La lingua è un elemento fondamentale alla base della costruzione delle culture umane e delle identità degli individui e il legame fra langue e parole stringe indissolubilmente i nodi del rapporto fra l’uomo e la sua dimensione sociale. L’ossessione linguistica è il tema cardine sul quale si costruisce la trama di Lingua madre, esordio letterario di Maddalena Fingerle, pubblicato per Italo Svevo nel marzo 2021 e vincitore della XXXIII edizione del Premio Italo Calvino.
L’inquadratura fissa su un pianto materno ininterrotto apre il racconto della vita di Paolo Prescher, secondo figlio di una famiglia bolzanina benestante che si presenta subito in tutta la sua problematicità:«Paolo Prescher è ossessionato dalle parole – Giuliana Prescher piange – Biagio Prescher è muto – Luisa Prescher è falsa…». All’avvio della narrazione, il protagonista e narratore è un bambino arrabbiato che interpreta i rapporti secondo schieramenti manichei elementari, sottolineando con tono incrudelito i tratti disfunzionali del nucleo familiare. Dalla parte del giusto si staglia la figura del padre, affetto da una forma di afasia o di mutismo che il figlio legge nei termini di una resistenza linguistica alla superficialità e alla corruzione borghese della madre e della sorella. Alle due donne della famiglia, rappresentanti di un cliché sociale desolante, non vengono risparmiate critiche sprezzanti: sono «frivole», «ignoranti», «cretine», «false». Sono ingiustificatamente preoccupate del giudizio degli altri e si vergognano dell’insolita abitudine del padre di etichettare qualsiasi oggetto all’interno della casa, mentre Paolo comprende il delirio catalogante di Biagio come l’unico mezzo a sua disposizione per rapportarsi con ciò che lo circonda. Sullo sfondo si apre la città di Bolzano con la sua posticcia ostentazione di bilinguismo e con il suo ingombro di formalità burocratiche e sociali.
Parallelamente al consumarsi dello scontro con la famiglia e con i luoghi d’origine si dispiega un romanzo di formazione che raggiunge l’apice drammatico con il suicidio del padre e lo scioglimento con la fuga verso la Germania. Qui, Paolo intesse una fiabesca relazione amorosa con Mira, una giovane donna di origini milanesi, circonfusa da un’aura di purezza che impreziosisce ogni suo tratto. Ma i problemi di Paolo sono diversi dai semplici turbamenti di un’adolescenza ribelle e finiscono per impedire il compimento della formazione, sbilanciando infine il romanzo verso il polo del resoconto tragico di un disturbo psicologico.
L’ossessione per la parola, per un certo “purismo” linguistico, è la lente che filtra tutta la narrazione legando fra loro i diversi temi dell’opera. La lingua in quanto strumento di espressione identitaria connotato, polisemico e performativo chiama in causa la questione dell’identità e della sua costruzione. Per i personaggi del romanzo essa si determina in primo luogo per contrasto o per identificazione rispetto alle proprie origini, ed è di nuovo in campo linguistico che si gioca la rottura di Paolo con la famiglia e con il contesto socioculturale in cui si trova. Il potere delle scelte linguistiche, di esprimere dissenso e anticonformismo e contemporaneamente di valere come elementi di riconoscimento fra membri di uno stesso gruppo, si estremizza nella mente di Paolo, provocando effetti addirittura invalidanti. La riflessione intorno alla lingua assorbe quasi completamente le energie psichiche del giovane altoatesino, per il quale le parole divengono intollerabili perché corrotte dall’uso che i parlanti ne fanno.
Un disturbo ossessivo compulsivo da contaminazione affligge il protagonista. Si tratta di un malessere caratterizzato dalla presenza di una serie di pensieri intrusivi che riguardano soprattutto la paura del contagio e della sporcizia, e che possono essere allontanati soltanto tramite la ripetizione rituale di azioni compulsive. Tutti gli sforzi di Paolo sono tesi a “pulire” le parole, svincolandole dalle associazioni mentali negative alle quali i parlanti hanno alluso pronunciandole, ma la sua fobia per la sporcizia si rivela anche in altri ambiti, per esempio nell’evidente repulsione che prova per i peli, gli odori, il sangue o gli assorbenti. Fare uso della propria lingua madre è causa di una tale sofferenza per Paolo da spingerlo ad abbandonarla definitivamente in seguito al suicidio del padre. Il ragazzo si accusa di non essere stato in grado di trovare le parole pulite che avrebbero salvato Biagio e tenta di redimersi imponendosi il fioretto linguistico.
