Fuori dagli schemi, il mestiere di scrivere raccontato da chi lo fa è una serie di interviste a scrittrici e scrittori pensata per esplorare alcuni aspetti del lavoro sul testo letterario che normalmente vengono lasciati da parte, taciuti o tenuti gelosamente nascosti. Fuori da schemi interpretativi per addetti ai lavori, le interviste si concentrano su schemi concreti, che di volta in volta possono essere scalette, appunti, brogliacci, alberi genealogici, schede dei personaggi, disegni, tabelloni da detective e crazy wall…
Oltre a porre alcune domande dirette su questo o quel problema tecnico, abbiamo chiesto agli intervistati di metterci a disposizione parte dei propri scartafacci e di discuterli insieme a noi. Ma l’obiettivo più importante di questi dialoghi è invitare gli appassionati di letteratura a esplorare il backstage del testo insieme a chi lo ha concepito e realizzato, sia per conoscere aspetti nascosti di testi letti e apprezzati, sia per scoprire opere, autrici e autori che ancora non si è avuta l’occasione di incontrare.
Le precedenti interviste sono state fatte a Giorgio FontanaClaudia DurastantiFilippo TuenaMelania G. MazzuccoAlessandro Piperno, Domenico StarnoneGiorgio FalcoHelena JaneczekNicola LagioiaValeria ParrellaMassimo Carlotto e Francesco Pecoraro.
[questa rubrica è nata da un’idea di Claudio Lagomarsini]


Vanni Santoni

Vanni Santoni ha esordito con la raccolta di micro-narrazioni Personaggi precari (RGG 2007, poi Voland), seguita l’anno successivo dal romanzo Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), che per anni ha avuto una curiosa circolazione in edizioni pirata, prima della recente ristampa (Laterza 2019). Nel suo cantiere narrativo, Santoni porta avanti, accanto a una direttrice più classica (culminata con l’epopea familiare I fratelli Michelangelo, 2019), forme ibridate di non-fiction (come L’ascensione di Roberto Baggio, 2011; Muro di casse, 2015; La stanza profonda, 2017) insieme a una linea fantastica (Terra ignota 2013; Terra ignota 2, 2014).

Con Gregorio Magini ha fondato il progetto Scrittura Industriale Collettiva, che ha prodotto il romanzo storico In territorio nemico (minimum fax 2013), frutto della collaborazione di 115 autori. Per minimaetmoralia.it ha curato “Discorsi sul metodo” (2013-2019), una serie di interviste sul metodo di scrittura che precorre la nostra rubrica. Collabora inoltre con il «Corriere della Sera», il «Corriere fiorentino», «Linus». Da molti anni tiene un corso di scrittura presso la Scuola del Libro: da questa esperienza nasce un manuale da cui iniziamo a discutere con lui per farci introdurre nel suo variegato laboratorio.  

Partirei dall’(anti-)manuale La scrittura non si insegna, che è anche il tuo libro più recente. Presentando le difficoltà generali, discuti come «infinite cose si possano scrivere in infiniti modi», che è poi una perfetta definizione del romanzo moderno. Dal 2008 al 2019 hai pubblicato otto romanzi (senza contare i progetti di scrittura collettiva, la poesia, le microfictions di Personaggi precari,ecc.): tieni una media di un romanzo ogni anno e mezzo. Significa tra l’altro che hai trovato un buon sistema per selezionare, nell’infinità del narrabile, ciò che vuoi e puoi narrare. Potresti descriverci come funziona questo processo? 

