Riavvolgete il nastro. Stipate in un baule (più o meno grande a seconda dei casi) tutte le bobine di memoria dell’ultimo anno e mezzo. Chiudete a chiave il suddetto baule in qualche stanza in subaffitto del vostro inconscio e fingete di averlo dimenticato.
Ora, immaginate: estate 2020. Un’altra estate in tutto simile alle altre, e il dubbio che possa essere diversa neppure vi sfiora. Siete al mare, in montagna, al lago, o in qualche remota parte del mondo che vi faccia dimenticare casa, almeno fino al prossimo Starbucks. Prima di partire, un amico vi ha regalato Atto di violenza, di tale Manuel De Pedrolo, nome di primo piano della letteratura catalana del XX secolo, quasi sconosciuto nel resto della Spagna. De Pedrolo, vi ragguaglia l’amico, ha praticato quasi tutti i generi letterari nella propria lingua madre, dalla narrativa alla poesia, dal teatro alla saggistica al pamphlet politico. Strenuo oppositore del caudillo Francisco Franco, più anarco-sindacalista/soreliano che marxista duro e puro, la prima redazione di Atto di violenza del 1961 non passa ovviamente le maglie della censura. Sarà solo il primo di una lunga serie di tentativi, e di fatto il romanzo vedrà la luce soltanto nel 1975, alla morte del dittatore. Da noi invece l’ha pubblicato Paginaotto l’anno scorso, traduzione dal catalano di Beatrice Parisi. L’amico vi assicura che ne è rimasto impressionato, che in Italia ancora non lo aveva tradotto nessuno, che dovete leggerlo assolutamente. Voi non ne avete voglia, quest’estate era perfetta per chiudere tutti i vostri conti in sospeso con Proust o John Grisham, ciascuno ha le proprie letture da spiaggia. Ma l’amico è uno di quegli invasati che ha studiato filosofia, che poi se non lo leggete ci rimane male e inizia a salmodiare sulla decadenza culturale del nostro (con particolare enfasi sull’aggettivo possessivo) Paese etc etc. Quindi vi tocca leggerlo.
Atto di violenza si fonda su un’idea semplice, quasi elementare, ma di enorme efficacia narrativa: cosa succederebbe se per tre lunghi giorni (e, ricordatevi, per ora avete dimenticato) come reazione passiva ma netta, indiscutibile, alle reiterate prevaricazioni e violenze di un potere autoritario e longevo come il franchismo che De Pedrolo ha vissuto e combattuto in prima persona, l’intera popolazione di una città si barricasse tra le mura domestiche e rifiutasse di uscirne a qualunque costo? La risposta è una soltanto: paralisi completa. Il potere si trova con le spalle al muro perché privato un nemico codificato, di un gruppo di antagonisti da colpire. La parola d’ordine, il motto “È molto semplice: restate a casa” si legge affisso nelle piazze, sui muri degli edifici e sui balconi, è di tutti e di nessuno nello specifico. Se lo “spazio pubblico” è ormai da troppo tempo avvelenato dai miasmi della dittatura, ecco che le case, considerate sì baluardo della vita “privata” ma parimenti soffocata, si trasformano in agglomerati di ribellione al potere, di resistenza passiva ma incrollabile, ricreando così quella dialettica che ogni regime tende a dissolvere polarizzandone i termini. La polizia prima e l’esercito poi vengono così inviati nelle strade non per arrestare pericolosi sovversivi, ma per costringere la popolazione civile ad uscire di casa, a recarsi sul luogo di lavoro.
