S’è spenta la vita della splendida Venezia…
Come su di un cimitero, il Silenzio si stende sulla città.
Prete decrepito sopravvissuto al naufragio degli anni,
San Marco batte, sinistro, la mezzanotte.
Non risorgono i morti, non lo sperar, fanciullo.
(trad. di Ramiro Ortiz)
Così, nel 1885, scriveva in un suo sonetto il poeta romeno Mihai Eminescu, che non aveva mai visto Venezia, ma riprendeva i versi in tedesco, del 1864, di un poeta italiano d’Austria, Gaetano (Cajetan) Cerri. Questi, bresciano di nascita, funzionario del governo a Vienna, doveva sapere che in realtà Venezia esisteva ancora, e come, se non altro per i grattacapi che continuava a dare alla capitale dell’Impero. Due anni dopo, peraltro, sarebbe passata all’Italia. Ma tant’è, attorno a Venezia si era creato un alone romantico, un cliché vaporoso, attraente ma sinistro, talvolta perfino satanico, che avrebbe avuto una lunga vita nella letteratura, nell’arte e, sarebbe anche penetrato, in parte, nell’immagine comune della città.
Lo storico Mario Isnenghi, che con mano ferma ha rivoluzionato lungo gli anni con la sua opera la vulgata italiana sulla Grande Guerra, si è proposto questa volta di vedere come la storia di Venezia, la sua città, abbia smentito quel mito romantico. Per fare questo ha tracciato una storia della città alla luce della contrapposizione tra passatismo e progresso, mostrando quanto la città, nonostante le resistenze conservatrici, abbia innovato nel corso dei due ultimi secoli, a partire dal trauma iniziale, la caduta della Repubblica Serenissima. Nel 1797 Venezia perde per sempre la sua funzione di capitale, la lasciano quasi di colpo cinquantamila abitanti, e soggiace ripetutamente alla tentazione di chiudersi in sé stessa negandosi alla storia. Per fare questo, Isnenghi ha raccolto e dispiega davanti al lettore un densissimo dossier, che ci offre un quadro quanto mai ricco della vita politica, culturale e economica della città negli ultimi due secoli. La sua ottica è quello di fautore aperto della modernizzazione della città, ma non certo di un dissipatore della sua memoria, né tantomeno di un negatore della sua eccezionalità artistica, al contrario. La sua ideologia è capace di molte sfumature, così come la sua scrittura, agile e al tempo stesso complessa, che rende così appassionante la lettura di questo libro.
Questa ottica particolare, che chiamiamo comunque modernista, porta a un risultato imprevisto, forse per lo stesso autore: nella polarizzazione tra elementi di conservatorismo e resistenza e quelli di innovazione, vengono in luce positiva non solo i politici progressisti, ma anche gli imprenditori audaci, gli innovatori dell’ingegneria, dell’arte, qualunque fosse il loro colore politico. Tra questi ha un certo posto perfino Gabriele d’Annunzio, veneziano d’adozione, con il suo sogno di un imperialismo adriatico, del quale l’impresa di Fiume è stata una tessera isolata ed eccentrica. Il suo centro propulsore sarebbe stato Venezia. La storia di Venezia tracciata da Isnenghi non è fatta solo di iniziative riuscite, ma anche di tentativi falliti e tornati nel nulla, e, come nel caso di D’Annunzio, letterato nella tragedia imperialista “La Nave” (1921) e comandante politico-militare a Fiume, di sogni che la storia per fortuna ha bocciato.
In questa storia davvero a 360 gradi Isnenghi esamina una quantità impressionante di aspetti della vita di Venezia tra la fine della Repubblica e i giorni nostri, o quasi. Purtroppo la mancanza di un indice dei nomi ci priva di un punto di vista straordinario sull’estensione dell’opera, ma certo proprio la sua vastità giustifica la scelta, probabilmente editoriale, di rinunciare all’impresa di un sommario delle persone e delle cose, che avrebbe preso decine di pagine oltre alle quattrocento che già costituiscono il libro.
