Un lettore che abbia seguito il percorso creativo di Fabrizio Bajec sarà abituato alle imprevedibili e continue svolte del suo punto di osservazione. Un percorso che, poeticamente, sin dai tempi di Entrare nel vuoto (con-fine 2011), e proseguendo con La cura (Fermenti 2015), La collaborazione (Marcos y Marcos 2018) – ma passando anche per il teatro, le auto-traduzioni dal francese e le versioni in italiano delle opere del poeta belga William Cliff –, ha cercato costantemente di porre la cinepresa in angolazioni differenti, talvolta profondamente interiori – portando all’estremo la parola per farla diventare simbolo –, talaltra piegandola alle piazze parigine in rivolta o tra i lavoratori, spingendola tra la brutalità e la rassegnazione di fronte alle nuove forme di asservimento.
Da qualche mese è uscito per la collana A27 dell’editore Amos Sogni e risvegli (2021), una silloge composta da 41 testi divisa in sei sezioni che guida il lettore in una sorta di viaggio tra il sonno e la veglia, tra la presenza e l’assenza, il passato e il presente.
Se con La collaborazione l’amara constatazione generale verteva sul rapporto tutto esterno di collaborazione, appunto, tra oppressi e oppressori, in questa nuova raccolta questo aspetto viene esorcizzato per mezzo di un ripiegamento interno, intimo, inconscio e privato. Qui collaborare con sé stessi significa salvarsi da un mondo in cui non ci si riconosce.
Questa via di fuga è chiara sin dalla prima sezione, ‘Spettri’. Infatti nella prima poesia, Frontiera (p. 17), Bajec ci propone immediatamente un punto di probabile non ritorno, un confine, un limite, in cui ognuno di noi termina e viene de-terminato acquistando una nuova forma, scendendo a patti con la propria limitatezza:
al di sotto io approfitto
ancora per poco del territorio
da cui mi strappo a malincuore
sperando di dormire e non sapere più niente
di questo tutto che è anche mio
Versi che in questo senso sembrano aggiungere qualcosa, forse una rinuncia, a quelli di Un essere umano, la poesia che apriva la raccolta Entrare nel vuoto: «Sono solo un uomo, senza alcuno scopo | se non quello di vedere come accadono | le cose che facciamo, una per una».
Nei testi di Sogni e risvegli il concetto di confine, di frontiera, torna spesso attraverso l’elemento naturale: cocci di conchiglie, montagne, boschi, foglie, sassi, insetti, oceani e uccelli popolano le varie sezioni e ci restituiscono tutti un senso finale, di resa o di pacificazione:
vorrei tanto ripulirmi isolarmi in un bosco
seduto per terra aspettare
la grande pioggia sulle foglie
(solo quel suono) un cardellino inerme
capisce che è ora di scattare sotto un albero»
(Da una poesia di Magrelli, p. 26)
Allo stesso modo, ai fini di questa purificazione è necessario ripartire dal grado zero dell’infanzia, dal punto di vista – in prima persona – della figlia del poeta stesso come nella seconda sezione, ma anche dal proprio passato remoto, nella terza sezione, ‘Cronache di un’infanzia rurale’. In questo scarto di osservazione Bajec gioca metaforicamente con la dicotomia sogno-risveglio e viceversa.
È come se queste due dimensioni venissero sapientemente evocate dall’attenuazione o dall’incremento dell’utilizzo di immagini, analogie, rimandi; da testi più prosaici si passa ad altri più simbolici, con una sorta di stupore e forza immaginifica che colpisce la poeta-bambina – voce della seconda sezione – e il poeta-bambino voce della terza:
dinanzi allo spettacolo della volontà maestra
la freschezza dell’apprendimento
e il ritorno a zero sul contatore
supremo grado della parola
il bambino è poeta a due anni
(1, p. 29)
Tuttavia, come abbiamo detto, il libro si regge tutto sulla transitorietà, su un’«impermanenza» (Come gamberi nell’acqua bollente, p. 24), che tende ad abbandonarsi a quell’oltre (o a vincerlo?) della frontiera, del limite che sinora il mondo o l’individuo si sono posti come valico.
Questa tendenza si trova in continuità con il precedente libro di Bajec, La collaborazione, come voce corale di uomini e donne presenti nella sezione ‘Quaderno messicano’, oppressi in questo caso dalla turistificazione che ha stravolto luoghi e culture, cancellando ciò che era particolare di una civiltà e il cui unico elemento originale e resistente è quello naturale. Si arriva di conseguenza a ‘Poema della fame’, quinta sezione del libro, dove tornano affamati e ribelli i gilets jaunes delle barricate, delle guerriglie con la gendarmeria francese, partigiani di un popolo sotto attacco da parte delle istituzioni e delle politiche neoliberali.
Ma il libro si conclude con il capitolo ‘Un’altra via’ – esattamente il punto, o meglio la direzione in cui voleva portarci Bajec. Quello che non a caso è l’ultimo testo, Ritiro (pp. 77-78), recita nell’incipit: «ritorno alla prima casella». Il cerchio, infatti, si chiude ancora una volta con un cambio netto e radicale d’inquadratura rispetto alle ruspe comunali, agli esplosivi e alle armi delle forze dell’ordine; ovvero con una dichiarazione poetica nuova, di contemplazione zen, ma senza ammiccamenti occidentali, bensì d’immersione totale in quell’impermanenza lucreziana a cui, in qualche modo, il poeta – e non solo – dovrà ritornare per salvarsi.
Ritiro
ritorno alla prima casella
0
non ai tuoi capricci
o alle tue opinioni
Seppo si dondola da un ramo all’altro
come una scimmia indiavolata
nel cortile frustato dal vento
0 è la destinazione e l’inizio
ogni scelta possibile
la dimensione aperta
0 nella vita non è così
male
anche tu ti sei forse sentito
0
da adulto punti a quell’obiettivo
spoliazione integrale
nudo di rettile
una cipolla senza veli
il sapore sarà più forte
apri la bocca
O
Fabrizio Bajec, Sogni e risvegli, Amos Edizioni, 2021, pp. 96, €12.