La fisionomia della città insorta viene tratteggiata in maniera volutamente asciutta e schematica. De Pedrolo ottiene così il duplice effetto di rappresentare la “prigione urbana” in cui soffocano i personaggi del romanzo (le vie vengono spesso descritte come strette ed anguste, la mobilità è ridotta ai minimi termini, quasi nessuno degli abitanti possiede o si trova in condizione di guidare una macchina) e di puntare tutta la luce proprio sull’“elemento umano” della vicenda. Atto di violenza, infatti, è cesellato dal suo autore in tante nicchie miniate, come quelle dei codici medievali. Ciascun episodio vede interagire per un certo numero di pagine (mai più di una ventina) un gruppo di personaggi vividamente rappresentati faccia a faccia con la Storia e insieme con le proprie piccole o grandi storie personali. Nessuno spazio è concesso ad una qualunque divagazione o smottamento di rotta: la forza del romanzo sta esattamente nell’intima coesione delle parti, nella rapidità inesorabile delle istantanee che si avvicendano a rotta di collo (salvo rari momenti di distensione nella Terza giornata), del tratto descrittivo e dello stile asciutto. Alcune vicende sono legate tra loro e altre invece formano blocchi narrativi autonomi, tutte però testimoniano della prima vera resistenza collettiva alla dittatura, incarnata dal giudice Llor Domina: costantemente nominato, apparirà soltanto nell’ultimo capitolo.
Assistiamo così, nelle prime due giornate di “reclusione volontaria” alle violenze della polizia che si accanisce contro una domestica uscita a riempire d’acqua alcuni catini e abbastanza furba da sviare la cattura di un contestatore, alla furia di un capitano d’industria davanti alla defezione degli operai, ad un conciliabolo di intellettuali all’interno di un bar che abbassa poi le serrande per “fare causa comune”, ad una compagnia teatrale che aiuta un ferito a raggiungere casa, alla concitata fuga di una coppia di amanti per le vie fradice di pioggia della città pattugliata. L’autore non cede alla facile scorciatoia di una divisione manichea tra “eroi” e “mostri”: al pari di tutti i regimi, il potere ormai al tramonto di Domina, oltre che sulla repressione vera e propria, si fonda anche sull’indifferenza, la condiscendenza e il desiderio di “ordine” che permette a chi gode di alcuni privilegi di mantenerli senza troppa fatica. Così troviamo un ottuso (ma non “demoniaco”) direttore di giornale che in buona o malafede difende l’amministrazione del giudice perché portatrice di maggior “benessere” (per pochi, ma la propaganda trasforma i pochi in “tutti”), mentre alcuni poliziotti, il simbolo per antonomasia della repressione, iniziano a porsi alcune domande quando gli viene ordinato di arrestare semplici cittadini che non hanno commesso alcun reato. La tensione narrativa subisce una brusca accelerazione all’alba della terza giornata: le provviste iniziano a scarseggiare, l’entusiasmo vacilla. Le situazioni che seguono mettono i protagonisti davanti al dilemma dei dilemmi che soggiace ad ogni rivolta/rivoluzione: adoperare o meno i medesimi metodi violenti dell’oppressore? Il comune denominatore di queste scene diventa così il rifiuto di qualunque forma di violenza attiva per differenziarsi dal nemico. Tuttavia, la domanda che De Pedrolo si pone, ribaltando la massima secondo cui “la violenza è sempre sbagliata”, risuona in un preoccupato quanto può durare? Anche ammettendo il caso quasi fantascientifico in cui tutta la popolazione unita si rivolti senza spargimenti di sangue, è lecito sperare che l’oppressore ritragga i suoi artigli e si arrenda da sé?
L’ultimo capitolo si premura di rispondere a questa domanda, e come in ogni opera letteraria di spessore, il cono d’ombra illumina le scene più riuscite. Finalmente appare il giudice Domina, abbandonato anche dai sottoposti più fedeli, incapace di risaldare una catena di comando ormai logora e prossima alla rottura, eppure conscio di dover apparire ancora lucido, freddo, invincibile. La maestria di De Pedrolo mostra qui il nocciolo duro che sta alla base di ogni forma di potere, ovvero la sapiente e intimidatoria mescolanza di forza reale e millantata. Ma il tempo è ormai maturo per perpetrare quell’atto di violenza che dà il titolo al romanzo (rivelarne l’effettiva natura guasterebbe il piacere di un finale teso e gravido di interpretazioni) e ne fornisce la prima chiave di lettura. L’oppressore non si arrende mai, e per evitare che rinasca dalle proprie ceneri è necessario eliminarlo una volta per tutte. Certo, proprio perché non esistono “buoni” e “cattivi” è forse troppo ottimista pensare che morto un Domina non se ne faccia un altro, ma De Pedrolo, minacciato in prima persona dal franchismo, si occupa in prima istanza di combattere il Domina che infesta il suo Paese.