Per prima cosa ci sono i manufatti, i due ponti, ferroviario (1846) e stradale (1933) che tirano fuori per sempre Venezia dalla sua insularità. E già nel 1846 corre la ferrovia Milano-Venezia, voluta più da Venezia che da una Milano insolitamente neghittosa. Poi il moto dell’industrializzazione, che trasforma l’Italia alla fine dell’Ottocento, e anche Venezia, dove l’industria si insedia soprattutto all’estremità occidentale della città, prolungandola in quella direzione. Si creano grandi estensioni, appendici della città. La prima è quella del Lido (diamo come riferimenti temporali le inaugurazioni dell’Hotel des Bains nel 1900 e dell’‘Excelsior nel 1908), la città dei bagni, che ha la sua preistoria a Venezia nei primi stabilimenti balneari alla Punta della Dogana e in altri punti della città storica. Mestre da idillico sobborgo si trasforma in attiva cittadina, e c’è Marghera. Queste appendici sono sempre Venezia per Isnenghi, per quanto siano state viste spesso come sue alternative e rivali, che hanno contribuito e contribuiscono alla sua decadenza e futura sparizione, come nel sogno funesto di Cerri e Eminescu.
Il Lido, sede dei bagni, ma presto anche grande quartiere dove abita quasi metà della città, diventa negli anni Trenta del Novecento sede della Mostra del Cinema, che, aggiungendosi alla Biennale d’Arte e dello Spettacolo, costituisce il nocciolo della Venezia internazionale, coi suoi splendidi e nuovissimi luoghi deputati, i già ricordati Hotel des Bains e Excelsior. Qui c’è un confine mobile con la Venezia del lusso, che Isnenghi, da vecchio militante della sinistra, non vede con simpatia. Ma il suo occhio resta acutissimo, tanto che, per esempio, nota che accanto a un quartiere residenziale signorile ne sorge allora al Lido, per la stessa iniziativa, anche uno per il personale e i lavoratori: ma è costruito un po’ più in là, in modo che la separazione tra le abitazioni dei due ceti sia chiara. Ricordando una vecchia lettura, mi viene in mente che questo può essere visto come un episodio paradigmatico di quella che Jürgen Habermas ha chiamato la “secessione (urbanistica) della borghesia”, che a un certo punto decide di non vivere più in mezzo al popolo, come aveva fatto nell’“ancien régime”, e gli abbandona il centro storico (Storia e critica dell’opinione pubblica, in it. 2006).
Il libro contiene anche una storia politica e sociale della città, dalla rivoluzione del ’48 al passaggio al Regno d’Italia, al Fascismo e poi alla Resistenza e all’egemonia cattolica, ma anche alle lotte sindacali, del secondo Dopoguerra. Alla Venezia nobile, borghese e popolana si affianca la Venezia operaia, di cui Isnenghi racconta minutamente la storia di uno tra i centri più vivi, campo Santa Margherita. Per la sua particolarità, se non proprio separatezza, diventa la “repubblica di campo santa Margherita”. Come un’ellissi Santa Margherita ha due fuochi, la chiesa sconsacrata che dà il nome al campo, che è stata Camera del Lavoro, poi cinema di infimo ordine (peocèto, ‘pidocchietto’), poi auditorio universitario, e l’osteria Capon. Qui si incontravano un tempo i portuali e gli studenti di Ca’ Foscari, di qui partivano i cortei non autorizzati dei lavoratori. Si levava il grido: “A san Marco, a San Marco!”, ma gli scioperanti venivano fermati immancabilmente dalla polizia prima di arrivarci. Di qui fascisti e socialisti si sparano addosso nel primo Dopoguerra. Il libro contiene anche una storia del sindacalismo a Venezia, vissuta anche in parte in prima persona dall’autore. Compaiono così i protagonisti di una stagione non lontana, ma spesso dimenticata. Non è il solo esempio: è a questo fenomeno di rimozione del passato, più forte forse a Venezia che altrove, che si riferisce, crediamo, il sottotitolo del libro: Una storia senza memoria.