Anche l’amore per Mira non si svincola dal legame con il tema principale, e infatti trova la sua ragione d’essere proprio nell’ammirazione da parte di Paolo per la capacità della ragazza di utilizzare le parole nel loro significato più autentico.
Lo stile è fortemente paratattico, improntato a un’oralità secca e tagliente e a un lessico semplice, cadenzato secondo la presenza di anafore e ripetizioni costanti e caratterizzato da certi accenti lirici. È una scrittura che partecipa a una generale tendenza di molta letteratura italiana contemporanea, modellata sull’esempio americano in particolare, verso una comunicatività e un’immediatezza volte a suscitare una reazione emotiva forte nel lettore. Qui l’uso delle figure retoriche si giustifica in relazione all’ossessività del punto di vista di un narratore autodiegetico il cui racconto coincide con la rappresentazione soggettivizzata di un’interiorità che fatica a convivere con le istanze della realtà esterna.
A uno sguardo d’insieme, la trama pare caratterizzata da un certo schematismo, che può risultare funzionale all’effetto che la narrazione vuole produrre. Una catena di eventi segna i passaggi fra un’infanzia chiusa, la rottura nei confronti della famiglia, l’apparente risoluzione della problematicità dei rapporti del protagonista con sé e con gli altri e un finale durissimo nel quale si spezza ogni equilibrio. Al suo interno, la sezione centrale, nella quale tutto sembra andare per il meglio e niente provoca frizioni considerevoli, fa presagire la svolta che si consuma prima della conclusione e amplifica la risonanza del colpo di scena finale, di modo da soddisfare il gusto per la suspense e per lo sconcerto. Forse però, una maggiore omogeneità nella rappresentazione delle sfaccettature delle personalità e dei comportamenti avrebbe conferito dinamicità a una parte di narrazione che non risulta del tutto coinvolgente. Il ritratto abbastanza stereotipato degli amici universitari di Mira tende a smorzare ancora di più l’intensità a quest’altezza. Se può apparire coerente che la madre e la nonna inizialmente siano ricondotte a un cliché sociale specifico, perché la lettura è quella di un bambino e perché l’immagine che questi ne vuole dare è negativa, avrebbero meritato una costruzione più originale le figure degli amici conosciuti a Berlino con i quali il protagonista, ormai cresciuto, entra in un rapporto autentico di affetto e di stima. Nelle pagine finali però, il ritmo incalza e diviene addirittura febbricitante, restituendo slancio all’andamento dell’intreccio, e lo stile asciutto e assillante accompagna la narrazione al suo epilogo.
Nel finale si concentrano un’ambiguità e una tensione narrativa che conferiscono più spessore alla vicenda: nella percezione del protagonista, la divisione fra personaggi positivi e negativi, fino a questo punto ferrea, viene messa in discussione mentre si rivela la fallacia di ogni polarizzazione schematica nel contesto della moralità umana. All’inaspettata comprensione che la madre riserva alla nuova coppia in difficoltà corrisponde un cambiamento nell’atteggiamento e nel comportamento di Mira, che la avvicina agli usi e alle abitudini tanto odiati da Paolo. In conclusione, ciò che è più conturbante è il gesto finale del protagonista, a cui si allude soltanto. La narrazione giunge all’acme orrorifico dopo aver favorito retoricamente l’immedesimazione o almeno lo sviluppo dell’empatia per il protagonista lungo tutto il romanzo: la rappresentazione in prima persona dei suoi disagi e del dolore che questi gli infliggono, impedendogli di vivere serenamente, si intensifica decisamente prima della conclusione. A questo punto la narrazione si fa disturbante e si apre una serie di interrogativi sulla responsabilità e sulle cause che hanno portato all’esito conclusivo. Perciò, dal punto di vista della dimensione estetica il finale risulta sicuramente la parte più incisiva, ma è anche il luogo in cui sono presenti più stimoli sul piano delle implicazioni morali della vicenda.
Infatti, uno dei risultati più apprezzabili per un autore è quello di riuscire a inventare e raccontare una storia in modo che non sia possibile schierarsi con facilità rispetto ai problemi che essa solleva. Significa restituire vita a una realtà complessa quanto quella in cui i lettori si trovano inseriti, offrendo l’occasione per una ricezione attiva e per un’esperienza che abbia ancora valore una volta conclusa, suscitando, se possibile, una riflessione e un sommovimento interiore allo stesso tempo.
M. Fingerle, Lingua madre, Roma-Trieste, Italo Svevo, 200 pp., € 17.