In realtà, oltre che sull’atto di violenza finale ed ineluttabile, il romanzo si fonda su una serie di “atti di violenza” più sottili. In prima istanza, è facile ravvisare nelle convinzioni ideologiche e politiche dei contestatori quelle dell’anarco-sindacalista Manuel De Pedrolo, e alla dittatura spagnola poche altre dottrine politiche potevano allora apparire più indigeste come quelle in odore di comunismo. Poi c’è la sovversione della lingua, il catalano, e dello stile, artatamente semplice e antiretorico, quasi cronachistico ma capace di momenti icastici di grande bellezza senza ricorrere ad un aggettivo di troppo, dei dialoghi che sembrano registrati nelle strade e nelle case e invece sono frutto di una rigida e felice selezione. Infine, per quanto al lettore di oggi possa apparire normale, la liberalità con cui De Pedrolo descrive il sesso, le relazioni extraconiugali, l’insubordinazione nei rapporti familiari ha molto di sovversivo ed inaccettabile per un regime che si voleva tradizionalista e conservatore. Rimanendo poi nel vasto dominio della letteratura della penisola iberica, è molto interessante notare, il possibile parallelismo, la linea che collega Atto di violenza al Saggio sulla lucidità (2004, in Italia pubblicato prima da Einaudi e poi da Feltrinelli) di José Saramago, il grande scrittore portoghese. Entrambi i romanzi si basano su un atto di disubbidienza collettiva e rappresentano una città “sotto assedio”, una guerra civile sui generis, ma non per questo meno cruenta. Nel romanzo di De Pedrolo, tuttavia, sono i cittadini che, come abbiamo visto, pur non aderendo ad alcuna organizzazione, partito, comitato o altro, si rifiutano di uscire di casa e si espongono pubblicamente contro lo strapotere, smaccatamente dittatoriale, del giudice Domina, la cui ostinazione incrollabile porta al finale, liberatorio ed inevitabile atto di violenza. Nel Saggio, invece, ambientato quattro anni dopo il celeberrimo Cecità e dall’impianto fortemente (e felicemente) postmoderno, il “Movimento sovversivo delle schede bianche” è solo la prima delle ominose invenzioni del governo conservatore in carica che, sicuro della riconferma alle urne, si trova invece a dover fronteggiare un numero esorbitante di schede bianche, di gran lunga superiore ai voti di tutti e tre i partiti tradizionali messi insieme. Tuttavia, non c’è stata (o perlomeno così pare) alcun tipo di coordinazione; semplicemente, come è o dovrebbe essere prerogativa fondamentale del cittadino in ogni regime democratico, la popolazione insoddisfatta della propria classe politica ha adoperato uno degli strumenti di dissenso che la legge gli consente. Pienamente esautorato dai cittadini della capitale ma irremovibile dai propri scranni, il governo si trova così a dover combattere un “nemico” invisibile, numerosissimo almeno sulla carta e, soprattutto, che non si è macchiato di nessun crimine pur ledendo, ai loro occhi, l’”integrità dei meccanismi democratici”. Tornando ad indagare l’infinita semantica della “cecità bianca” già affrontata nel romanzo precedente, Saramago si concentra sugli “atti di violenza” perpetrati non da un solo oppressore alla testa della catena, ma da parte dell’intera macchina istituzionale, che dai notabili del governo si dirama fino all’apparato burocratico, alle forze dell’ordine e alla stampa, e smonta dall’interno quegli stessi “meccanismi democratici” che regolano le nostre esistenze costruendo così un’opera che coniuga uno stile ed una sintassi tanto ricchi quanto claustrofobici, l’horror vacui allontanato a colpi di citazioni, indiretti liberi, can can di tempi verbali, prosopopee e metafore ardite quando non assurde costruzioni ipertrofiche da saggista iperesaustivo, pagine di dialoghi fittissimi dove la parola è svuotata di senso e tutti cavillano su tutto perché non ci si può fidare di nessuno. L’unica verità inaccettabile, e di fronte alla quale si è ciechi, è arrendersi ad un evento incomprensibile come la pioggia di schede bianche, come una sola superstite scampata all’epidemia di cecità che aveva messo in ginocchio la nazione. Tuttavia, «l’incomprensibile si può disprezzare, ma non lo sarà mai se c’è modo di utilizzarlo come pretesto»). Il governo in carica adotta esattamente questa strategia per non ammettere la sconfitta, e si serve di qualunque mezzo a propria disposizione per rimanere al potere, dimostrando da ultimo che la “democrazia” può trasformarsi in un ammasso di vuota retorica sotto cui celare veri e propri mostri, tanto arrivisti quanto sanguinari sulla pelle del proprio popolo. Certo, non manca chi decide, come Blasi Baxtera in Atto di violenza, di voltare le spalle alla propria parte, e Saramago tratteggia così ritratti di personaggi a loro modo tragici e a stento dimenticabili, come il commissario incaricato di condurre le indagini.