Ma, per tornare indietro nel tempo, Isnenghi nota che a Venezia la rinascita della Repubblica di San Marco con la rivoluzione del 1848 (stella mattutina d’Europa!), dura ben un anno e mezzo, contro i tre mesi della ben più famosa e celebrata repubblica romana e le cinque giornate di Milano. Ma il progetto politico repubblicano sarà presto bruciato da quello monarchico, e la memoria di un fatto così straordinario finirà per sonnecchiare in poche righe nei libri di scuola. Nella sua opera di revisione storica permanente, Isnenghi nota anche l’ambiguità della figura politica di Daniele Manin, la cui carriera politica non finisce con i diciassette mesi della repubblica, ma si trasforma nel tempo, tanto che lo incontriamo più tardi come rappresentante politico del moderatismo. Durante il regno d’Italia emergono peraltro a Venezia figure politiche significative e importanti a livello nazionale, come quella di Luigi Luzzatti (1841-1927), primo ministro, tra i fondatori dell’Università di Ca’ Foscari e della Banca Popolare di Milano, rappresentante della vivacità intellettuale della comunità ebraica veneziana, ora ridotta ahimè al lumicino.
I trasporti. Nella città in cui un tempo nell’acqua della laguna si vedevano solo gondole e gondolieri, come nel quadro di Gentile Bellini (o di Carpaccio?) della Galleria dell’Accademia, circola oggi il vaporetto, che per il turista contemporaneo fa parte a pieno titolo della veduta romantica di Venezia. Non poteva mancare in Isnenghi la storia di questo mezzo di locomozione, diversa da quella che il lettore immaginerebbe. Nata per iniziativa di una compagnia privata svizzera (secondo Internet francese), la rete dei vaporetti è stata solo più tardi resa pubblica. Per secoli solo le gondole solcavano il Canal Grande e i suoi rivi affluenti, e le proteste contro l’innovazione del trasporto pubblico a vapore, come per molte altre novità, era stata al tempo vivace. Ma chi non ammira oggi, anche esteticamente, i vaporetti? E, aggiungo, la loro puntualità, unica in Italia?
Per la sua immagine, come era stata fissata da John Ruskin nei tre volumi delle Stones of Venice (1851-53), Venezia poteva essere votata a diventare la custode dell’arte di uno splendido passato. Ma non è stato così. Già negli ultimi decenni dell’Ottocento i pittori veneziani Guglielmo Ciardi e i suoi figli Emma e Beppe, e Ettore Tito, evitando il confronto con Canaletto e Guardi, lasciano il Canal Grande e piazza San Marco per dipingere i mercati, la laguna aperta e le barche da pesca con le loro grandi vele colorate, che ancora io nella mia lontana giovinezza ricordo di aver visto nella vicina Chioggia. Ci sarà poi la scuola di Burano (Gino Rossi, Pio Semeghini, Umberto Maggioli e altri), ci sarà De Pisis. Ma soprattutto, più vicino a noi, nel secondo Dopoguerra,c’è stato il modernismo artistico – in particolare l’astrattismo –– che si insedia nella stessa Accademia delle belle arti, con pittori come Giuseppe Santomaso, Emilio Vedova, Renato Birolli, Afro, Giulio Turcato, lo scultore Alberto Viani, e molti altri. L’atmosfera è galvanizzata dalla presenza a Venezia di Peggy Guggenheim, la cui collezione, che deve molto al contatto vivo cogli artisti veneziani, si trasforma più tardi nella Fondazione Guggenheim, sezione della casa madre newyorchese. La Biennale d’Arte continua di anno in anno a fornire una vetrina alla modernità più attuale.