Fin da quando ho cominciato a scrivere avevo in mente qualcosa di simile a un “orizzonte di lungo termine”, solo che era ancora tutto da disegnare, e quindi ci credevo solo io. Ricordo ad esempio che una decina di anni fa, quando avevo pubblicato solo Personaggi precari,  Gli interessi in comune, Se fossi fuoco arderei Firenze e L’ascensione di Roberto Baggio –quindi, una raccolta di prose brevissime, un romanzo di tipo classico, un romanzo che, andando a collocarsi in una collana, la “Contromano” di Laterza, per lo più costituita da libri di non-fiction narrativa, dall’esterno era percepito come uno di essi, e un romanzo a quattro mani a tema sportivo – il tutto per di più sparpagliato tra una casa editrice minuscola (RGB), due grandi ma diversissime come Feltrinelli e Laterza, e una piccola come Mattioli 1885, una celebre editor italiana mi disse che il mio percorso era “disordinato”. In realtà il disordine editoriale era solo frutto del fatto che, non avendo santi in paradiso, prima di assestarmi avevo pubblicato come potevo, quando potevo e meglio che potevo. Adesso, avendone da diversi anni la possibilità, ho impostato un quadro editoriale molto regolare, coi miei romanzi di pura fiction, come I fratelli Michelangelo o L’impero del sogno, che sono usciti tutti per Mondadori, quelli ibridi, come Muro di casse o La stanza profonda, per Laterza, e i progetti laterali, come quel La scrittura non si insegna che citate, o il romanzo collettivo In territorio nemico, per minimum fax. Anche i miei prossimi due libri, previsti per il 2022 e il 2023, che sono un romanzo “puro” e un ibrido, usciranno rispettivamente per Mondadori e Laterza. Arrivare a questa condizione di piena stabilità editoriale non è scontato: è il frutto di tanto lavoro e di una crescita anche in termini di numero di lettori e considerazione critica. L’apparente disordine tematico e formale, invece, era frutto dell’intensità del mio impegno nel cercare di esordire. Vi racconto una storia. Un anno dopo aver cominciato a scrivere, nel 2005, vinsi, con un romanzetto intitolato Vassilj e la morte, che oggi (ma solo oggi) sono ben contento sia rimasto inedito, un concorso per esordienti che metteva in palio un contratto per addirittura tre romanzi, indetto da una casa editrice fiorentina dalla storia gloriosa, che era stata da poco rifondata. Il concorso si rivelò tuttavia una fregatura – la casa editrice dichiarò bancarotta poco dopo la rifondazione – e comunicarono a noi vincitori (oltre a me vi figurava Chiara Valerio, segno che se non altro due futuri scrittori li avevano individuati) che i libri non sarebbero stati mai pubblicati. Nella mia ingenuità di debuttante, avevo però già detto a fidanzata, genitori, nonni, amici e conoscenti che mi avrebbero pubblicato un libro, così quando la faccenda naufragò mi trovai nella spinosa condizione di dover trovare da pubblicare alla svelta un altro libro (scrivo un altro perché il mio goffo tentativo di inviare Vassilj e la morte a un mondo editoriale di cui ignoravo ancora le dinamiche si tradusse in un’ovvia batteria di silenzi), o sarei diventato lo scemo del villaggio. Così moltiplicai i progetti: intensificai il lavoro sul blog, ovvero su quei testi brevi che sarebbero diventati Personaggi precari;aprii un secondo blog di micronarrazioni (“Le miniserie”); avviai progetti a più mani con i colleghi della rivista letteraria dove avevo mosso i primi passi – assieme a Gregorio Magini fondai il progetto SIC, che avrebbe dato origine, anni dopo, al romanzo collettivo In territorio nemico, mentre con Matteo Salimbeni scrissi appunto L’ascensione di Roberto Baggio –; mi misi a scrivere due romanzi contemporaneamente, uno dei quali era Gli interessi in comune, mentre l’altro rimase incompiuto (qualche capitolo uscì a puntate su una rivista che oggi non esiste più), ma in retrospettiva mi servì a mettere a fuoco alcune ambientazioni e alcune figure che sarebbero finite, quindici anni più tardi, nei Fratelli Michelangelo. Questa moltiplicazione matta e disperatissima dei progetti fu solo apparentemente caotica: tanto lavoro cominciò dopo qualche tempo a farmi vedere possibili direzioni sia tematiche che formali in cui sarei potuto andare. E ce ne erano tante, visto che doveva nascere anche il progetto fantasy di Terra ignota, e tutti questi libri sarebbero stati collegati. Sulla questione della mia “continuity” interna rimando a queste due interviste (una e due) e a questo pezzo, onde non dilungarmi troppo, ma riporto uno schema (fatto a suo tempo dagli autori della prima intervista a partire da un mio appunto), ancora non aggiornato ai prossimi due romanzi, che pure ne faranno parte.

