Si conclude la rassegna di recensioni del progetto di collaborazione fra la rivista “La Balena Bianca” e il Master in Editoria promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e dall’Università degli Studi di Milano nel contesto della sesta edizione del Premio POP – Opera Prima, coordinato da Andrea Tarabbia. A coronare mesi di discussione e lavoro in classe intorno ai libri in lizza per il premio, le studentesse e gli studenti del Master si sono cimentati nel recensire a gruppi i titoli giunti nella cinquina finale.
Questa recensione è a cura delle studentesse e degli studenti Marco Caccianiga, Federico Colombo, Manuela D’Alessandro, Davide Ioppi, Cecilia Scomazzon, Alessandra Zanazzi.
Doogtooth, uno dei film più famosi del regista Yorgos Lanthimos, è interamente costruito intorno a un inganno: un padre chiude i figli all’interno di un recinto invalicabile e impedisce loro di abitare spazi diversi da quelli domestici. Inventa per loro un nuovo linguaggio, un lessico famigliare che distorce il reale e plasma l’idea di un mondo pericoloso, un mondo in fiamme dal quale proteggersi e fuggire. Proprio come in Ada brucia. Storia di un amore minuscolo, dove il prato brucia i piedi e conduce al pericolo, dove la verità è taciuta e l’infanzia danneggiata. Il romanzo d’esordio di Anja Trevisan, giovanissima scrittrice veneta, si rifà dichiaratamente all’immaginario del regista greco e narra di un “amore minuscolo” e immorale, di una storia inquieta, tanto indicibile quanto urgente da raccontare. Pubblicato a luglio 2020 Ada brucia dialoga perfettamente con gli altri titoli della collana «Rondini», che gli editori hanno dedicato a una narrativa “leggera e inquieta”, capace di narrare ciò di cui neanche si riesce a parlare. E la storia di Trevisan e della sua Ada conquista proprio per questo motivo, perché si spinge fino ai limiti del censurabile, ma senza spaventarsene, senza cedere alla tentazione dello sguardo morboso. Ada Brucia è, proprio come una rondine — proprio come le «Rondini» — leggera e inquieta. Ha in sé la leggerezza della giovinezza, la freschezza degli sguardi non ancora abituati al giudizio, ma al tempo stesso infesta le menti, obbliga al pensiero attivo, alla riflessione che fa paura, agli abissi. Il romanzo giunge nelle mani dei lettori in un formato ruvido e quadrato – ormai tratto distintivo e cifra stilistica dell’editore fiorentino. La copertina, realizzata da Chiara de Marco, anticipa ed esemplifica con grande potere evocativo uno dei temi del romanzo: quello dell’infanzia sotto assedio.
Ada brucia costringe a fare i conti con uno dei più grandi tabù della nostra società: nulla per noi è più innaturale dell’attrazione di un adulto per un bambino. E anche Rino, ragazzo di 25 anni, sa che tutto ciò è sbagliato. Ma qualsiasi freno inibitore autoimposto fino a quel momento svanisce di fronte allo sguardo di Ada, una bambina di nove mesi di cui Rino si innamora e che decide di rapire e crescere da solo. Il rapimento, ai suoi occhi, più che un sequestro è il coronamento di un amore giusto, vero e necessario, che però ha bisogno di essere protetto dal mondo esterno. Le racconta così piccole ma indispensabili bugie affinché non possa mai fuggire: le persone che si avvicinano alle case altrui sono cattive; il prato brucia e servono le scarpe per attraversarlo, ma siccome quelle per bambini non sono state inventate, deve aspettare di crescere. È questa la realtà che Rino cuce intorno ad Ada e in cui lei crescerà per tredici anni, nutrendo un amore viscerale per il ragazzo, da cui dipenderà totalmente. Il mondo esterno, però, fa irruzione nella loro vita quando spunta Max, un ragazzo poco più grande di Ada, che scopre la casa e la ragazzina in uno dei suoi giri in bicicletta: sarà lui a intuire che Ada è la bambina rapita anni prima, a restituirla alla madre e al resto della famiglia, in un ricongiungimento però tutt’altro che idillico e riabilitante.
