettera aperta, dal titolo Io difendo Diego: altro bersaglio è Carlo D’Amato, già sindaco partenopeo, che definì Maradona «una vergogna della città».

Altrettanto rabbioso è l’epilogo Come bruciare un fuoriclasse: la subdola morale di USA ’94. Ma più dell’uscita dal campo in mondovisione, dell’eliminazione per mano della Romania e della spiritata esultanza di Diego, che aveva assunto un prodotto a base di efedrina per curare i bronchi, colpisce la più recente vicenda (risalente ai primi anni Duemila) del mancato pass per Disneyworld – sogno del nipote – che l’America negò a Maradona dopo che quest’ultimo aveva contribuito, con la risposta alla convocazione (e con lo smaltimento di venti chili a furia di corse nelle Pampas), a far piazzare un ultimo lotto di biglietti altrimenti invenduti. Nel ’94, ancora una volta, Minà è sul posto: nell’intervista di Boston incontra un giocatore «con il pianto in gola».

Quello che ne consegue è un declino inarrestabile. Non è luminosa la parentesi come allenatore del Deportivo Mandiyù del presidente Di Stéfano, né il ritorno al Boca – ancora con Carlos Bilardo – è degno dei fasti degli esordi: bastino a confermarlo i cinque rigori sbagliati in fila e l’ennesima positività ai controlli. Poco riabilitante è anche il tentativo, intrapreso assieme all’altro ribelle Cantona, di creare un sindacato a tutela dei giocatori: nonostante alcune illustri adesioni (Weah, l’ex-Napoli Blanc, Preud’homme), la proposta ottenne un riscontro insoddisfacente. Il commento con cui Maradona accompagna il proprio ritiro – per una partita d’addio che fornisce agli spettatori il pretesto per veder giocare insieme Matthäus, Stoičkov e Recoba – va nella duplice direzione dello sfogo rancoroso e della richiesta di perdono, ma ha al contempo il suono di un sinistro epitaffio: «Ho sbagliato e ho pagato, però il pallone non si macchia, o non si è macchiato».

Con la sentenza della cassazione del marzo 2021, che assolve l’argentino dal debito contratto verso il fisco italiano come i compagni Careca e Alemão, Minà pone fine al proprio memoriale; la lettura non può, però, dirsi conclusa fino all’ultima pagina, con cui minimum fax – attraverso il consueto “sigillo” – stimola gli appassionati: la frase «tu no tunnel a niño de oro, capito?» è un rimando all’episodio del dribbling che Ferioli, portiere del Grosseto, compì proprio ai danni di Diego.

Meno necessario, nell’economia del volume, il terzo tempo di aforismi da cui la battuta rivolta a Ferioli è tratta: comprende massime di Baruch Spinoza, motti estrapolati da striscioni e qualche altro passo discutibile, come la dichiarazione machista rilasciata da Maradona a «Playboy» (alla domanda «È contro gli omosessuali?» il giocatore replica «No. Anzi, è bene che esistano e si moltiplichino, perché aumenta la richiesta di veri maschi»). Del resto, le asserzioni più ad effetto trovano posto già nei due capitoli maggiori: Galeano ricopre qui un ruolo essenziale, sia come epigrammista («giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto») che come esegeta («continuava a commettere ormai da anni il peccato di essere il migliore, il delitto di denunciare a viva voce le cose che il potere ordinava di tacere, e il crimine di giocare alla mancina che, secondo il Piccolo Larousse Illustrato, significa “con la sinistra” e significa pure “al contrario di come si deve fare”»).

Ciò non compromette l’indubbio pregio del lavoro, grazie al quale si ottiene un accesso d’eccezione allo spioncino del complesso privato maradoniano. Fanno sorridere l’approvazione per Kusturica («un matto come me») e il Maradona politologo (amico di Castro, Correa, Chávez e Morales; non comunista ma per la gente di Cuba; aspro tanto col narcotraffico quanto contro «chiunque porti una divisa») o autoironico («mi hanno lanciato più missili che a Saddam Hussein»); sono struggenti, rispetto ai legami familiari, gli aneddoti sulla passione delle figlie per il Di Caprio di Titanic o sulla gelosia delle stesse per Salma Hayek, prossima a un compromettente ballo con papà. Prevale spesso la versione guasconeggiante del personaggio, capace di scherzare sui cinquanta secondi da “clinicamente morto” («il Barba aveva paura che Gli combinassi un casino lassù») quanto di pronunciare la frase che dà il titolo al libro («Non sarò mai un uomo comune!») seguita da un «Vedi, mi è uscita la superbia da dentro».

Impressionante è la lucidità con cui Maradona ripercorre l’eliminazione per 4-0 ad opera della Germania, dalla marcatura assegnata a Otamendi fino agli studi condotti sui movimenti di Özil (ma non si ricorda mai, qui né altrove, che proprio il futuro napoletano Higuaín fu il vero beneficiario della sua gestione); il genero Agüero, signorilmente lasciato sullo sfondo, è oscurato dall’amore per il nipotino Benjamin. Si deve infine al buon cuore di Minà il ridimensionamento di uscite fin troppo scanzonate (comprese le critiche agli addetti ai lavori, che pescano a caso tra Mourinho, Pelé, gli argentini del Triplete esclusi dalla nazionale del 2010 e Galliani «portaborse di Sacchi») e varie “sparate” (anche in senso materiale, come nel caso dell’aggressione ai giornalisti con un fucile ad aria compressa «in un insensato attacco d’ira»): si tratta, come detto, di un’orazione difensiva, in cui non si rinuncia a parlare espressamente di congiura (ed è equivoca la posizione di Julio Grondona, presidente AFA e uomo della FIFA, che mai prese le parti del connazionale).

La tragedia con cui Minà deve fare i conti oltrepassa, per necessità, il taglio scandalistico legato ad analoghe vicende di sportivi (Anquetil, Best, Tyson), come pure il sentimento di coesione patriottica che accompagna, di norma, altri casi simili in quanto avvertiti come al limite del “giallo” (es. Pantani; si vedano anche, per ragioni diverse, la squalifica di Schwazer e la morte di Astori, assai rilevante in termini di responsabilità penale): è un lutto di carattere collettivo. In qualità di messaggero designato, Gianni Minà dà voce a quanti – nell’aldiquà – in Diego Armando Maradona hanno trovato il sacro, condannando come atto iconoclasta qualunque moralismo incentrato sul vizio o sulla condotta extra-calcistica. Fa propria la volontà dell’interessato, che da Dubai (nel 2013), si augurava una letteratura che ne ritraesse i pregi principali, dipingendolo come «trasparente, diretto e non comprabile». E concludeva, per la gioia dell’intervistatore, con un avvertimento decisamente perentorio: «Dicono che tutto ha un prezzo. Ebbene, io vi segnalo che qui c’è una persona che non ne ha».


Gianni Minà, Maradona: «Non sarò mai un uomo comune», minimum fax, 194 pp., 16€.