Le cose continuarono navigando relativamente a vista, e organizzando al contempo ciò che avevo fatto e ciò che dovevo fare, fin verso il 2015; da lì, possiamo dire da Muro di casse in poi, il piano generale del mio lavoro ha finito di chiarificarsi nella mia testa e ha cominciato anche ad armonizzarsi sugli scaffali delle librerie. Ho un filone principale di romanzi realistici, che a sua volta si divide in quelli “puri”, come I fratelli Michelangelo o quello che uscirà a inizio 2022 per Mondadori, e in quelli“ibridi” (sebbene personalmente rivendichi, al di là della forte connotazione tematica, la natura di romanzo di Muro di casse e La stanza profonda, così come del prossimo che gli seguirà in casa Laterza). A questa linea principale si affianca quella fantastica, che oltre ai due Terra ignota include L’impero del sogno, e sulla quale tra qualche anno, con molta calma, penso di tornare con una storia nuova. Ci sono poi epigrammi e poesia, a cui vorrei poter dedicare più tempo, ma intanto possiamo anticipare che dopo le varie edizioni di Personaggi precari è in lavorazione (ovvero: sto traducendo in italiano, dato che il progetto è in origine in inglese) una pubblicazione in volume delle 999 rooms finora esistenti.

L’organizzazione specifica del lavoro sui vari libri è abbastanza intuitiva, e ormai si articola sull’avere sempre due-tre progetti narrativi in lavorazione: in genere uno è un semplice embrione, un paio righe e un’idea, ma sta lì a fermentare; un altro è un po’ – ma solo un po’ – più sviluppato, e il terzo è il libro che sto scrivendo. Questo setup mi permette di programmare con approssimazione decorosa il mio lavoro, anche se poi i tempi effettivi di ogni romanzo possono variare anche molto in base alla sua natura (o a contingenze imprevedibili): per fare un esempio, L’impero del sogno è stato scritto in tre mesi, mentre I fratelli Michelangelo ha preso sette anni.

Come hai anticipato sei al lavoro su nuovi romanzi. Del prossimo in uscita hai mostrato tempo fa uno schema su Instagram. Ti andrebbe di parlare del progetto in corso? Nella preparazione di questa intervista mi spiegavi che per te lo schema non è un elemento di pre-produzione (che preesiste, cioè, alla stesura), ma uno strumento intermedio, che si rende necessario quando ha già preso corpo una parte consistente del testo.

Sì, in realtà ho quasi finito, il titolo di lavorazione è La verità su tutto e uscirà appunto per Mondadori a inizio 2022.Dicendola nel modo più semplice possibile, racconta la storia di una materialista che diventa una mistica, finché la situazione non sfugge di mano. Sarà articolato in 5+1 movimenti narrativi piuttosto diversi tra loro, sia a livello formale che di contenuti, altro ancora non direi perché anche se il testo inizia a esserci so per esperienza che durante l’ultima revisione possono arrivare anche cambiamenti importanti. Lo schema [qui accanto NdR] è ormai una pergamena…

Anche se a prima vista sembra una scaletta, dato che ci sono tante scene una dopo l’altra, segnate da dei colori a seconda del loro stadio di completamento, e con qualche annotazione qua e là, in realtà, come anticipi già tu, è qualcosa che appare abbastanza tardi rispetto alla scrittura del testo. In genere comincio inseguendo delle immagini o dei personaggi in modo del tutto astratto, senza sapere dove andrò, e nel caso dei romanzi “non a tema” senza neanche sapere di cosa parlerò. Quando cominciano a esserci un po’ di pagine, in genere diverse decine, comincio un lavoro di schematizzazione parallelo che serve innanzitutto a vedere “cosa ho in mano”, sia a livello di parti scritte, sia a livello di temi, personaggi, potenzialità, eccetera. Dopo un altro po’, in genere verso metà della prima stesura, comincio anche a creare queste caratteristiche “pergamene” (per La verità su tutto ne ho fatte via via sette, quella in foto è l’ultima), che servono a mettere in un ordine ipotetico il materiale presente (ordine che non sempre corrisponde a quello finale, tanto più che molte delle prime pagine che scrivo poi finiscono tagliate, dato che servono solo a trovare una direzione), diviso per “scene”, ovvero unità narrative minime, e da lì cominciare a ipotizzare anche ciò che manca. Questa fase in genere si traduce con lo sviluppo di nuove parti del romanzo, col collegamento di quelle esistenti, e anche con modifiche spesso significative, come quelle che possono derivare dall’introduzione di nuovi personaggi, nuovi eventi più o meno importanti, o ancora dalla presa di coscienza della presenza di certi temi da rinforzare (o di “rami infruttuosi” – aperture narrative potenziali – da tagliare: in generale quando lavoro alla prima stesura cerco di avere più aperture possibili, anche se poi ne utilizzerò solo alcune e taglierò le altre). Quando sono più o meno sulla “tre quarti” entrano in campo nuovi schemi, più legati ai motivi interni del libro, agli elementi tematici o metaletterari, alla ritmica, che faccio più per scrupolo che altro, dato che in genere finisco per non usarli e tornare alla sola scrittura. Il lavoro di schematizzazione è dunque qualcosa che, immaginando di dividere l’arco di prima lavorazione di un libro in quattro parti, è presente nelle due centrali, trovando un picco di uso e valore quando mi trovo a metà dei lavori. Dopo la prima stesura ci sono ovviamente le riscritture, ma in quel caso non utilizzo schemi se non quando c’è da sbrogliare qualche questione strutturale intricata, ricordo ad esempio che ne utilizzai molti per lavorare alla “parte di Cristiana” nei Fratelli Michelangelo, che si articolava come una scatola cinese su quattro piani temporali concentrici.

