«Il caso, non del caso, ma del concetto di caso è dei più curiosi ed esemplari. È difficile credere seriamente che un caso (che è sempre e tuttavia un accadimento) sia casuale, o insomma credere seriamente al caso. (…) Ma qualcuno ha inventato il caso e tutti i pensanti lo hanno accettato: anche coloro che mostrano di rifiutarlo (…) lo ammettono poi implicitamente in ogni momento della loro giornata. (…) Come si possa uscire da ciò non saprei dire, se non (…) facendo per es. intervenire un concetto profondo di gioco, in cui questo sarebbe l’essenza prima dello spirito.»
Tommaso Landolfi, da Rien va (Vallecchi, 1963)
Il salto nel vuoto, date le premesse, era parecchio rischioso. Un racconto lungo di circa settanta pagine potrebbe rivelarsi un contenitore angusto per una storia che, non svincolata dalla necessità di articolare un minimo di trama, si proponga di trattare temi come l’infinito, il caso, l’equiprobabilità di tutti gli eventi. A complicare le cose poi, c’era la precisa volontà di inserirsi di una tradizione eterogenea che include maestri del racconto breve (Kurt Vonnegut, James Ballard), celebrati alfieri della fantascienza pop (Douglas Adams), qualche decennio di postmodernismo e appena una punta di Jorge Luis Borges e Roberto Bolaño, mantenendo tuttavia una propria voce, uno stile riconoscibile.
Eppure, Uno su infinito di Cristò (Terrarossa edizioni – in precedenza pubblicato da Intermezzi e da caratterimobili) è riuscito nell’impresa. Cristò è ormai un narratore di lungo corso, e la frequentazione della sua opera fino qui edita mi ha confortato in questa ipotesi: Cristò possiede la rara abilità di trasformare qualunque elemento narrativamente collaterale (suggestioni, riferimenti, citazioni, dissertazioni teoriche) in legna da ardere per il grande falò dell’intreccio, della storia vera e propria intorno a cui ogni tipo di lettore, ingenuo o smaliziato che sia, si scalda riconoscente. La narrazione ne guadagna così in profondità e varietà di interpretazioni, senza tuttavia cedere sul piano della fluidità e della coesione strutturale.
Uno su infinito si apre e si chiude sulla voce del giovane e rampante medico di base Tancredi (e chi ha già letto La carne ricorderà). Un giorno imprecisato, Tancredi riceve da un anonimo sceneggiatore le trascrizioni di una serie di videointerviste che ruotano intorno ad un programma televisivo, la celeberrima lotteria planetaria That’s (im)possible, ideata dal matematico Bruno Marinetti. A questa breve introduzione seguono le dichiarazioni “in favore di telecamera” di una serie di figure coinvolte a vario titolo e nelle diverse fasi della scalata di That’s (im)possible, da una piccola tv locale fino agli schermi e alle case di tutto il mondo. Lo stratagemma è efficace per mostrare tanti punti di vista differenti e insieme simili, personaggi desiderosi di fare bella figura davanti all’inquadratura, oltre che per giocare con i codici della comunicazione: com’è possibile che tutte le interviste siano così consequenziali, così coordinate tra loro, come in tanti romanzi o racconti di paranoia postmoderna o anche più recenti?
Apprendiamo così il funzionamento della folle lotteria prima per bocca di Carlo Vanni, direttore della piccola rete dove debutta lo show, e di Luigi Conte, presentatore dell’edizione italiana, e poi direttamente da Bruno Marinetti: si tratta, come in ogni lotteria, di indovinare il numero vincente. Nessuna scheda viene consegnata ai concorrenti, ciascuno può spedire in redazione una busta affrancata con il numero prescelto scritto a mano. Durante la trasmissione, il numero vincente verrà estratto seguendo una procedura nota soltanto a Bruno Marinetti. Il numero vincente può essere qualunque numero intero compreso tra zero e infinito. Ciascun concorrente ha così una probabilità su infinito di scrivere il numero che verrà estratto e vincere la totalità del montepremi, che in breve tempo raggiunge cifre da capogiro. In caso di vincite multiple, ci si impegna a corrispondere a ciascun vincitore la cifra esatta, senza dividere i soldi. È una probabilità su infinito, ma pur sempre una probabilità. D’altronde, come dice spesso Bruno Marinetti, «le cose impossibili capitano di continuo».
That’s (im)possible spopola in pochi mesi, un’allucinazione collettiva all’inseguimento di un «infinito comprensibile, un infinito pop». La stampa dedica alla lotteria spazi sempre più consistenti, tanto che ad un giornalista americano sovviene il paragone con i titoli che Le Moniteur dedicava al ritorno in patria di Napoleone Bonaparte (dal disprezzo aperto all’elogio sperticato). Giornalisti e freelance stanano esimi (e molto scettici) professori di matematica, sociologi e addirittura medium per indagare a fondo questo fenomeno epocale. Tutti giocano un gioco di cui non si conoscono a fondo le regole, accecati da una possibilità, una sola possibilità su infinito di conquistare uno smisurato benessere economico. Perfino gli Stati nazionali entrano in affari con la rete satellitare che manda in onda il programma, tentano di accaparrarsi qualche utile in cambio di contribuire a parte della vincita, mentre le grandi multinazionali si spartiscono i blocchi pubblicitari, sempre gli stessi in ogni angolo del globo.
