Circospetti ci si muove nel momento che segue la battaglia, quando, al riparo dopo la fuga disordinata, ci si chiede se c’è ancora qualcuno, là fuori, o se si è gli unici sopravvissuti; circospetti ci si muove a catastrofe avvenuta, annusando l’aria per capire se il mondo è finito, e domandandosi cosa succederà, dopo; circospetti ci si muove irrigidendo i muscoli a ogni sguardo che incrocia lo sguardo, scrutando attentamente per decidere se si deve aver paura e dunque farli scattare, i muscoli, o se invece vi si possono riconoscere gli stessi occhi, la stessa faccia, «quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova» (Paolo Conte, Genova per noi).
È attorno a questo noi che si aggirano gli undici racconti dell’antologia Circospetti ci muoviamo (a cura di Michele Vaccari), pubblicata daeffequ per il ventesimo anniversario dei fatti del G8: nel tentativo di ricomporre i frammenti di un soggetto collettivo che si affaccia su Genova come quello della canzone di Paolo Conte da cui prende il titolo. Nel tentativo, cioè, di ridisegnare su uno specchio in cui riconoscersi i contorni delle facce di chi c’è stato, di chi ha visto dal vivo o alla televisione, di chi non c’era ancora ma per qualche motivo non riesce a non sentirsi parte di una storia che le narrazioni dominanti vorrebbero morta lì – picchiata a sangue in via Tolemaide, uccisa a piazza Alimonda, torturata alla Diaz e a Bolzaneto, umiliata e sepolta nelle aule di tribunale. Il “movimento dei movimenti” caduto in un’imboscata, disperso in mille pezzi, condannato a distinguere violenti e nonviolenti, buoni e cattivi: questo ci raccontano gli approfondimenti speciali e i reducismi susseguitisi sulla stampa in occasione del ventennale; nel migliore dei casi rivendicando o concedendo la ragione del senno di poi, che ai matti e ai martiri non si nega mai. Va bene, grazie; e adesso, vent’anni dopo, che fare? Lo dice molto bene Vaccari nell’introduzione: «ognuno di noi è fondamento di comunità, andiamo a recuperarci, anche a costo di farlo uno a uno». Muovendosi lentamente, guardandosi negli occhi, pazientemente, con circospezione.
Se c’è un noida rimettere insieme, allora forse proprio l’antologia, il racconto corale e polifonico, è lo strumento migliore per ritornare a Genova; e per farlo sulla scia di un movimento che rivendicava la proliferazione dei racconti di fronte alla narrazione unica del modello neoliberista che sempre più (anda)va imponendosi, giostrata dai detentori dei mezzi di produzione dell’immaginario. «Noi invece abbiamo tante storie da proporre, non una sola. Ma bisogna trovare i mezzi per farle conoscere, perché le nostre storie succedono ogni giorno», diceva lo scrittore Ariel Dorfman al quotidiano argentino «Página» 12 nel gennaio di quello stesso 2001, raccontando il forum sociale mondiale di Porto Alegre. È infatti il racconto che, ricorda sempre Vaccari, in quanto testimonianza «non per forza verosimile, non per forza mimetica, per forza intima» può «svelare la forza inconscia di cui spesso perde consapevolezza la comunità».
In Italia chi con più potenza ha saputo raccontare il G8 attraverso un simile gioco di rifrazioni tra vissuto personale e significato comunitario è senza dubbio Zerocalcare, calando la propria esperienza di adolescente in Dimentica il mio nome e Macerie prime in particolare. Ma anche parlando in fondo sempre di Genova: con i manifesti che addobbano le camere dei suoi personaggi, con il riproporsi delle immagini dell’omicidio di Carlo Giuliani quasi fossero un riflesso pavloviano, con la trasfigurazione simbolica di quell’estintore «che lo volevamo raccogliere tutti», come dice nel suo primo racconto a fumetti La nostra storia alla sbarra, pubblicato nel volume collettivo GEvsG8 (2006) i cui ricavi erano destinati al supporto legale dei manifestanti inquisiti. Sulla scia di una simile voce sembrano prendere corpo i racconti di Circospetti ci muoviamo; di una voce che, anche quando rappresenta l’intimità, parla sempre in nome di una comunità che nella lotta per la verità e la giustizia sui fatti del G8 trova il suo primo germoglio di sensibilità politica. «La memoria è un ingranaggio collettivo», concludeva Zerocalcare in quel racconto, e anche le storie possono contribuire a tenerlo in movimento, pare suggerire l’antologia di effequ. Che non a caso si chiude con una voce narrante femminile intenta ad avvolgere gomitoli di storie per farne arazzi: «Sono una creatura di nuvole e fango», ci dice questa voce, «e nella mia borsa raduno le parole che nessuno ha voluto ascoltare, i silenzi imbastiti di dolore, i passi delle vittime, le tracce degli invisibili» (Nicoletta Vallorani, Il chiodo nel tempo); tessendo una memoria che non è mai indifferente, ma che serve invece a schierarsi, a raccogliere «la tristezza di quel che si è perso per niente» che «rimane sospesa nell’aria».