Qua si può vedere un ingrandimento dello schema di cui sopra:

Vi si può notare la divisione in scene, numerate in ordine cronologico (che non sarà necessariamente quello in cui appariranno nel romanzo finito); quelle cerchiate in blu sono quelle fatte, in arancio quelle da fare e in giallo quelle solo abbozzate, ed alcune hanno osservazioni operative minime, del tipo “ampliare” o simili; sul lato, nei “balloon” alcuni appunti su idee o concetti emersi scrivendo ma non ancora sviluppati; una linea frecciata che indica un’idea di spostamento più in alto di un passaggio (effettivamente accolta) e, nella linea tratteggiata tra la scena 27 e la 28, il punto in cui ho deciso lo stacco tra il primo e il secondo “movimento”. Si capisce bene come si tratti più di uno strumento di supporto all’organizzazione, alla lavorazione e al posizionamento dei testi che ho via via prodotto, che di qualcosa atto a governare la scrittura.

Sempre ne La scrittura non si insegna dici che «se scrivi un romanzo e procedi in modo lineare, prima o poi incontrerai uno dei tanti, e normali, nodi che ne costellano la stesura», dopodiché suggerisci di avanzare portando avanti più linee narrative. In alcune delle interviste di questa rubrica abbiamo imparato che alcuni scrittori cercano esattamente (in modo più o meno inconscio) i «nodi» di cui parli. Per esempio, Prima esecuzione di Starnone è un meta-racconto che si alimenta di ostacoli e di possibilità alternative che gli ostacoli stessi offrono all’autore (per certi aspetti è un romanzo “a bivi”). Valeria Parrella ci ha spiegato, invece, che per lei non esistono blocchi durante la scrittura: la stesura inizia solo quando si delineano in modo chiaro l’inizio e il finale (le due sezioni che infatti lei scrive per prime). Possiamo approfondire il tuo modo di procedere? 

Come accennavo sopra, in genere comincio inseguendo un’immagine o diverse decine di pagine inizio a capire quali potrebbero essere i “nodi”, e da lì cerco di sviluppare delle “aree di ingresso”, che mi permettono di entrare nel romanzo da più parti. Come scrivo nel pamphlet che citi, è una cosa utile anche per continuare a lavorare al romanzo quando una parte si arena – il che non accade sempre a causa di problemi, a volte è solo che quella parte di testo vuole decantare per qualche settimana, oppure che non ho ancora trovato le letture giuste per sbloccarla. Per me l’attività di scrittura, quando entra nel vivo, è sempre legata strettamente a quella di lettura: un libro prende davvero quota quando capisco cosa devo leggere per alimentarlo. Se arrivo a quel punto, da lì il romanzo si trasforma in una specie di prisma molto ricettivo, tant’è che sulla tre quarti ho l’impressione che qualunque cosa legga o esperisca dialoghi a modo suo col testo.

In genere inizio e finale sono le ultime cose che scrivo: c’è sempre quello che potremmo chiamare uno pseudo-inizio, che in genere finisco per tagliare o cambiare in base a ciò che emerge dopo, mentre il finale è qualcosa che immagino abbastanza presto, ma senza scriverlo: lo tengo lì in un angolo della mente e lo sviluppo solo successivamente, anche alla luce di quello che emerge scrivendo.