Mano a mano che la storia progredisce, la voce di Bruno Marinetti prende il sopravvento sulle altre: brillante matematico, figlio di un sindacalista morto nell’indifferenza generale dopo una vita di arringhe nelle piazze, Bruno nutre un amore sconfinato per la sorella Sofia, affetta da una rara malattia che la debilita quasi totalmente. Bruno si prende cura di Sofia, e una notte la scopre a compilare pagine e pagine di numeri con foga e sforzo immane. Le sequenze numeriche così composte non hanno alcun senso, alcuna logica. Bruno inizia così a concepire l’idea di That’s (im)possible, ipotizzando di estrarre i numeri vincenti dalle combinazioni casuali che Sofia scrive nel sonno e immaginando – come il lettore avrà modo di scoprire – un colossale, sovversivo e quasi poetico riscatto per il padre morto in solitudine, per le cause per cui aveva sempre combattuto. Tuttavia, la morte di Sofia per infarto (e per il troppo sforzo derivato dalle intensive sessioni di scrittura) costringe Bruno ad accelerare i tempi, e quando tutto sembra sul punto di compiersi… l’impossibile accade, il caso (reale o presunto) si fa beffe dell’uomo che aveva tentato di imbrigliarlo.
Uno su infinito è forse davvero un racconto «finito ed infinito», come nell’esergo dove si cita Giorgio Caproni. Lo è nella forma: alla brevità delle videointerviste fa da contraltare il viluppo della trama che si attorciglia su se stessa come il nastro di Moebius che campeggia nello studio di ripresa di That’s (im)possible. È lo è, potenzialmente, nel contenuto, dal momento che, trattandosi di un evento planetario, chiunque potrebbe avere qualcosa da aggiungere alla storia, un’altra breve videointervista, elemento finito di un’infinita serie. Cristò ha così scritto un altro racconto denso, stratificato, sublime e pop come il concetto di infinito o come la disperata speranza che questa volta andrà bene, inspiegabile e consequenziale al medesimo tempo, come il susseguirsi “impossibile” di circostanze che portano un evento a compiersi. Tony Morisco, venditore di auto usate, e Pierluigi Mancasi, filosofo, giocano al medesimo gioco di cui ignorano le regole, e sebbene da angolazioni di pensiero molto diverse, alla fine sperano la stessa cosa, sognano il più semplice e irraggiungibile dei sogni: cambiare la propria vita, una frase da classici Baci Perugina e al contempo, senza alcuna contraddizione interna, nobile ed immancabile aspirazione umana.
Arriviamo così a quello che credo sia un leitmotiv, uno degli assi portanti della poetica di Cristò, nonché trait d’union che lega Uno su infinito a La carne, di cui idealmente dovrebbe essere l’antefatto. Le centinaia di migliaia di persone che scommettono sul numero vincente agiscono come una sorta di grande mente viscerale e collettiva, una mente ottusa, autofaga, incapace di elaborare simboli, una mente che riduce persino l’infinito alla chimera impossibile di un enorme guadagno. Dall’altro lato, tuttavia, Sofia, una mente complessa e fragilissima, connubio di abbagliante spiritualità, incommensurabile logica matematica e sdegnoso disprezzo del mondo. Sofia è muta e impenetrabile, ha bisogno di assistenza per compiere qualunque piccolo gesto ma la accetta soltanto dal fratello maggiore, il quale non le parla mai del mondo fuori casa sua, ma solo di galassie e concetti matematici; Sofia, la cui vita esteriore si riduce a bere acqua e succo di frutta. L’accostamento di questi due poli, la folla di giocatori e Sofia, sembra prefigurare la fusione tra tutto e nulla, tra l’abisso dell’incoscienza stolida e il picco più alto della rarefazione intellettuale.
In mezzo, come Tancredi, che diventerà uno dei protagonisti de La carne, sta Bruno Marinetti, il cui nome è ricalcato su quello del matematico e teorico della probabilità Bruno de Finetti, ma nasconde anche un ammiccamento all’incendiario padre del futurismo italiano Filippo Tommaso Marinetti: Bruno è colui che tenta di capire, di dare un senso alle cose, magari di servirsene per un fine più grande o nobile. Eppure, Cristò sembra suggerire che questi tentativi, anche se animati giusti propositi, non solo possono condurre pericolosamente vicino alla follia (Bruno, di fatto, per perseguire fino in fondo il suo piano finisce per uccidere indirettamente l’amata sorella) ma naufragheranno sempre davanti alla totale insensatezza dell’esistenza, o ad un senso che è destinato comunque a rimanere ignoto.
Comunque sia, argomentano ancora le pagine di Uno su infinito, anche se qualcuno ci arrivasse e svelasse davvero il senso ultimo delle cose, questa scoperta gli si ritorcerebbe contro, annullando in un colpo solo tutto il resto. Rassegnarsi a giocare numeri impossibili ad un’impossibile lotteria, insomma, non sarebbe poi tanto diverso dal diventare zombie in preda al pensiero fisso della carne. Eppure ci sarà sempre chi tenterà una via, chi un’altra, chi deciderà di non giocare. Cristò ci consegna una visione del mondo sottilmente inquietante, dove tutto può trasformarsi nel proprio opposto, dove capirci qualcosa è probabile sintomo di pazzia e ciononostante è necessario proseguire, in un modo o nell’altro, tenendosi stretto ciò che si ha prima che sia troppo tardi, prima di accorgersi che forse è già troppo tardi. Non è una realtà troppo diversa, io credo, da quella che viviamo ogni giorno.
Cristò, Uno su infinito (2021), Bari, Terrarossa Edizioni, pp. 84, €11,90.