È stata da poco pubblicata da Chiarelettere una raccolta urticante, sapientemente curata da Giorgio Morbello: si chiama Uno sguardo tagliente: articoli e reportage 1986-2015 e vi si trova il meglio della scrittura giornalistica di Luca Rastello. Sbandierarlo come libro ‘necessario’ sarebbe poco più di un truismo, in particolare in una recensione. Eppure, le pagine di Uno sguardo tagliente suonano necessarie per chiunque senta la mancanza della voce di Rastello. Per chiunque fantastichi su che cosa avrebbe espresso oggi, con la sua spietata esattezza, sull’America di Trump e post-Trump, o sul governo Draghi e l’epidemia, o sul ritiro dell’Occidente dall’Afghanistan, la raccolta offre indizi significativi. Per chiunque sia interessato, d’altra parte, alla scrittura letteraria rastelliana (fenomeno non ancora del tutto decifrato, in cui il lavoro sul linguaggio assume senza dubbio un ruolo dirimente), Uno sguardo tagliente offre un riferimento ineludibile, anche per differentiam. Ci arriveremo alla fine.
Molti conoscono Rastello per i suoi due romanzi più noti (il celebrato Piove all’insù, il controverso I Buoni), ma alcuni potrebbero ignorare che Rastello è stato anche, o forse soprattutto, giornalista. Certo, l’interesse per letteratura e dintorni connotava esplicitamente il suo lavoro fin dagli esordi su «L’Indice dei Libri del Mese». Le bocciature delle antologie giovanilistiche curate da Pier Vittorio Tondelli, un autore «da troppo tempo giovane» (p. 15), oltre che dell’ideologia guerrafondaia del Peter Handke commentatore della guerra in Serbia, testimoniano dell’inclinazione costante di Rastello per la polemica fondata e per la letteratura come metodo non ingenuo d’intervento nel mondo. In questo senso, Rastello è per complessità e assenza di moralismo tanto lontano dai cantori dell’impegno in favor di telecamera quanto lo è dalle sirene omeriche che ancora tessono le lodi della letteratura come torre d’avorio. Dall’opera giornalistica, Rastello traeva molti spunti per l’opera letteraria. Si sa che è proprio da un reportage per «Diario della settimana» sui bambini delle fogne di Bucarest (Il clown del sottosuolo, per fortuna presente tra gli articoli antologizzati in Uno sguardo tagliente) che nascerà lo spunto per la realizzazione, molti anni dopo, de I Buoni.
Prima nel «Diario» diretto da Enrico Deaglio, poi nel gruppo de «La Repubblica», Rastello si occupa degli argomenti e delle zone del mondo più disparate: dai primi squilli del movimento No Tav in Val di Susa alle vie afghane e tagike dell’eroina; dal digiuno forzato dei nordcoreani alle meraviglie di una vacanza famigliare in Amazzonia. I luoghi sono, non a caso, tra i protagonisti più evidenti del libro. Una figura dalla difficile definizione, l’ipotiposi, contraddistingue la descrizione di luoghi e contesti in Uno sguardo tagliente. La geografia rastelliana vive nell’accumulatio, negli elenchi; direbbe Umberto Eco, nella ‘vertigine della lista’. Come nel caso della Genova che fa da sfondo all’azione criminale del killer Donato Bilancia (pp. 113-114):
C’è un locale che allinea videogiochi, calciobalilla e biliardi in un cuneo dalla punta smussata sull’angolo del corso, con un giardinetto stinto e le stecche buttate dentro un secchio all’ingresso, tra due file di simulatori elettronici: di guerra, di volo, del gioco del pallone, in fila davanti a sedili dell’astronave. […] spariscono le aiuole, gli alberi, i volumi dei palazzi si fanno più scuri, incombenti, via le piante, i giardini, quasi via anche il cielo, sostituito dall’ombra di case popolari, soglie di barlatteria, qualche scala, profili di ferro battuto e comignoli di latta controcielo. Solo i vezzi liberty resistono su case con il carrozziere a pian terreno. Aria grigia di metallo, gru, androni con gli infissi in ghisa e, dietro, piastrelle biancoazzurre lungo gli scivoli al sottosuolo delle autorimesse, piombo, latta e stagno. Poi le case fasciste, le ringhiere sulla ferrovia da cui vedi monasteri e fortezza e montagne grigie come olive.