Accennavo prima all’esperienza di Scrittura Industriale Collettiva, il progetto di narrazione collaborativa a cui hai dato vita insieme a Gregorio Magini. Per guidare il collettivo di autrici e autori avete steso un manuale: per ogni personaggio era tra l’altro necessario stilare una scheda comprendente descrizione fisica, biografia, passioni, fissazioni, ecc.; ogni scena in scaletta è preparata da una “scheda situazione” che determina ambiente, personaggi coinvolti, svolgimento, ecc. Il manuale di SIC parte dall’ovvia necessità di dare una griglia operativa semi-rigida a un gruppo di oltre cento persone. Per i tuoi romanzi prepari schede? Se sì, di che tipo? Con Giacomo Raccis ci chiedevamo, ad esempio, come tu avessi lavorato per costruire l’ambiente socio-culturale, i gerghi, le fissazioni, ecc., dei personaggi de I fratelli Michelangelo.

Il metodo SIC aveva come prima esigenza quella dell’omogeneizzazione, dato che il difetto più frequente delle scritture collettive è la disomogeneità, frutto delle molte mani. Per questo il metodo – al di là del suo principio base, “tutti scrivono tutto”, per cui rimando al manuale del metodo – era volto anzitutto a creare una sorta di “sistema di fonti”, a cui  gli scrittori avrebbero fatto riferimento al momento della stesura. Più materiali preparati collettivamente c’erano, più la scrittura dei 115 autori coinvolti sarebbe stata convogliata in una certa direzione. Va da sé che questo metodo è tanto più efficace quanto il testo da scrivere è “plot-driven”, per dirla all’inglese: la scrittura collettiva, specie se a molte mani, esclude in modo abbastanza netto la possibilità della “style-driven fiction”, dato che è prioritario trovare un minimo comun denominatore stilistico che è ineludibilmente al ribasso. Va quindi benissimo per un romanzo storico-avventuroso come In territorio nemico, ma i suoi dispositivi risulterebbero inadeguati, e in alcuni casi assurdi, di fronte a un romanzo individuale di ricerca. Ne consegue che non faccio quasi mai schede di questo tipo per i miei romanzi, ma devo ammettere che Raccis ha l’occhio lungo: in un momento difficile della stesura dei Fratelli Michelangelo, in cui tutti i vari “ingressi” sembravano bloccati, pur di continuare a stare sul libro, feci delle schede per ognuno dei fratelli, e per lo stesso Antonio Michelangelo, giocando a immaginare loro caratteristiche che non sarebbero mai emerse nel libro, come il segno zodiacale, la squadra del cuore, le fobie o i gusti gastronomici: l’obiettivo era semplicemente quello di aggiungere suggestioni da cui magari ripartire nella scrittura di qualche passaggio. Altri strumenti che a volte uso in questo senso sono i tarocchi o l’I-Ching: spesso, nei momenti di stanca, faccio le carte, o la profezia cinese, ai personaggi o al libro, con spirito ovviamente laico (o se vogliamo junghiano) per vedere se esce qualche suggestione nuova, l’impulso che fa ripartire l’ingranaggio. Esistono, invece, delle “schede personaggio” minimali, quasi esclusivamente cronologiche, dove appunto anno di nascita, formazione ed età al momento dei vari eventi dei personaggi principali, principalmente per sincronizzare senza problemi le loro vicende e i loro flashback con il tempo della vicenda.

Hai tenuto traccia di qualche scheda? E ti ha effettivamente aiutato nello sblocco o no? Simenon faceva schede dettagliate sui suoi personaggi (le famose buste gialle), ma alla fine usava una parte minima della “carta d’identità”.

Conservo tutti gli schemi dei vari libri in apposite cartelline ma adesso mi trovo in Francia e ho con me solo quella del libro in lavorazione. Ricordo a memoria squadre e segni: Antonio Michelangelo è della Bilancia e tifa Juve; Enrico pure è Bilancia ma sta per la Viola; Louis è del Cancro ed è interista; Cristiana è dell’Ariete e anche lei è per la Fiorentina. Rudra è Acquario e non segue il calcio, così come Aurelia, che è Gemelli. Esattamente come per Simenon, queste “carte d’identità” tendono a non finire minimamente nel romanzo – nell’infanzia di Louis c’è un dialogo tra lui e il futuro socio Carletto in cui emerge la sua squadra del cuore, ma era una scelta preesistente alla compilazione delle schede. La loro funzione è – esattamente come per la divinazione – quella di fornire delle “strategie oblique” (vedi le note carte di Brian Eno e Peter Schmidt), cercare di pensare al libro o ai personaggi da un altro punto di vista, aumentare le faccette del prisma, e gli effetti, che pure immagino ci siano, sono per lo più invisibili. Può essere anche visto come un gioco il cui scopo è prendere una confidenza maggiore, e non solo su un piano razionale, con il mondo che si sta formando.

