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Campi energetici: su “Solenoide” di Mircea Cărtărescu

Descrivere un romanzo come Solenoide di Mircea Cărtărescu non è un’operazione semplice. Si potrebbe partire con un degli artifici retorici tipici di questo libro, il paragone spiazzante, dicendo che c’è un sottofondo ontologico in Cărtărescu che per certi versi ricorda Balzac: la teoria dei campi energetici, che inizia a delinearsi nel Louis Lambert (1832) e non priva di risvolti mistici, che animerebbero la realtà e l’individuo. Anche il mondo di Solenoide sembra mosso da strane forze, catalizzate dallo strumento che dà il titolo al libro e in grado di generare delle alterazioni sulla realtà, modificandone, per esempio, i campi gravitazionali.

Il riferimento a Balzac è spesso un topos critico fra i più idiosincratici dei nostri tempi: balzacchiani sono stati chiamati Houellebecq e Franzen, “il Balzac californiano” è stato definito un autore diversissimo come Vollmann. Non si vuole qui indicare un’ascendenza precisa, ma piuttosto iniziare a tratteggiare la complessità su cui si fonda il sistema-Cărtărescu, la cui caratteristica più evidente è innanzitutto una forma assolutamente eterogenea di enciclopedismo per cui possono convivere senza problemi effetti balzacchiani, fisica dei quanti e misticismo.

D’altronde, la realtà definita da Solenoide è quanto di più lontano si possa immaginare da quella ricostruita dal romanzo realista – genere che, non a caso, Cărtărescu non ama. Ha piuttosto a che fare con Kafka o con certe atmosfere da surrealismo, e soprattutto da un certo surrealismo dell’Est Europa, come quello dell’artista ceco Milan Nápravník, che in alcuni saggi, raccolti in Italia nel volume La magia del surrealismo, descrive relazioni fra il soggetto e il mondo che possono servire da possibile guida per entrare nella complessità di Solenoide: l’enfasi su una realtà non razionalista, il concetto di impregnazione di case o luoghi che evocano nell’osservatore sensibile allucinazioni o visioni, immergendolo in “eventi che arrivano a noi attraverso le crepe della nostra tetraedrica dimensione spazio-temporale”, o ancora la possibilità di creare una realtà magica a partire dagli oggetti.

È una realtà che ha a che fare anche con un certo postmodernismo: Cărtărescu cita spesso Borges e Pynchon come autori per lui fondamentali, ma a leggere Solenoide torna piuttosto alla mente il John Barth dell’Opera galleggiante, in particolare nelle parti metanarrative del libro in cui il protagonista, un anonimo professore di scuola media, ragiona sui suoi progetti di scrittura.

Una realtà, insomma, che si fa davvero fatica a organizzare e su cui in continuazione si torna. Solenoide è, infatti, in prima istanza un libro sul bisogno di trovare un nesso col reale, un contatto con una realtà sfuggente che si cerca di conoscere e che si manifesta soprattutto nei momenti dolorosi.

L’impressione è quella di un labirinto claustrofobico in cui si viene gettati e rinchiusi – e torna spesso l’immagine del mondo come prigione – in cui davvero manca l’aria e non si riesce a trovare una via d’uscita, la scrittura così torna continuamente su se stessa, talvolta sembra quasi girare a vuoto, nell’impossibilità di definire chiaramente i contorni di una realtà che si mescola continuamente con il mondo onirico: “Così percepisco la mia vita, così sento di essere sempre stato: il mondo omologato, piatto e tangibile su un lato della monetina e il mondo segreto, intimo, irreale, il mondo di sogno della mia mente sull’altro. Nessuno dei due è intero e vero senza l’altro”.

Due mondi che non si danno, tuttavia, come opposti, ma continuamente in contatto, in dialogo fra di loro; uno non è più autentico dell’altro, la realtà, per quanto dolorosa e opprimente, non è marchiata dal sigillo dell’inautentico per aprire vie di evasione fantastica nel sogno o nella fantasticheria. Tutto a contrario: le due dimensioni sono poste sullo stesso piano di realtà, sono entrambe costruzioni mentali delle coscienze a partire dalle proprie percezioni fisiche e mentali, sono modalità diverse, e necessarie, di esistenza: “Tutto è stato reale, tutto è avvenuto nel piano dell’esistenza in cui mangiamo e beviamo e ci pettiniamo e mentiamo e andiamo al lavoro e moriamo di nostalgia e di solitudine. Reale è anche il sogno, reali sono anche i primi ricordi, reale (quanto reale!) è anche la finzione”.

E alla dimensione materiale e a quella onirica, infatti, si potrebbe aggiungere quella della virtualità: molti episodi sono costruiti proprio come esplorazioni della controfattualità, della possibilità di esistenze diverse, di altre vite, in un regime di simultaneità di mondi, di esperienze, di dimensioni diverse: “Tutti gli infiniti mondi generati dalle scelte e dai casi della mia vita sono altrettanto concreti e veri”.