Come Terralba, anche le altre periferie del mondo raccontate da Rastello (tra cui la Torino pre-Olimpiadi e le favelas dove Ronaldo il Fenomeno calcia per le prime volte un pallone) covano nelle loro brutture architettoniche i malesseri sociali e la deprivazione culturale da cui spesso scaturisce il male. Non vi sono tracce di morbosa fascinazione per il “male assoluto” dei killer come Bilancia o dei trafficanti di droga afghani: le loro azioni sono una delle possibili risultanti etiche dei contesti che abitano e della relazioni di forza in cui si trovano ad agire. Non bastano tuttavia queste considerazioni ad assolverli, o nemmeno ad attenuarne le responsabilità.
Rastello giornalista osserva molto, prima di esprimere dei giudizi espliciti su ciò di cui sta scrivendo. Rastello romanziere è, a partire dall’incipit, apparentemente più connotativo del reporter che scrive sui giornali. Si ha la sensazione che l’opinione del giornalista giochi a nascondino con il lettore, per poi uscire alla scoperta solo in chiusura di pezzo: spesso attraverso frasi finali fulminanti, apodittiche. La struttura-tipo dell’articolo rastelliano si compone di tre fasi. In una prima fase viene disegnato un ampio e chiaro riassunto della situazione trattata. In una seconda fase si attua una sorta di zoom in cinematografico, dove un dettaglio o un elemento minore del grande affresco viene messo sotto la lente del vivisezionatore (come Rastello stesso definiva metaforicamente il ruolo ideale dell’intellettuale in questa società, e come egli stesso certamente era). In questa seconda sezione emergono contraddizioni scomode: affiora, per esempio, l’idea che ciò che spesso appare come un conflitto tra buoni e cattivi (esemplari in questo senso gli interventi sull’Afghanistan occupato dai militari USA) sia in realtà un più complesso gioco delle parti, alimentato da interessi ulteriori e meno nobili di quelli paventati. Chiude l’articolo un paragrafo in cui l’io dell’autore esce finalmente allo scoperto, la posizione del giornalista viene dichiarata, il pezzo diventa esplicitamente “d’opinione”.
Un paio di esempi. In conclusione di Diritto d’asilo, un illuminante reportage sui metodi brutali dell’Unione Europea per impedire ai richiedenti asilo di oltrepassare la frontiera europea, sostenendo allo stesso tempo un’ipocrita retorica dell’accoglienza (in merito, leggasi anche La frontiera addosso dello stesso Rastello), troviamo queste parole (p. 216):
Le migliaia di morti davanti alle porte della nostra Fortezza, l’esercito di Frontex, i centri di detenzione amministrativa fuori confine, gli accordi per i rimpatri forzati ci parlano allora della nostra inimmaginabile capacità di rimozione e mascheramento della realtà, ci mostrano un capolavoro di segregazione che si regge, con il cemento dell’ipocrisia, su un falso mito. Quello dell’Europa dei diritti. Goebbels ne sarebbe ammirato.
La chiamata in causa di Goebbels può suonare eccessiva per questi tempi in cui la reductio ad Hitlerum è non solo pane quotidiano nel web, dove la legge di Godwin si dimostra ogni giorno più esatta, ma dove il confronto iperbolico con il nazismo invade anche il dibattito mediatico più ‘serio’ ed elitario, grazie ad agambismi e pseudo-agambismi d’accatto. Eppure paragonare la ragion cinica di noi europei, fedeli non praticanti della falsa mitologia dei diritti civili, alla propaganda razzista della Kulturkampf nazista, che faceva della tecnicizzazione delle mitologie la sua arma principale, può risultare forse impietoso, ma non del tutto impreciso.