Tornando ad ambienti e gerghi (penso ad es. al mondo dell’arte contemporanea nei Fratelli Michelangelo), che tipo di ricerche fai?

Quando ambiento un romanzo, o una parte consistente di un romanzo, in un ambiente specifico, è sempre un ambiente che conosco a fondo o molto a fondo; è quasi sempre una scelta a posteriori, tendo ad ambientare i libri in luoghi e contesti che conosco. Valeva per i giochi di ruolo della Stanza profonda e per i rave di Muro di casse, e valeva in misura minore per l’arte contemporanea: lì non sono parte attiva ma tanto tempo fa sono stato coinquilino di due persone che ci lavoravano a un livello piuttosto alto, ho sempre frequentato mostre, fiere e gallerie, e sono amico di diversi artisti. Siccome in quel caso la mia conoscenza era sì buona ma non viscerale come per i giochi di ruolo o i rave, ho intensificato la mia esplorazione andando anche a fiere internazionali (procurandomi i pass necessari ad accedere ai vari privé e afterparty) e indagando nello specifico i contesti delle città dove Cristiana Michelangelo prova invano a sfondare. A questo si aggiungono le letture specifiche: mentre scrivevo Cristiana mi nutrivo solo di testi di arte contemporanea per impossessarmi di un certo linguaggio che sarebbe servito, ad esempio, per scrivere il suo “articolo maledetto”. Questa è una tattica che, a livello più lasso, uso sempre: ogni personaggio deve attirare un suo pool di libri, che ne alimentino l’atmosfera e in alcuni casi anche il parlato. Allo stesso modo, quando ho in lavorazione un libro con più voci che devono differenziarsi molto, come è il caso dei Fratelli Michelangelo, dove ci sono quattro prime persone diverse (più una terza persona) dopo la prima fase, in cui come detto cerco di avere “più accessi”, e butto giù un bozzarone di massima, cerco invece di distanziare il lavoro specifico su ogni personaggio, in modo che le loro voci non si sovrappongono. Anche per questo quel romanzo ha richiesto così tanto tempo di lavorazione.

Come per altre interviste, ti chiederemmo di concludere con un caso a tua scelta.

Dunque, per quanto riguarda invece il “caso di studio” a piacere che mi chiedete… Prima di tutto, leggendo le precedenti, e interessantissime, puntate, mi ha fatto sorridere scoprire che Giorgio Fontana ha usato lo stesso generatore online di alberi genealogici che ho usato io per I fratelli Michelangelo, così penso sia divertente mostrare anche il mio risultato. A parte il nome e il cognome della moglie di Giuseppe Michelangelo, l’assenza delle due figliolette di Aurelia e un Peppe diventato Pippo, corrisponde a quello che è finito nel romanzo.

A parte ciò, forse il dettaglio tecnico che vale la pena aggiungere a tutto questo è il mio file “appunti”.

che in realtà è soprattutto una raccolta di citazioni altrui. Da Muro di casse in poi ho cominciato a includere sempre più passaggi di altri libri, dei corsivi che uso come veri e propri moduli narrativi, e questo portato metaletterario è andato via via aumentando, tant’è che ad esempio nei Fratelli Michelangelo c’è un intero passaggio, quello della biblioteca di Enrico, che è una specie di legenda delle citazioni. In La verità su tutto questo aspetto, a causa dei temi del libro – metafisica, politica, psicanalisi –, è anche più forte, e tanto più grande è diventato quel file: lì, via via che scrivo, leggo, studio, riporto tutti i passaggi che mi paiono potenzialmente sinergici col romanzo; da quelli ne pesco, andando avanti con la scrittura, una piccola parte, diciamo un cinque per cento o anche meno, che effettivamente finiscono dentro al testo, con o senza modifiche da parte mia.