Ma la forza di Circospetti ci muoviamo risiede soprattutto nella composizione del collettivo all’interno del quale ognuno propone la sua storia. Da un punto di vista generazionale, innanzitutto, se scorrendo l’indice di autrici e autori si va da Giuseppe Fabro, nato nel 1949, a Matteo Porru che nei giorni del G8 aveva solo pochi mesi. Non si presenta cioè come un’adunata di reduci, una sequela di testimonianze in nome di una memoria da condividere come un male comune per sentirsi meglio, né di una serie di fotografie messe in fila come quelle con cui apre l’antologia La parte del torto di Paola Ronco. Qui ci vengono proposte diverse prospettive, in senso spaziale e temporale, diversi modi di essere statia Genova, di avere vistoGenova, diversi modi di tornarea Genova: dai protagonisti di Ronco che escono dalle foto per farsi giustizia perché non ci stanno a fare «il santino per i reduci» a quella di Valentina Maini che rimane sospesa alla stazione a guardare i treni, senza mai arrivare veramente in città (Un’idea come un’altra); dalla distanza spaziale degli echi del G8 giunti alla cucina di un beach club dove è costretto a passare lavorando l’estate – quell’estate – il protagonista di Ivan Carozzi (Piatti puliti), a quella temporale del diario ondivago di Ndack Mbaye, con cui ricostruisce i vuoti di una complicata identità meticcia – chi amare, per cosa lottare? –, riconducendo tutto alla fine a quella manifestazione a Genova per la quale, bambina, aveva “fatto i cartelloni” con mamma e papà (Per chi resta); dalla città, luogo fisico in cui scorre il fiume in piena del movimento raccontato con i termini dell’ingegneria idraulica in Esondazione di Veronica Galletta, alla dimensione parallela pervasa dal marcio in cui Orso Tosco fa risuonare le parole dell’epoca nera delle stragi e dei depistaggi (Gadda Gadda Boy). Certo, il rischio della dispersione è dietro l’angolo; ma intanto non sembra poco cercare di tenere insieme i fili di tutti questi diversi modi di tornare a Genova, se si pensa a un movimento che proprio sui diversi modi di stare a Genova si è spaccato fino a scomparire.
C’è poi una parola, una parola-chiave, che è impossibile non citare: ed è “trauma”. Tutti i racconti di quelle giornate si svolgono naturalmente nel segno del trauma, personale o collettivo che sia: la perdita dell’innocenza, i manifestanti nonviolenti sopraffatti dal rapido costituirsi e dissolversi del blocco nero, le regole d’ingaggio che saltano, l’impotente esposizione ai pestaggi, la polizia che ridefinisce a manganellate i limiti della legalità, una democrazia che si trasforma tutta in una volta in una dittatura sudamericana (per riprendere solo alcuni clichés). Così è anche nelle opere letterarie sul G8 pubblicate negli ultimi vent’anni. C’è la violenza che lascia indelebili I segni sulla pelle nel romanzo di Stefano Tassinari (2003), lo sgomento di chi nel comportamento dei poliziotti rivede le sequenze dei pestaggi rituali in carcere (Massimo Carlotto, Il maestro di nodi, 2002), quello del manifestante che si accorge di trovarsi di fronte a una rivolta come non ne aveva mai immaginate, «una rivolta di sbirri» (Wu Ming 1, Trommeln in Genua, 2010); c’è persino il trauma di Montalbano che scopre quanto possono essere fascisti i membri del corpo di polizia cui pure lui, commissario democratico e progressista, appartiene fieramente (Andrea Camilleri, Il giro di boa, 2002). E a tutte queste narrazioni della violenza poliziesca (cui si possono aggiungere ACAB di Carlo Bonini e Genova sembrava d’oro e d’argento di Giacomo Gensini, 2009) soggiace poi l’ombra del trauma che si materializza quando si riconosce, come fa qui Roberta Covelli, che «ricordare la disorganizzazione, analizzare gli errori, denunciare le colpe di cui si macchiarono le forze dell’ordine significa concentrarsi ancora una volta sull’eccezione, e finire per perdere di vista l’inquietante regola» (L’eccezione e la regola).