Un secondo esempio di chiusa memorabile la offre Fame di Stato, sulle condizioni alimentari dei cittadini nordcoreani. Sul rapporto conflittuale, ma anche reciprocamente vantaggioso a livello economico tra Nord e Sud Corea, Rastello chiosa (p. 222): «La frontiera è chiusa agli uomini, non ai capitali, e le due Coree sembrano avviate a realizzare il modello inedito di un unico sistema economico con due regimi: il nuovo miracolo asiatico. Forse è questo che oggi attira gli occidentali». Come nel primo caso, la falsa coscienza dell’Occidente è anche qui al centro dell’osservazione spietata ed esatta di Rastello. Chi conosce l’autore, intuisce che quello delle contraddizioni e delle ipocrisie europee è uno dei temi ricorsivi di Uno sguardo tagliente come della scrittura di Rastello più in generale. Emerge ancora, tra altri articoli, in Scomparsi due volte, dove si racconta delle pressioni fatte ai giornali statunitensi per sottostimare le cifre delle vittime civili in Iraq. È in questo nucleo tematico (ma più che tematico, etico-filosofico) che si trova l’accordo tra il Rastello reporter e il Rastello scrittore di romanzi: nella volontà di disseppellire, narrando, i rapporti di forza latenti, le istituzioni coperte, le burocrazie segrete, le contraddizioni imbarazzanti. L’altra faccia dei poteri è ciò che interessa al giornalista tanto quanto al romanziere.
Oltre alle modalità proprie della descrizione di luoghi e allo stile peculiare delle sue conclusioni, il giornalismo di Rastello si caratterizza poi per un’altra presenza ricorsiva, quasi ossessiva: quella dei nomi e dei cognomi dei protagonisti. Negli articoli appare infatti una selva di personaggi esplicitamente nominati e spesso sconosciuti ai più, che, a seconda dei casi, giocano una parte rilevante nel traffico di esseri umani dall’Albania, nelle guerre del Nepal, nel regime tagiko, o nell’Afganistan occupato. Gli articoli di Rastello sono anche dei racconti, soprattutto nella prima parte. Emerge qui una differenza sostanziale con l’opera romanzesca, dove i nomi dei protagonisti, spesso modellati su persone reali, sono dramatis personae, celati sotto nomi di finzione. Nel caso de I Buoni, in particolare, più di qualcuno ha accusato Rastello di non aver avuto il coraggio di ‘fare i nomi’. Don Silvano, per esempio, assomiglia troppo a Don Ciotti: perché non esplicitarlo, nascondendosi dietro il dito di un nome fittizio? Ora che è di nuovo possibile accedere facilmente alla scrittura giornalistica di Rastello, si osserva che il coraggio dei nomi non gli mancava di certo. Il senso della scelta romanzesca di tacere alcuni nomi si spiega con la poetica rastelliana: l’intento di scrivere opere letterarie con ambizioni universali. Don Silvano c’est moi, è in fondo il messaggio de I Buoni.
Se il reportage giornalistico deve occuparsi del particolare, la letteratura deve raccontare l’universale, trascendere le contingenze per giungere al nodo di problematiche assolute e irrisolte: per esempio, il male che si genera quando si vuole imporre il bene, l’eterogenesi dei fini come regola dell’azione solidale. In Uno sguardo tagliente non mancano riferimenti puntuali agli aspetti contraddittori del terzo settore: «Un tempo buona coscienza dell’Occidente, oggi il mondo della solidarietà internazionale organizzata è al centro di equivoci drammatici che ne mettono in pericolo l’indipendenza, il rigore etico e la neutralità» (p. 269), si legge per esempio in Nessuno è buono in una guerra sbagliata. Se queste considerazioni trovano spazio in un articolo di giornale, è però sulla pagina di un romanzo che possono essere davvero svolte, argomentate, contraddette, ribadite.
Uno sguardo tagliente si dimostra un libro necessario, quindi, non solo per la vastità dei temi e per l’intelligenza degli articoli del Rastello giornalista, ma anche come misura della differenza tra scrittura giornalistica e letteraria. Tale differenza non può essere “ontologica”: la lezione post-strutturalista sulla natura intrinsecamente narrativa delle scritture e sulle falle referenziali del linguaggio va tenuta ancora presente, tutto sommato. Tuttavia, in un contesto in cui molti Pangloss inneggiano, spesso acriticamente, all’intermedialità come valore creativo di per sé (fingendo di ignorare che essa altro non è che una conditio sine qua non dell’industria culturale contemporanea), il giornalismo di Rastello induce a riflettere sulla necessità innanzitutto etica di insistere sulle specificità proprie delle varie scritture. Insomma, due mestieri diversi, quello del giornalista e quello dello scrittore: in comune, lo stesso sguardo tagliente, lo stesso desiderio di precisione.
Luca Rastello, Uno sguardo tagliente: articoli e reportage 1986-2015, a cura di G. Morbello, Chiarelettere, Milano 2021, 404 pp. 18€