L’Università della Serenissima, si sa, era stata Padova. Il nuovo Regno d’Italia, ridisegnando sul passato la distribuzione geografica degli studi superiori in Italia, aveva destinato a Venezia la Facoltà di Economia e Commercio, con gli annessi studi di lingue orientali e occidentali. Nel 1926 si aggiunge l’Istituto Universitario di Architettura, ora Università IUAV, e nel secondo Dopoguerra, nel 1969, nascono le Facoltà di Lettere e Filosofia e di Chimica industriale. I passatisti, aggiungo io, si lamentano ancora oggi della proliferazione delle università in Italia, ma i paesi più sviluppati del mondo hanno molte più sedi e molti più studenti di noi. In Giappone, la sola Tokyo ne ha, pare, 85! Mi auguro che molti più giovani trovino la possibilità di studiare e magari restare a Venezia, città che è adesso in uno spettacoloso calo demografico, oltre che altrove.
Nel grande affresco di Isnenghi c’è posto anche per una storia dei monumenti veneziani, le statue che sorgono in tante piazze delle città d’Italia, e a Venezia, dove l’unica “piazza” è quella di San Marco, nei campi. Dopo il formidabile cinquecentesco Colleoni equestre del Verrocchio nel campo dei santi Giovanni e Paolo, chi non ricorda la splendida statua sorridente di Goldoni, o quella di Tommaseo, a Rialto la prima e in campo Santo Stefano la seconda? E il mastodontico Vittorio Emanuele collocato, dopo molte polemiche rievocate nei dettagli da Isnenghi, sulla riva degli Schiavoni? Per una fortunata coincidenza, lo storico dell’arte Giovanni Carlo Federico Villa ha dedicato ai monumenti di Venezia la puntata del 25 luglio 2021 del suo “Statue in piazza” su Radio 3. La sua rassegna si conclude sulla storia della statua dedicata alla partigiana ai Giardini. Realizzata su un basamento, tuttora esistente, di Carlo Scarpa, la statua, opera in ceramica di Leoncillo Leonardi, inaugurata nel 1957, fu distrutta in un attentato fascista nel 1961. Ma è stata sostituita da un bronzo di Augusto Murer, grande scultore, e a suo tempo partigiano nel natio Bellunese. Tra le moltissime storie e cronache di Isnenghi, questa, certo involontariamente, non appare. Sarebbe stato perfettamente nelle sue corde, questo monumento dedicato ai partigiani, ma che raffigura una donna, una partigiana. Isnenghi che dà, anche in questo suo libro, spazio alla guerra partigiana a Venezia, avrebbe certo valorizzato la scelta della figura femminile.
Paradossalmente la parte dedicata da Isnenghi alla storia delle donne di Venezia, è quella in cui appare in modo più evidente, e dichiarato, la sua decisione di non trascurare o nascondere la componente fascista della Venezia moderna. A Venezia il ponte stradale, già chiamato Littorio, è fascista. Fascista era il maggior industriale del secolo, il conte Volpi, e altre personalità pubbliche che l’autore descrive. Senza le loro figure e la loro storia, il ritratto della Venezia moderna sarebbe uscito diminuito. Tra le biografie della storia veneziana al femminile ci sono tre delle donne più importanti più importanti del Fascismo italiano: Maria Pezzè Pascolato, Elisa Mayer (o Majer) Rizzoli e, più famosa di tutte, Margherita Grassini Sarfatti, biografa (Dux 1925) e amante del Duce, madrina dell’arte contemporanea più avanzata del suo tempo. Scommetto che, dopo questo libro di Isnenghi, poche città come Venezia possono vantare un panorama così ricco e variato della loro storia moderna e contemporanea. L’autore ha vinto la sua scommessa di tirare fuori Venezia dalla sua immagine convenzionale, e di dipingere la sua vita, non il suo tramonto o tanto meno la sua morte, nella modernità.
Mario Isnenghi, Se Venezia vive. Una storia senza memoria, Marsilio, Venezia 2021, 400 pp., € 19.00.