E infatti, tracciare delle linee di demarcazione nette nell’universo narrativo di Solenoide è impossibile: il racconto di una desolante attività lavorativa in una anonima scuola media di Bucarest o la descrizione squallida di un corpo sporco e assediato dai pidocchi convive senza soluzione di continuità con la scena più visionaria, con continui sconfinamenti nel fantastico, nel misticismo, nella magia, nell’assurdo, nel grottesco.

Fisicità e magia, corpo e mente continuamente sono messi, non a caso, in un rapporto dialettico da Cărtărescu: il primo modo in cui il protagonista entra in contatto con il mondo è quello del corpo, della sensibilità fisica, dell’erotismo, delle frequenti escrezioni – che stanno forse lì a segnalare questa continua necessità di uscita dall’io per andare verso la realtà esterna. È un corpo che vive in un rapporto parassitario – di parassiti, acari, insetti è pieno Solenoide – con il mondo e, simultaneamente è invaso dai parassiti (basti pensare al bellissimo incipit).

Questa esibita corporeità – che spesso è frammentaria, anatomica, aperta per l’esplorazione, ma anche cadaverica – è, tuttavia, sempre posta in relazione con l’universo interiore, con la necessità di esplorare la vita dello spirito e della mente, vissuta come luogo di deposito di anomalie, che sono allo stesso tempo il segno di un contatto rotto con la realtà e contemporaneamente uno spazio di possibilità di conoscenza, sul sé e sul mondo: “Sospetto infatti – scrive Cărtărescu – che le mie anomalie abbiano origine nella zona della mente in cui queste distinzioni non funzionano, e che questa zona della mia mente non sia altro che un’altra anomalia. Le storie del mio resoconto saranno fantomatiche e trasparenti, ma sono così i mondi in cui viviamo simultaneamente”.

Non a caso, sono due gli strumenti retorici utilizzati principalmente dal narratore: l’accumulazione caotica spesso in forme elencative e scandite da alcune simmetrie sintattiche (un tentativo linguistico di tenere a freno l’ingestibilità del mondo) e le forme del paragone, della similitudine e della metafora: una mossa formale per cercare di cogliere delle connessioni in questo mondo ingarbugliato; e convive, in questo libro, in cui nessun paradigma consolidato appare sufficiente in sé, ogni forma possibile di sapere: dal riferimento alla fisica quantistica, agli strumenti scientifici, alla filosofia, alla matematica, alla mitologia, alla religione, in un sincretismo totale dei saperi, che informa una precisa idea di letteratura: “L’arte non ha senso se non è evasione. Se non nasce dalla disperazione di essere prigioniero. Non ho considerazione per l’arte che porta conforto e sollievo, per romanzi e musica e pittura che ti rendono più sopportabile la permanenza in cella”.

La cella sembra, tuttavia, essere piuttosto un labirinto. Proprio il mitologema del labirinto torna in continuazione all’interno del romanzo e si incarna in primo luogo nella città di Bucarest, con le sue strade, le sue case, la sua atmosfera tetra e quasi irreale, una città “vuota di gente ma piena di me stesso simile a una rete di cunicoli nell’epidermide di una qualche divinità, abitata da un unico acaro microscopico” e che si fa quasi simulacro della realtà intera (“là mi pareva finisse non la città, ma la realtà”). Bucarest, oltre a essere il luogo in cui si muove il protagonista, è anche lo spazio dell’infanzia: continuamente l’io narrante torna a quel tempo, identificandolo come un nodo scoperto della formazione della coscienza e per mimare paradossalmente il processo di scoperta della realtà. Ma la modalità del ricordo è anche l’ennesimo tentativo di esplorare una forma di conoscenza come anamnesi – nel doppio significato clinico e memoriale.

L’infanzia, il ricordo e il labirinto sono anche dei modi che il narratore utilizza per destrutturare la temporalità del suo racconto: in una concezione siffatta della realtà, infatti, ogni linearità è destinata a sgretolarsi, il tempo stesso, in un passaggio che ricorda da vicino alcune pagine di Austerlitz di W.G. Sebald, è definito come irreale: le età, le epoche, i corpi, per il protagonista, coesistono e si compenetrano “nell’allucinazione unanime della mente e del mondo”. Ma il mondo, per Cărtărescu, esiste, non è un’allucinazione. Sta lì in tutta la sua durezza. Come conoscerlo è il rovello con cui incessantemente si tortura il narratore. Cosa farne, con questo mondo, resta la domanda su cui questo romanzo continua a interrogarsi incessantemente, senza offrire nessuna facile soluzione.


Mircea Cărtărescu, Solenoide, tr. it. di B. Mazzoni, Il Saggiatore, Milano 2021, 944 pp., € 29,00