Trevisan riesce a costruire un mondo credibile in cui il lettore si perde e si immedesima. La casa dove Ada e Rino vivono è indubbiamente il centro di gran parte del romanzo: un’abitazione dispersa in un bosco poco frequentato e quasi incantato che rievoca il mondo delle fiabe, almeno agli occhi di Ada bambina. Al lettore sembra quasi di conoscere gli interni, di poter scendere le scale insieme ad Ada quando si nasconde, di guardare la televisione con lei e Rino la sera, di entrare nel bagno che i due condividono. Anche i personaggi sono costruiti in modo altrettanto credibile: tante sono le volte in cui si vorrebbe prendere Ada e portarla via, altrettante quelle in cui si comprende con lucidità cosa muove Rino da dentro. L’indagine psicologica, rotonda e complessa, è sicuramente un punto di forza notevole di questo romanzo d’esordio: il groviglio dei sentimenti annidato nei personaggi emerge con forza e precisione. Trevisan, pur limitandosi a una rappresentazione completamente priva di giudizio, riesce con delicatezza ed estrema maturità a rendere due interiorità così complesse come quella di un pedofilo e la sua vittima. Lo stesso termine “pedofilia”, infatti, ricorre una sola volta in tutto il volume; è indicativo che Rino non pronunci mai questa parola, ma compaia solo in relazione a uno dei notiziari che riportano la scomparsa di Beatrice — il vero nome di Ada.
La prosa di questa esordiente, già solida, riesce anche nel difficile compito di astenersi dalla tentazione di cedere alla morbosità dei dettagli. Trevisan non risparmia niente al lettore, ma non giudica né psicologizza: pur svincolandosi dall’usuale immaginario della violenza, riesce comunque a narrarla al lettore come tale. Se nella prima metà del romanzo il racconto della stortura di questo “amore minuscolo” è quasi ovattato (perché visto soprattutto dalla prospettiva di Rino), verso la fine emergono con chiarezza la rabbia e l’inattitudine al mondo di Ada. Trevisan è così brava a oscurarsi come narratrice che riesce – con una naturalezza forse al limite del candore – a far sì che Rino esca dal carcere riabilitato nell’animo e nei comportamenti, finalmente in grado di lasciar andare Ada, lasciarla libera di vivere una vita che forse non le apparterrà mai. Questa posizione dell’autrice è un modo semplice di concludere una storia decisamente compromettente o un’incapacità di Trevisan di gestire anche questo lato della sua storia, dovuta alla sua acerba esperienza? Dal nostro punto di vista, la scelta dell’autrice va ancora una volta a sostegno della sua capacità di esternarsi dal giudizio nel quale, dato l’argomento su cui è imperniata la trama, potrebbe incorrere facilmente. Riuscire a rendere la labilità dei confini di ciò che è giusto o sbagliato – che pure ogni lettore ha ben chiari in mente – è la vera forza della scrittura di Anja Trevisan.
L’impianto del testo, che si distingue nella prima parte per una complessità della trama ben orchestrata dall’autrice, vacilla nella seconda metà, dove emergono alcune incertezze proprie di una scrittura esordiente qual è quella di Trevisan. Sul finale si avverte infatti un leggero cedimento dell’impalcatura narrativa, una sorta di fuga tra le parole per raggiungere il momento catartico e conclusivo dell’incontro tra Rino e Ada. Questa accelerazione, dopo la lentezza delle descrizioni iniziali capaci di restituire visivamente la monotonia della “clausura” di Ada, pone a margine un aspetto invece rilevante nella costruzione del personaggio di Ada, ossia il percorso riabilitativo affrontato a seguito del suo allontanamento da Rino. Elemento, questo, che risulta necessario sia per ribadire al lettore la verosimiglianza della vicenda – fino a quel momento garantita dalla sensibilità e accuratezza della scrittura di Trevisan –, sia per evidenziare l’impossibilità di Ada di pensarsi, e quindi di vivere, separata da Rino, nonostante un percorso di riabilitazione alle spalle. Oltre a ciò, alcuni fotogrammi della storia di Ada restano in sospeso sulla pagina, come nodi irrisolti nel tessuto della trama: le ragioni per cui Rino conserva i vecchi giornali, l’arrendevolezza con cui Ada cede alle parole di Max dopo solo una manciata di incontri e la figura di Cecilia, afona e appiattita sullo sfondo, nonostante il suo ruolo di madre dilaniata dal dolore della perdita.
Lievi incongruenze che, pur mettendo in luce una scrittura a tratti ancora acerba dell’autrice, non incrinano la complessità psicologica del romanzo, che emerge pagina dopo pagina nell’evolversi dei personaggi. La scelta di trattare nel proprio esordio letterario una tematica complessa come la pedofilia, che nella storia della letteratura ha prodotto classici senza tempo (primo tra tutti Lolita), non sminuisce la scrittura di Trevisan, che al contrario si confronta coraggiosamente con un filone narrativo insidioso senza scivolare nel voyerismo malcelato, ritagliandosi uno spazio ben definito nella rosa degli esordienti. Una voce limpida e distinguibile, che racconta questo amore minuscolo e capovolto da una prospettiva altra, inattesa e insieme matura, nonostante la giovane età della scrittrice. Un esordio letterario che permette di inserire Trevisan tra le firme più promettenti della giovane narrativa italiana contemporanea.
A. Trevisan, Ada brucia. Storia di un amore minuscolo, Firenze, effequ, 2020, 304 pp., € 15.