Da una parte, certamente il trauma rende bene la dimensione epocale dei fatti, di quella brusca prefigurazione italiana del ritorno dell’evento storico che sarebbe stato sancito poi definitivamente dall’attentato alle Torri Gemelle. E in un certo senso è proprio da questo ritorno traumatico ai moti della storia che sgorgano i discorsi attorno a quelle giornate – tentando di ricostruire quanto successo mediante le testimonianze, cercando di ricostruirne un significato, di fornirne una spiegazione plausibile, di attribuire responsabilità, di tracciare insomma i contorni di una verità. Ma una comunità chiamata a radunarsi intorno a un trauma primordiale è una comunità fondata su una dichiarazione di impotenza, o meglio, di impoliticità.
Ecco allora che i racconti di Circospetti ci muoviamo non solo costituiscono un «un principio di accettazione», come vorrebbe Vaccari; ma, cosa ancora più importante, finiscono per contrapporre al trauma un altro vero e proprio paradigma: quello della nascita. Se molti di essi si trattengono sull’analisi e sulla rievocazione, sulla critica delle parole con cui si è raccontato il G8, sulla costruzione di un’identità personale in rapporto ai fatti e alla loro rappresentazione, c’è un nucleo della raccolta che si incarica di condurre più in là la scrittura: proponendo il ritorno a quei giorni come momento di una nascita, piuttosto che limitarlo a quell’atto di negromanzia che è dare voce ai morti e ai dimenticati. Il sottotitolo del libro, del resto, è Genova 2001: avere vent’anni: un’espressione che si addice a qualcuno o qualcosa che lì è nato, e non morto. È allora la nascita di un figlio – inaspettata, in anticipo – che ne L’appuntamento di Giuseppe Fabro conduce il protagonista diretto a Genova lontano dal massacro, dal sangue, dal sacrificio (pur con lo spettro di un fratello perduto in mezzo all’inferno); è la nascita di un sentimento, un incomprensibile e sconcertante benessere in mezzo al caos della rivolta, che viene a coincidere con il fare l’amore la prima volta in Non di Daniele Vicari. Un sentimento che in fin dei conti non è che l’indizio di un noi che viene alla luce, da cui dunque scaturisce la rabbiosa assunzione di una responsabilità collettiva: «non ho mai detto una parola su quello che ho vissuto a Genova in quei giorni. Ma se qualcuno pensa che sono il solo a non averlo fatto, posso dire con sicurezza che si sbaglia. Si sbaglia di grosso».
Ma vale soprattutto la pena riportare alcune righe di Se viene il temporale di Matteo Porru, il passo in cui la madre che lo tiene in braccio neonato vede alla televisione le cariche della polizia:
E mamma fu turbata. Molto. Perché se quel disastro fosse accaduto tre, due o anche solo un anno prima, a lei sarebbe importato poco, se non niente, di quelle scene di guerriglia. Perché non la riguardava davvero, perché lei in piazza non sarebbe mai scesa, neanche se avesse condiviso quegli ideali. E poi, per carattere, non avrebbe avuto un motivo valido per risentirsi. Invece è accaduto il venti luglio del Duemilauno, con un figlio in braccio, davanti a una storia brutta, al male che vince e al bene che perde. Si chiese a che servissero le favole, se un figlio deve essere al sicuro ma fuori la vita non va così.
Diventare genitori, inteso in senso metaforico, in senso paradigmatico, significa proprio questo: assumersi la responsabilità di creare insieme qualcuno o qualcosa esposto al male del mondo – scegliere di fronteggiare il male del mondo, di riconoscerlo e guardarlo negli occhi. Scegliere che il male del mondo ci riguarda.
La nascita obbliga a confrontarsi con l’altro e con la pluralità: si crea solo insieme a un altro da sé, si crea solo un altro da sé. E se «la virtù più rivoluzionaria dell’essere umano sta nella capacità di farsi noi», come scrive Federico Zappini nella postfazione, immaginarsi capaci di pro-creare qualcosa è, banalmente, il presupposto di ogni azione rivoluzionaria. Tornando alle pagine scritte: Circospetti ci muoviamo invita esplicitamente a ricominciare a pensarsi come un noi che può dare vita a qualcosa. Forse questo invito si disperde nella disomogeneità dei racconti, e forse, per ricominciare, ascoltare delle storie può sembrare poco; ma davanti a un immaginario che, ancora di più da Genova in poi, fuori dalle nostre bolle è sempre più colonizzato dall’apatia politica e dalla paura del contatto, è già qualcosa.
AA. VV., Circospetti ci muoviamo. Genova 2001: avere vent’anni, a c. di M. Vaccari, Firenze, effequ, 208 pp., € 17.