Bene, ora potete recuperare il baule, rimettere a posto le bobine. Ripensando all’ultimo anno e mezzo e ai tempi che verranno, potete capire perché Paginaotto ha meritoriamente portato in Italia Atto di violenza proprio ora. Così accade che muovendoci tra le pagine di questo romanzo la sensazione sia quella di camminare su uno specchio, liscio e deformante al medesimo tempo. Se infatti può talvolta sembrare di ritrovare il nostro recentissimo passato, fatto di strade vuote, reclusioni più e meno agevoli, serrande abbassate e di libertà appese ad un filo, diventa presto evidente che il nostro è solo un riflesso condizionato, che dobbiamo adoperare i vecchi ma sempre utili strumenti della contestualizzazione, troppo spesso bistrattati in tempi recenti. Certo, pensando anche alla poca eco che un’opera senz’altro meritevole come questa ha avuto sugli inserti culturali nostrani, risuona l’eco di un passaggio del romanzo:
Da anni ormai si scrivono quasi solo opere anticonformiste e molte vengono addirittura pubblicate. Però quasi nessuno se ne accorge. Nel senso che tutti lo trovano naturale, persino, ecco la cosa più strana, i sostenitori dell’ordine costituito. Ormai sono abituati a credere che chiunque la pensa con un minimo di onestà sia, in un modo o nell’altro, all’opposizione (…) Se ci pensi è davvero paradossale: l’amministrazione Domina ammette e trova normale che esista un’opposizione, ma al tempo stesso pretende di essere l’unica in grado di dare un senso alla nostra vita (…).
In Atto di violenza, De Pedrolo mette così in scena i meccanismi interni a qualunque potere smaccatamente o silenziosamente autoritario, e argomenta che per contrastarlo serve sì unire le energie di tutti in uno sforzo comune (e infatti, nonostante le ovvie differenze anagrafiche, di condizione economica, sociale e culturale, i capisaldi ideologici che orientano l’insurrezione sono bene o male gli stessi per tutti i personaggi), ma che tuttavia, nonostante i propositi utopistici della non violenza, tale sforzo non può rimanere passivo o “semplice” insubordinazione, ma deve invece prodursi in “violenza” ovvero nel fattivo rovesciamento del potere costituito. Con il suo romanzo, De Pedrolo vuole suggerire che l’unico modo di evitare la reazione oppressiva degli aguzzini sia batterli sul tempo, prima cioè che sia troppo tardi, cauterizzando con il fuoco tutte le teste dell’idra.
Certo, alla fine, nonostante gli encomiabili sforzi di tutta la comunità, è Blasi Baxtera, lui e soltanto lui che… ma questo è un altro discorso. Magari quest’estate leggete Atto di violenza e ne parleremo con più calma.
Manuel de Pedrolo, Atto di violenza, Paginaotto, Trento 2020, 288 pp. 19,00€